Firenze, Santa Maria Novella, Cappella Tornabuoni. Ghirlandaio: "Annunciazione di Zaccaria" (part.) Da sinistra Marsilio Ficino, Cristoforo Landino, Angelo Poliziano e Demetrios Chalkondyles |
Tra le preoccupazioni che
Italo Calvino si portava dietro negli ultimi tempi e che trovano un
puntuale riscontro nelle Lezioni americane, c’è quella per
la deriva del linguaggio, anzi, per la peste che sembra averlo
colpito. Un uso del linguaggio sciatto, impreciso, banale, in
definitiva furbesco, truffaldino e corruttore, specchio fedele di una
crisi di civiltà. Le patologie del linguaggio sono spia delle
malattie morali che svuotano dall’interno le società. Scienza
troppo austera e rigorosa, la filologia non è mai stata popolare da
noi, e fa impressione ritrovarla come chiave di volta della corposa
antologia dedicata dai «Millenni» Einaudi agli Umanisti italiani
per le cure impeccabili di Raphael Ebgi. L’intenso, ipnotico saggio
introduttivo di Massimo Cacciari è un libro nel libro, dal titolo
perentorio: Ripensare l’Umanesimo, non come un armonioso
Eden di grandi spiriti, ma come dibattito tormentato che affronta di
petto i tempi drammatici in cui vive per guardare oltre, utilizzando
la classicità per pensare un nuovo modello di società civile.
Filologia creativa
Filologia non come arida
pedanteria incapace di intendere la bellezza artistica, ma amore per
ogni forma di Logos, per la parola limpida, concreta, pragmatica che
è tipica del latino, capace di significare con precisione e di
parlare a tutti. La primazia che l’Umanesimo riserva alla filologia
non è comodo rifugio in un passato estinto, ma il fondamento di un
preciso progetto politico, prima ancora che culturale. Per Lorenzo
Valla la pietas per il passato, il delicato lavoro di restauro
della parola che fonda la vera conoscenza è un sentimento vuoto se
non orientato su un futuro da inventare proprio perché si presenta
drammatico. La filologia deve nutrire l’immaginazione, diventare
forza creativa.
Le lettere, i
trattatelli, i dialoghi di Petrarca, Leonardo Bruni, Poggio
Bracciolini, Lorenzo Valla, Leon Battista Alberti, Marsilio Ficino,
Pico della Mirandola, Leonardo, Savonarola, Machiavelli vivono della
tensione tra presagi apocalittici, aspirazione all’armonia e alla
bellezza e una teologia che non spenga la sete di conoscenza, ma anzi
faccia sua la forza rabdomantica con cui scienza, arte e poesia
interrogano il mistero, sfidano l’indicibile.
La prima sezione
dell’antologia si intitola Umanesimo tragico e documenta una
consapevolezza della fragilità umana mai così acuta e angosciosa.
Accanto ai pericoli delle malattie, Alberti cataloga la fatica di
crescere, il sadismo dei pedagoghi, l’instabilità creata dalle
emozioni, i capricci della Fortuna, le nostre stesse smanie di
possesso, spesso distruttive. Lupi gli uni agli altri, frastornati
dai ciarlatani, gli uomini non possono trovar balsami per le proprie
ferite, ma sono obbligati a conoscerle. Il sapere che nasce dalla
sofferenza segna il più alto grado di virtù, e produce anche la
sana voluttà d’ogni attività di ricerca.
I nuovi antichi
Per diventare incisiva,
la speculazione filosofica deve dunque fondarsi sul rigore della
parola. Figure distinte, filologia, filosofia e teologia sono
chiamate a integrarsi, a dialogare, a progettare una nuova pedagogia
civile, nemica dell’astrazione, tutta volta ad arrivare al cuore
delle cose. Il nesso profondo che le unisce è già in Dante, ma vale
anche per l’architettura e per le scienze applicate. Le opere degli
antichi, dice Alberti, non devono essere oggetto di ammirazione
sentimentale, ma studiate accuratamente in ogni dettaglio. Non sono
un modello statico da imitare, osservare Roma significa capire come i
romani risolvevano i loro problemi, cavarne un metodo per risolvere i
nostri, essere capaci di elaborare forme nuove che a loro volta
possano fondare una tradizione. A salvarci non basta l’autorità
dei classici. Occorre praticare l'osservazione instancabile della
realtà e dei suoi prodigi. Leonardo non condivideva gli slanci
metafisici dei neoplatonici fiorentini, ma restava contagiato dalla
loro ammirazione per le meraviglie del creato, per il numinoso che in
quelle è cifrato.
Pensiero e azione
Bisogna elaborare un mix
coerente di pensiero e azione. I nodi da sciogliere sono molti: il
rapporto tra Aristotele, Platone e la rivelazione, tra libero
arbitrio e volontà divina, tra vita contemplativa e vita attiva; il
ruolo del sapiente alle prese con una creazione perpetuamente in
progress; il problema della traducibilità delle tante lingue in cui
le civiltà si esprimono; la liberazione spirituale che si può
attuare attraverso la conoscenza, come prescrivevano i fascinosi
testi ermetici tradotti da Marsilio Ficino. Non sono discorsi
riservati agli specialisti o agli storici. Il rapporto con la
tradizione, la necessità di basare ogni progetto di rifondazione su
una rivisitazione del canone, sono uno di quei passaggi che ogni
generazione è chiamata ad affrontare, se vuole restare padrona del
proprio destino. Nessuno lo ha interpretato meglio degli umanisti
italiani.
“La Stampa”, 20
novembre 2016
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