La luna. È curioso che
in questa serata romana piovosa e fredda si parta dalla luna e si
arrivi alla luna. Era quella che il bambino testardo Pietro pretese
in regalo dai suoi genitori il giorno in cui gli chiesero di fare la
pipì nel vasino: «In cambio voglio la luna!». Qui nel salone di
casa Ingrao, le finestre sono abbassate e si sente l'acqua
scrosciare. E la luna chissà dove si nasconde. Ma dalle parole
scolpite di Pietro Ingrao, del poeta prima che del politico comunista
che ha attraversato decenni di storia nazionale, la sfera lontana
sembra avvicinarsi e accendersi luminosa, quando ricordano il suo
paese, Lenola, situato tra i Monti Aurunci e la piana di Fondi:
«Provo una sensazione fisica molto precisa, pensando a certe serate
dell'infanzia. Il mio era un paese contadino, con ceppi patronali e
gruppi di artigianato. Fu mio nonno Francesco, siciliano di Girgenti
e garibaldino, a costruire quella casa a metà strada tra il paese e
il colle. Lenola era allora sul confine tra il Regno dei Borbone e lo
Stato pontificio. Dalla casa che saliva verso il colle del santuario
c'erano balconi che si affacciavano sull'orizzonte e io provavo
un'emozione molto forte quando riuscivo a cogliere, stavo per dire
acciuffare, il sorgere della luna dietro le spalle montuose. Specie
nelle notti d'estate, guardavo la corona di montagne, con cieli
gremitissimi di stelle: quello spettacolo che inondava il cielo del
suo chiarore è diventato per me il simbolo di un oltre che alludeva
ad altri mondi».
Recita «L'infinito»,
Ingrao: «Nella poesia italiana Leopardi mi sembra l'evento più
alto. Ho studiato Giurisprudenza per un ordine prestabilito della
famiglia, poi Lettere, amavo soprattutto la letteratura, e in modo
caldo, appassionato, la poesia. Le due pagine di invenzione artistica
che apprezzo di più sono di Leopardi: "L'infinito" e "Le
ricordanze". La cima sono quei versi di grande splendore e
scuotimento».
Seduto sul suo divano
chiaro, il viso immobile, rari sorrisi, aiutando la parola con il
lento movimento di una mano, Ingrao non abbandona la ben nota
espressione severa, come eternamente imbronciata, che fu del politico
e poi del Presidente della Camera. Anche quando ricorda i suoi
genitori pesando ogni parola: «Ho avuto relazioni familiari molto
intense. Non solo con mio padre, anche di più con mia madre, che era
una donna tenera e dolce, legata a quelle terre. La famiglia era
anche il vincolo alla casa e al mio paese: mi piacevano molto quei
piccoli aggregati, erano lì le mie passioni, i sentimenti, gli
affetti, gli scatti di evasione legati al paesaggio, agli amici, alle
ragazze».
Nel suo antifascismo, che
arriva con la Guerra di Spagna, c'è l'educazione familiare, c'è la
poesia, ci sono i coetanei del tempo e, paradossalmente, ci sono
anche i Littoriali della cultura e dell'arte: «Partecipai con una
poesia francamente brutta sulla bonifica delle Paludi pontine,
scritta con sincerità apologetica, e Dio me lo perdoni. Sembrerà
curiosa questa combinazione, ma ai Littoriali di Firenze incontrai
l'antifascismo. Non racconto frottole! Gli amici con cui avrei fatto
la cospirazione e la battaglia antifascista erano tutti lì. Fu una
svolta. Mi precipitai al caffè delle Giubbe Rosse, dove conobbi, tra
gli altri, Montale e Bertolucci». Antifascismo è anche l'incontro
con il cinema e con il Centro sperimentale di cinematografia:
«Conobbi Gianni Puccini, che studiava il cinema americano. Guardi
quello lì...». Indica il burattino di Charlie Chaplin appeso a una
parete: «Ci ha sconvolto e trascinato: l'immagine della macchina e
di come l'operaio sta dentro la macchina l'ha rappresentata Chaplin
quando si incastra negli ingranaggi tipici del capitalismo che dilaga
nel mondo. La passione per il cinema si è mescolata a quella per la
poesia. Con l'incontro tra generazioni a Firenze è cominciata la
cospirazione».
Il 17 luglio 1936 è un
giorno chiave: esplode la rivolta franchista. «Antonio Amendola
cominciò a farmi ragionare sulla lotta antifascista, non tornai più
al Centro sperimentale e il mio amore per il cinema restò in ombra.
Da allora, la lotta di classe diventò il punto centrale nella mia
vita, il primo dovere, la prima speranza: la lotta per cacciare i
padroni. Un dovere che condividemmo, oltre che con Amendola, con
Bruno Sanguinetti, Paolo Bufalini, Aldo Natoli, Antonello Trombadori
e altri. Quel 17 luglio fu il punto di rottura. Dissi no, non ci
sto».
La nuova epoca si porta
dietro anche una serie di errori che Ingrao oggi, all'alba dei suoi
96 anni, non esita a riconoscere. Il più grave, da direttore
dell'Unità: «Nel '56 scrissi un editoriale contro la rivolta
ungherese. Poco dopo capii che avevo sbagliato e che invece bisognava
lavorare contro gli errori dei sovietici: tutti i miei rapporti con i
sovietici hanno vissuto momenti di ambiguità». Il giorno
dell'invasione di Budapest, il 4 novembre, letta la notizia, Ingrao
non ha voglia di parlarne neanche con sua moglie Laura, cammina per
ore da solo per le vie di Roma sotto un cielo nuvoloso, il suo
girovagare finisce a casa di Togliatti, al quale dice il suo
sgomento, sentendosi rispondere: «Oggi io invece ho bevuto un
bicchiere di vino in più».
La repressione della
primavera di Praga ha un effetto diverso, ma è passato più di un
decennio: «Ero a Lenola, mi avvisarono in serata, piantai la cena e
andai al giornale: Longo era in Unione Sovietica e senza sentire i
dirigenti uscimmo la mattina dopo con la nostra condanna». Altri
errori: la radiazione dal Pci del gruppo del “manifesto”
(«Bisognava affrontare la differenza, guardarla in faccia») e la
più recente adesione al partito di Bertinotti: «Non è stata una
scelta felice, ritengo sia necessario costruire un soggetto
collettivo e Rifondazione non ha trovato la via per questo approdo».
Ne ha vissuta di storia,
Ingrao: «Tra un po' faccio i cento, speriamo, insomma...». Le corna
che mostra con una mano sono inevitabili. Tanta storia e tanti suoi
protagonisti. Mao: «A Mosca, lo stavamo ad ascoltare a bocca aperta,
con entusiasmo, era il vincitore della rivoluzione asiatica».
Togliatti: «Intervenne qualche volta nel lavoro al giornale, anche
sbagliando. In tutta la vicenda Vittorini, mostrò di non capire».
Berlinguer: «Ne ho un ricordo affettuoso, cordiale, però appartiene
a un'altra generazione». I dissensi con Pajetta: «Era molto vivace,
ma anche fazioso e cattivo. Quando nella segreteria prendevo la
parola, entrava in agitazione, si alzava e ritornava per potere
materialmente scocciarmi. Bisognava avere l'abilità di lasciarlo
sfogare».
Ha inciso la dura
obbedienza imposta dal partito nella vita privata? «Beh, sì, come
no. C'era una specie di conformismo. Togliatti presto ha rotto con
sua moglie e ha trovato un amore con Nilde Iotti, che era una
giovinetta. Beh, questa cosa qui il partito l'ha digerita molto male,
perché bisognava rispettare le regole del buon costume. Anche alla
Iotti la vicenda costò molte noie». La vita sentimentale di Ingrao
ebbe la sua svolta durante la guerra, quando conobbe Laura Lombardo
Radice, figlia dell'antifascista Giuseppe e sorella di Lucio:
«Durante la lotta clandestina, faceva la staffetta: ci serviva per
evitare i segugi della polizia. Per tutelarci, spesso ci incontravamo
ai concerti che si tenevano nella Basilica di Massenzio: un alibi
buono per passarci i messaggi clandestini». Presto nasce qualcosa
che va oltre la politica e il giovane Pietro si lascia prendere dallo
slancio. Sorride: «Avevo degli aspetti un po' rozzi, lenolesi
diciamo così, campagnoli, avevo un'idea un po' volgare, e quindi è
successo che in uno di questi incontri a Massenzio, in modo un po'
sgarbato e sbagliato ho tentato di darle un bacio, e mi son preso un
ceffone solenne. Come a dire: siamo qui per lavorare, queste cose
levatele dalla mente e non rompere le scatole».
Quella prima reazione non
avrebbe impedito a Laura e a Pietro di avviare una lunga vita
insieme, di sposarsi e di avere cinque figli. Laura morì nel 2003.
«Abbiamo avuto una vita di grande comunicazione, anche se, senza
dire bugie, io non è che fossi uno stinco di santo. Provai un dolore
assai aspro quando quella sua luminosità umana mi abbandonò».
Forse la stessa la luminosità della luna che vedeva, molto tempo
prima, dal balcone di casa.
Corriere della Sera, 21
marzo 2011
Nessun commento:
Posta un commento