26.10.17

Martin Lutero, grande riformatore e profeta della borghesia (Eros Barone)

Il quinto centenario della Riforma protestante induce a richiamare l’attenzione sull’importanza e sulla forza della personalità di quell’ex monaco agostiniano che risponde al nome di Martin Lutero. Importanza e forza che spiegano come la figura di Lutero abbia suscitato echi profondi anche nelle file della socialdemocrazia tedesca e del movimento comunista internazionale. Correva l’anno 1890 quando Antonio Labriola, il primo e forse il maggior teorico marxista del nostro Paese, avviò una corrispondenza di eccezionale interesse con Friedrich Engels, cofondatore, insieme con Karl Marx, del socialismo scientifico e figura prestigiosa della Seconda Internazionale, e con Filippo Turati, fondatore e direttore della rivista “Critica Sociale”, nonché esponente di primo piano del movimento socialista italiano che di lì a poco, nel 1892, si sarebbe costituito in partito. Un documento importante dell’impegno pratico profuso da Labriola nella formazione del partito socialista è costituito, a questo proposito, dal messaggio di saluto al congresso della socialdemocrazia tedesca, tenuto a Halle nell’ottobre del 1890, che Labriola redasse d’accordo con Turati. In esso troviamo l’auspicio di un rapido progresso del movimento operaio internazionale, insieme con affermazioni classicamente marxiste, e una conclusione molto significativa, che vale la pena di riportare: «Voi congregati ad Halle potrete esclamare come Lutero innanzi alla Dieta dell’Impero: «Noi siamo qui e noi non possiamo altrimenti» [frase che in tedesco suona: “Hier stehe ich, und kann nicht anders”]. Ma non soggiungerete come Lutero: “Dio, aiutaci”, anzi direte: “questo è il fatto della storia”; - e in tale sentimento è la insegna e la sicurtà del nostro diritto. Salute e fratellanza!». Il riferimento a Lutero, in quanto emblema di coraggio e di fermezza, è peraltro un ‘topos’ ricorrente nella letteratura comunista della fine dell’800 e dell’inizio del ’900, come dimostrano anche le pregnanti considerazioni che Stalin espresse verso la fine del 1920 nell’articolo intitolato Tre anni di dittatura del proletariato: «La Russia sovietica vivrà, si svilupperà e vincerà i suoi nemici. È certo che il nostro cammino non è dei più facili, ma è anche certo che le difficoltà non ci mettono paura. Parafrasando le note parole di Lutero, la Russia potrebbe dire: “Mi trovo qui, al confine tra il vecchio mondo capitalistico e il nuovo mondo socialista; qui su questo confine io unisco gli sforzi dei proletari dell’occidente con gli sforzi dei contadini dell’oriente al fine di sconfiggere il vecchio mondo. Mi aiuti l’Iddio della storia». E «l’Iddio della storia» è stato dalla parte della rivoluzione russa e della classe operaia internazionale per alcuni indimenticabili decenni.
Così Antonio Labriola, sul finire del XIX secolo, evocò in terra tedesca il protagonista della Riforma protestante. Avrebbe potuto aggiungere, se non fosse stata una postilla in qualche misura pedantesca, che allora i socialisti si riconoscevano (e oggi i comunisti si riconoscono) nell’ala rivoluzionaria della Riforma, da cui sarebbero germinati gli anabattisti, negatori, in nome di Dio, del principio della proprietà privata e sostenitori del comunismo religioso ed egualitario, propagandisti ed organizzatori dei moti contadini di quel periodo storico: ala che ebbe come massimo rappresentante Thomas Müntzer. Nel maggio 1525, mentre si estendeva a tutta la Germania la rivoluzione contadina, Martin Lutero fece dunque una scelta forse ancor più importante, per le conseguenze che ebbe, di quella che nel 1521, con grande coraggio e forza d’animo, aveva compiuto davanti all’imperatore Carlo V e alla sua corte in occasione della Dieta di Worms, quando pronunciò la frase famosa citata da Labriola. Il protagonista della Riforma pubblicò infatti, per rafforzare l’appoggio dei principi e della borghesia al suo movimento religioso, uno scritto intitolato Contro le masnade dei contadini saccheggiatori e assassini, che conteneva una presa di posizione decisa e durissima contro i contadini in rivolta e in favore delle autorità e dell’ordine costituito. In questo scritto ricorrono anatemi ed incitamenti che fanno rabbrividire per la violenza della repressione che viene invocata: «…essi [i contadini] predano e infuriano e fanno come i cani arrabbiati; da ciò appare…come fosse solo menzogna e doppiezza quello che hanno proclamato nei dodici articoli [si tratta del programma politico-sociale dei contadini]…In questo caso un principe e signore deve pensare d’esser servo e ministro di Dio e dell’ira sua…e che appunto contro tali ribaldi gli è data la spada…Per la qual cosa…ferisca, scanni, strangoli chi può…in obbedienza alla parola ed al volere di Dio…per salvare il prossimo dall’inferno e dai lacci del demonio…questo è il tempo dell’ira e della spada, non quello della grazia» .
Per quanto riguarda il duplice profilo di riformatore religioso e di profeta della borghesia, che caratterizza la personalità intellettuale di Lutero, merita di essere rammentato, in questa sede, un rilievo estremamente acuto formulato da un grande poeta e saggista della seconda metà del Novecento, Franco Fortini, il quale, nel delineare la sua “via al marxismo”, partita dall’ebraismo paterno e passata dal protestantesimo valdese, si è soffermato su un punto capitale della riforma luterana, ossia sulla negazione della presenza reale del corpo di Cristo nell’ostia consacrata. È questo un punto che merita di essere approfondito, andando oltre la celebre ‘boutade’ di Voltaire che, nel tratteggiare sarcasticamente le differenze tra cattolici, luterani e calvinisti rispetto all’eucaristia, soleva dire che i primi ingeriscono il corpo e il sangue di Cristo (transustanziazione), i secondi il corpo e il sangue assieme al pane e al vino (consustanziazione) e i terzi soltanto il pane e il vino (in ricordo della sacra cena). Orbene, la disputa, come è noto, concerne la presenza simbolica o non simbolica (quindi reale) del corpo di Cristo, talché nella visione cattolica della transustanziazione una persona, un oggetto, un evento è “quello che è” e nel contempo è “allegoricamente” altro, il che significa che esistono livelli d’interpretazione degli eventi biblici che sono al tempo stesso prefigurazione, profezia ecc. Avviene pertanto che l’esistenza concreta, singola e temporale, trova la sua ragione in un ‘al-di-là’ di essa, in un adempimento, di cui essa è solo l’anticipazione. Così, l’idea di un’identità che si deve realizzare sia sul piano storico sia sul piano extratemporale è qualcosa che, secondo Fortini, trova conferma non solo nel dogma cattolico della transustanziazione, ove l’ostia è ostia e corpo di Cristo (e ha perciò un significato allegorico), ma anche in tutt’altro campo, ad esempio nella sfera della cosiddetta psicologia del profondo, dove come nel sogno una persona o una cosa è quella ed è altro. Concepire questo tipo di contraddittorietà è certamente insostenibile per la logica formale, non per la logica dialettica: basti pensare al valore della merce così come è analizzato da Marx nella prima sezione del primo libro del “Capitale”, valore che, a livello della singola merce, si sdoppia in valore d’uso e valore di scambio. Sennonché, tornando a Lutero, Fortini sottolinea che il riformatore sassone aveva torto, nel senso che porre il rapporto tra simbolo (ostia) e cosa simboleggiata (sacrificio di Cristo) equivale ad anticipare la divisione interna alla personalità umana, rappresentata in modo paradigmatico dal verso di Goethe che fa dire a Faust nel suo poema: «Zwei Seelen wohnen, ach! in meiner Brust», che in italiano si traduce nel modo che segue: “Dentro il cuore, ah, mi vivono due anime”, laddove Goethe precisa: “e una dall’altra si vuole dividere”: una divisione che è essenziale al mondo borghese in quanto mondo della scissione.
D’altra parte, rispetto alla “positività” cattolica secondo cui la grazia divina può essere conseguita con le opere e con la liturgia dei sacramenti, va riconosciuta l’originalità dialettica che contraddistingue l’interpretazione che della fede dà Lutero, laddove egli ritiene che opposizione e contraddizione siano i tratti peculiari del rapporto tra Dio e l’uomo, talché proprio da questa premessa dialettica deriva la sua ripulsa di quella concezione mediocremente utilitaria di tale rapporto che giungeva sino al commercio delle indulgenze. Per Lutero l’esperienza di fede è impregnata invece di una drammatica negatività e si esprime come una “unità paradossale”, basata sull’antinomia fondamentale per cui «Dio, per salvare, perde». L’essenza della teologia luterana è infatti racchiusa nella concezione secondo cui non nella gloria, ma nel suo opposto, nell’umiliazione della croce, si manifesta la potenza di Dio. Così, l’opposizione tra l’uomo e Dio pervade, secondo Lutero, tutta la vita del credente e la fede consiste proprio nell’unione di questi opposti, dimodoché il credente è “simul peccator et iustus”: nella realtà del mondo è un peccatore, ma nella fede è giustificato. È evidente che attraverso queste antinomie Lutero riprende l’insegnamento di Paolo (un insegnamento che, coniugandosi con l’attività organizzativa dispiegata da questo ebreo convertito, è talmente costitutivo del cristianesimo da rendere necessaria, sia sul piano storico che su quello teologico, la sostituzione di quel termine con il termine di paolinismo). Secondo la concezione dell’“apostolo dei Gentili”, nella fede essere e non essere, sapienza e stoltezza, si trasformano l’uno nell’altro: la redenzione è «stoltezza di Dio», che si realizza negli opposti; «Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono». È indubbio che la ‘forma mentis’ a cui corrispondono questi asserti sia dialettica, così come è indubbio che, a prescindere dal fatto di credere o di non credere nell’esistenza di Dio, il movimento suscitato dalla predicazione di Paolo e dalla Riforma di Lutero siano fatti storici reali, talché non si possono disconoscere né la carica dirompente che l’insegnamento di Lutero ha avuto né il colpo micidiale che esso ha dato ad un mondo spirituale ossificato.
In conclusione, il cinquecentesimo anniversario della Riforma luterana, che cadrà il prossimo 31 ottobre (giorno, secondo la tradizione, in cui il monaco agostiniano affisse le 95 tesi, da lui redatte, sul portale della cattedrale di Wittenberg), se costituisce uno stimolo a discutere ed approfondire, sul piano storico, religioso, politico e teologico, la figura e il pensiero del protagonista di tale riforma, non deve però essere un pretesto per avvolgere in un mistico alone di indeterminatezza ‘ecumenica’ ed immergere in una pesante nebbia di omissioni o reticenze i precisi e talora inquietanti contorni della personalità di Martin Lutero (basti pensare a temi come il cesaropapismo, di cui lo scritto contro i contadini testé citato è un esempio impressionante, l’antisemitismo, le persecuzioni scatenate contro le streghe nei secoli XVI e XVII, che unirono cattolici e protestanti, e il rapporto della Chiesa luterana con il regime nazista). Quei precisi ed inquietanti contorni della personalità di Martin Lutero, che un grande poeta della storia, quale è Giosuè Carducci, ha saputo incidere con acume dialettico pari alla finezza letteraria in due sonetti dedicati al grande riformatore […]

da “Sinistra in rete”

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