11.11.17

Diventare populisti in 140 caratteri. Non sappiamo più dire una cosa di sinistra (Mattia De Nardi)

La propaganda digitale, marchio di fabbrica dei Cinque Stelle, sfonda nel Pd. 
“Aiutamoli a casa loro”, “due figli per donna” e “razza” non sono gaffe, ma una resa culturale 
Patrizia Prestipino
Provare a sintetizzare in 140 caratteri di Twitter un discorso sulla complessità del fenomeno migratorio in Europa basato sulle tabelle statistiche che mostrano come le quote di migranti siano ancora sensibilmente inferiori alle possibilità di accoglienza? Molto più semplice scrivere: «Mandiamoli a casa loro». «Basta invasione». Vedrete quanti like su Facebook, quanti retweet. In fondo è più facile arrabbiarsi che stare ad ascoltare, urlare che pensare.
Lo scorso 25 luglio Patrizia Prestipino, membro della direzione del Pd, una delle ultime scoperte del segretario Matteo Renzi e della di lui fidata Maria Elena Boschi, ha dichiarato: «Se uno vuole continuare la nostra razza, se vogliamo dirla così, è chiaro che in Italia bisogna iniziare a dare un sostegno concreto alle mamme e alle famiglie».
Nulla da eccepire se a pronunciare quella frase fosse stato Benito Mussolini: donne, mamme, fate figli per preservare l’italica razza. E invece è stata una donna lanciata a rimpolpare la futura classe dirigente dem, nel 2017. Avrebbe potuto dire che gli europei fanno meno figli dei migranti dall’Asia e dall’Africa, invece ha detto proprio «razza», un termine che non si sentiva in bocca a un politico da chissà quanto tempo.
Le parole sono importanti, rivelatrici di una visione del mondo, di tic mentali che al minimo cedimento degli inibitori sociali prendono il largo. Ma la dichiarazione sarebbe stata facilmente derubricata a gaffe isolata, prodotta da scarsa memoria e incultura, se non fosse che il segretario di quello stesso partito, Renzi, due settimane prima aveva proposto come soluzione al problema dei migranti: «Aiutiamoli a casa loro». Il leader del più importante partito del centrosinistra, il più grande tra i suoi omologhi europei nella grande famiglia socialista, ha fatto proprio uno slogan che è da sempre il marchio delle destre. Le parole possono essere crepe e il muro dell’antica cultura della solidarietà globale della sinistra comincia a venire meno.

Perché Pasolini odiava gli slogan
Nei suoi Scritti corsari Pier Paolo Pasolini ammoniva: «C’è un solo caso di espressività – ma di espressività aberrante – nel linguaggio puramente comunicativo dell’industria: è il caso dello slogan. Lo slogan infatti deve essere espressivo, per impressionare e convincere. Ma la sua espressività è mostruosa perché diviene immediatamente stereotipa». Era il 1975. Quarant’anni dopo, lo slogan è l’essenza del linguaggio della politica, che prima ha dovuto adattarsi alle logiche pubblicitarie della tv, alla fine si è ridotta a parlare secondo la grammatica del web. La politica sceglie parole che non sono però solo un segno vuoto, ma sono portatrici di senso, di un pensiero, di una visione del mondo. Il web non crea solo forma, ma crea un contenuto, crea un pensiero politico da cui scaturisce l’azione dei partiti. Semplifica, usa gli slogan, quelli che funzionano creano “like”, consenso, convincono gli utenti che poi sono anche elettori e che a loro volta influenzano le scelte dei leader.

Populismo digitale
Così nasce un nuovo tipo di populismo: Il populismo digitale, titolo dell’ultimo libro del sociologo Alessandro Dal Lago. Internet e i social network sono elementi decisivi, «senza di loro, il populismo contemporaneo avrebbe una forma completamente diversa». Il sottotitolo chiarisce in che direzione guarda Dal Lago. “La crisi, la rete e la nuova destra”, indica come in una fase storica di instabilità, un prodotto della rivoluzione tecnologica ha acuito alcuni elementi del populismo più classico, storicamente riconducibile a politiche di destra.
Si afferma così quella che un tempo si sarebbe definita egemonia, ancora più estesa tra le fasce popolari colpite maggiormente dalla crisi, e dalla quale la sinistra viene travolta. Dal Lago concentra la sua attenzione sul M5S, la novità più rilevante sulla scena italiana in questa fase storica. Il Movimento di Beppe Grillo diventa un paradigma di questa deriva. Nato sulle campagne ecologiste in difesa dei beni pubblici è andato via via ridefinendo la propria identità fino ad abbracciare battaglie dal consenso assicurato.

Bersaglio, spiega Dal Lago, diventa qualsiasi «oggetto della protesta e del rancore dei cittadini: alta velocità, sicurezza urbana, crisi economica, sistema bancario, povertà, invasione dei migranti, burocrazia europea» e la classe politica in generale. Grillo e i grillini «usano slogan elementari». E, non a caso, sono quelli che funzionano meglio sul web.
Per la prima volta nella storia un partito, il primo in Italia stando ai sondaggi, è guidato da un comico attraverso un blog gestito da una società di consulenza aziendale. Per la prima volta nella storia la più grande potenza mondiale è guidata da un uomo azienda che fa dichiarazioni attraverso i tweet.
Questi sono i tempi in cui viviamo. Tempi in cui le classiche categorie sono liquidate come roba vecchia, inadatte ad affrontare velocità tecnologica che brucia uomini e leader e dà sfogo alle frustrazioni di massa.

Oltre la destra e la sinistra
Fondativo del M5S è il superamento dell’opposizione destra-sinistra. «Tipicamente peronista e parafascista» secondo Dal Lago. Con post semplici ed efficaci, attraverso lo spazio per i commenti, tramite tweet e un esercito di troll, si crea un’«illusione di democrazia diretta», un circolo vizioso in cui quello che si scrive e si dice su internet è quello che il lettore/elettore si vuole sentir dire, dove l’ipersemplificazione, il titolo urlato, lo scandalo non hanno contrappesi e possibilità di verifica. L’incubo di Pasolini è diventato realtà. «Il nuovo fascismo – scriveva - attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie la televisione) ha scalfito, lacerato, violato» l’anima del popolo italiano. Specie la televisione, diceva, che «non c’è dubbio sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo».
Chissà cosa avrebbe detto Pasolini se avesse vissuto abbastanza fino a vedere il dominio del web. Lo avrebbe affiancato alla tv nelle sue analisi e forse sarebbe stato d’accordo con Dal Lago quando sentenzia: «Ecco cos’è il populismo o parafascismo digitale. Una realtà politica resa tale da un abile uso di Internet e dei suoi strumenti. Inquietante per chiunque non si accontenti di slogan e non concepisca la vita sociale e politica come un’incessante litania di clic sullo schermo del computer»
«La Rete è sovrana» diceva il fondatore e ideologo del M5S Gianroberto Casaleggio. E sulla Rete si gioca la caccia al consenso anche della nuova sinistra. Così Renzi, dopo la sconfitta al referendum sulla riforma costituzionale, ha fatto partire la controffensiva web, moltiplicando le piattaforme dei democratici. Se si sfoglia il vocabolario del Pd di Renzi, si nota una predilezione per la parola-simbolo, la frase ad effetto, la semplificazione del messaggio. A misura di tweet o di post su Facebook, dove, con la crisi dei vecchi media, giornali in primis, la massa tende a informarsi e formarsi.
«Nella dimensione virtuale o digitale della politica nuovi attori possono salire rapidamente alla ribalta grazie alla loro capacità di influenza nei social media. La rete appare oggi l’ambiente in cui si elabora la maggior parte delle scelte decisive della vita pubblica». Definire le Ong «taxisti del Mediterraneo», come ha fatto Luigi Di Maio, candidato alla premiership per il M5S, senza curarsi dei pericoli della generalizzazione, fa presa. Come funziona il linguaggio spiccio del leader della Lega Matteo Salvini.

L’alternativa che non c’è
Ovviamente un altro mondo è possibile, e con gli stessi mezzi. Basta guardare alla comunicazione sui social fatta dai candidati democratici alle recenti tornate elettorali statunitensi, dal vincente Barack Obama alla perdente Hillary Clinton, passando per il vecchio socialista Bernie Sanders; o, per guardare a orientamenti politici diversi, da Angela Merkel in Germania. La differenza è che essi non hanno fatto della Rete il luogo di elezione delle scelte politiche, calcolando il consenso sui clic ed evitando così il confronto con le domande dei giornalisti, ma la vetrina a cui dare forza a idee ben piantate nei loro programmi.
Il linguaggio dei social, per la sua rapidità, obbliga all’estrema sintesi, eliminando la complessità propria di ogni questione. «La sinistra – afferma Dal Lago – che per metodo e storia abbraccia sistemi più complessi, nel momento in cui aderisce al modello dei social e non contrappone un’alternativa, perde la sua battaglia». E per non soccombere si adegua. In questo modo, secondo il sociologo, assistiamo al trionfo «dei temi tipici del nazionalismo classico: l’odio, il lavoro, l’immigrazione».
Gli scivoloni linguistici e concettuali sono un sintomo della ricerca di protezione formulata attraverso certezze antiche. La Famiglia diventa nuovamente fondante: «Vogliamo e dobbiamo arrivare a due figli per donna per garantire un ricambio generazionale» dice Dario Nardella, sindaco Pd di Firenze molto vicino a Renzi, davanti alla platea di Comunione e Liberazione al Meeting di Rimini. Pochi giorni dopo, le stesse preoccupazioni demografiche vengono espresse dal leghista Salvini al Forum Ambrosetti di Cernobbio.
La politica delle nascite, molto in voga nel Ventennio, suona come la difesa estrema di una presunta italianità. Un neo-nazionalismo che fa breccia a sinistra e che trasforma i migranti in una minaccia: l’ex vicesegretaria del Pd e governatrice del Friuli Venezia Giulia Debora Serracchiani dice che il delitto è più grave se è compiuto da un immigrato; la sindaca di Codigoro, sempre del Pd, promette di aumentare le tasse a chi ospita i profughi e il ministro dell’Interno Marco Minniti confessa di aver temuto, di fronte ai flussi ininterrotti dal Mediterraneo, «per la tenuta democratica del Paese».

Siamo politici o sceriffi?
Al netto di un ragionamento che è ben più sofisticato, Minniti piomba sulla scena politica con una muscolarità inedita che intimorisce e seduce la sinistra, spaccandola. La destra, spiazzata sul proprio terreno, lo apprezza e con altrettanta semplificazione linguistica, i critici lo definiscono «sbirro» o «sceriffo» per la sua svolta securitaria impressa attraverso il decreto su immigrazione e sicurezza urbana. Minniti il risolutore, in sostanza, ha delegato ai libici i respingimenti, permettendo un contenimento dell’immigrazione mai visto prima ma scoprendosi sul lato dei diritti umani, salvo poi dire che le condizioni di vita di chi rimane in Libia sono il suo «assillo». Perché i profughi che non attraversano il mare sono relegati in campi di raccolta considerati da osservatori terzi e Ong veri e propri «lager». E questo, secondo Dal Lago, è un altro cedimento della sinistra alla cultura di destra perché abdica alle sue responsabilità: «Nel voltarsi dall’altra parte, nel chiudere gli occhi, fingendo che non lì non succeda nulla, nel dire che non è un nostro problema, che dobbiamo occuparci solo di ciò che avviene nei nostri confini, c’è la rivendicazione di uno “spazio nostro” tipico del nazionalismo. È un modello dominante nell’opinione pubblica, che vince sul web, e la sinistra per non perdere, lo abbraccia tradendo la propria storia».


Pagina 99, 15 settembre 2017

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