11.11.17

Ricordati di santificare il weekend. Liberare il tempo libero (Mattia Carzaniga)

Tra lotte operaie, capitalismo e religione,
c'è voluto un secolo per conquistare il wickend
che la globalizzazione digitale ha cancellato.
Ma il tempo libero crea ricchezza:
dove si lavora meno cresce la produttività

La prima immagine che mi viene in mente è in Hook – Capitan Uncino di Steven Spielberg. Dopo l’ennesima telefonata di lavoro, Robin Williams/Peter Pan lancia dalla finestra il telefono, uno di quei primi cellulari con l’antennona e la mascherina. L’idea era: mi devo rimpossessare della mia famiglia, della mia vita, di me. Chissà se quella scena avveniva di sabato sera. Certo era la vigilia di Natale o roba così, insomma: vacanza. Di momenti come quello ne avremmo visti a centinaia nelle annate cinematografiche successive, tutti rimasti assolutamente vani.
Hook è uscito nel remoto 1991 e da allora, invece di gettare i telefoni dalla finestra, siamo andati in direzione contraria: ogni frazione di tempo, pure quello teoricamente libero, andava riempita con il lavoro. «Siamo passati da “working for the weekend” a “working on the weekend”», ha scritto di recente “Forbes”. Se l’allarme arriva persino dalla bibbia del business, forse abbiamo davvero un problema.
La scorsa primavera è uscito The Weekend Effect: The Life-Changing Benefits of Taking Two Days Off. Tradotto: riprendiamoci i soliti due giorni di stacco settimanale. Solo due, mica si pretende chissà che. L’autrice – Katrina Onstad, ex firma del “Globe and Mail”, canadese: un dettaglio geografico solo apparentemente irrilevante – va alla reconquista del fine settimana con l’evidenza di chi sta compiendo un gesto rivoluzionario. Forse il suo lo è davvero.

Una lotta lunga duecento anni
L’abbrivio è storico. Il saggio comincia dalle lotte sindacali al tempo della rivoluzione industriale inglese, quando l’istanza principale non era la paga troppo bassa o lo sfruttamento minorile, bensì il conteggio delle ore lavorative. «Il tempo era la nuova moneta: non passava, veniva speso», scriverà parecchi decenni più tardi lo storico E.P. Thompson. Nasce così il primo giorno festivo, che nel Regno Unito di due secoli fa è il lunedì: bisognava riprendersi dalle sbronze della domenica sera. Un salto in avanti ed eccoci negli Stati Uniti: Henry Ford, la grande fabbrica, il capitale. Il miraggio adesso sono due giorni interi di pausa, che, secondo il magnate dell’automobile, diventano un guadagno pure per i capi: è tempo fatto per spendere la paga settimanale. È l’inizio dell’era dei consumi e anche dei cinque giorni lavorativi, entrati ufficialmente in vigore in Inghilterra, Usa e Canada negli anni Cinquanta del secolo scorso.
All’inizio del millennio, la globalizzazione impone di riconsiderare i giorni liberi anche da parte di chi tradizionalmente ne prevedeva di altri. Leggi: arabi ed ebrei. Uniformare il tempo del lavoro supera i singoli culti disseminati in tutto il mondo. Marxismo, capitalismo e religioni, uniti nella comune lotta per un giorno da santificare (che fosse destinato alla preghiera o alla spesa non fa differenza), non sapevano che sarebbero andati incontro a uno scenario diverso da quello sperato. In pochissimi decenni, il tempo del lavoro si è allargato a dismisura, le nuove tecnologie hanno riempito gli interstizi una volta riservati all’ozio, le professioni sono arrivate dentro gli smartphone, raggiungendo il destinatario ovunque fosse. Non possiamo mica permetterci di non rispondere, vero?

Prigionieri di uno smartphone
«La tecnologia ci incatena al lavoro», sostiene Onstad. «Passiamo i fine settimana rispondendo a chiamate, controllando l’email e affermando la nostra fedeltà e il nostro valore attraverso la dedizione al lavoro. In quest’epoca di fragilità economica, tutti vogliamo mostrarci sempre disponibili. Siamo stati noi ad uccidere il weekend [anche quando non lavoriamo]. Lo abbiamo riempito di attività che ci lasciano sfiniti e insoddisfatti, la domenica sera ci prende la depressione. Grazie ai negozi aperti pure la domenica, lo shopping è diventato un’attività ricreativa, ma non di quelle che ci fanno stare meglio. Il “loop della solitudine” è la teoria secondo cui il materialismo porta la gente a sentirsi sola, e il sentirsi soli porta a spendere. Sappiamo che la felicità sta nel contatto umano. Ma, se il weekend non esiste più, allora non esiste più neanche il tempo per partecipare alla vita delle nostre comunità». Pensate a chi vi sta attorno. In quanti vi dicono continuamente: «Non ho mai tempo per fare niente»?

Scordatevi gli orari
Prima del saggio di Onstad, è uscito un altro testo sul tema: Rest: Why You Get More Done When You Work Less. Ovvero: stacca. E vedrai che, se lavorerai meno, produrrai di più. Per avallare la sua tesi, l’autore Alex Soojung-Kim Pang scomoda il filosofo Adam Smith: «L’uomo che lavora costantemente ma con moderazione non solo preserva la sua salute più a lungo, ma, in un anno, produce una quantità di lavoro maggiore». Oggi l’equazione è saltata. Ho un’amica che lavora nella moda. Fa la buyer, ruolo che mi è ancora ignoto. Fino a un paio di anni fa era dipendente di un marchio italiano. Secondo una clausola contrattuale, il sabato gli straordinari non le erano mai riconosciuti; la domenica solo sopra le quattro ore, col risultato che lavorava pure di domenica anche se solo per quattro ore, appunto. Dovendosi lei occupare di campagne vendita, altro territorio a me ignoto, finiva per regalare all’azienda interi weekend di seguito. Ha cambiato società. Ora è sempre un marchio italiano, ma assorbito da un grosso gruppo francese. La situazione degli straordinari è migliorata, seppur di poco. In compenso, fin dal primo colloquio, le è stato intimato: «Scordati di far cadere la penna alle 18 in punto».
Io ho fatto una scelta opposta. Pur da freelance, mi sono imposto di non lavorare nel weekend e di far cadere la penna alle 18 in punto. Ho orari più da ufficio di chi va in ufficio. E, soprattutto, contravvengo al principio su cui si basa il decalogo del libero professionista: «Io non ho orari». Col cavolo.

Più lavori, meno produci
Da anni fioccano le ricerche sul rapporto tra ore di lavoro e produttività. John Pencavel, docente di Economia a Stanford, ha diffuso tre anni fa i risultati della sua indagine. «In ogni periodo di recessione si pensa che, per ridurre il tasso di disoccupazione, basti diminuire il numero di ore lavorative tra la popolazione impiegata. Tuttavia, se consideriamo lavoro solo la somma delle ore totalizzate da ogni lavoratore, si può ottenere la stessa cifra anche se ciascuno lavora per meno ore e più persone possono così essere impiegate. Molti governi hanno applicato questo sistema per incoraggiare un cambiamento». Gli fa eco, oggi, Katrina Onstad: «È un modello umano e intelligente: i Paesi che promuovono un orario di lavoro più flessibile sono più produttivi. Dopo quaranta ore di lavoro settimanali, la qualità della produzione cala. Salvaguardare i weekend è segno di buon governo e anche di una più fruttuosa idea di business». La Storia può essere maestra: gli economisti insegnano che nel Medioevo, quando non si lottava per i diritti ma per la sopravvivenza, si lavorava meno e si produceva di più.

Lotta per il tempo libero, parte seconda
Oltre a Onstad, qualcun altro ci sta provando, a riesumare i fine settimana. Con mano più pesante. La Chiesa vuole riprendersi la domenica, oggi santa giusto per i centri commerciali. Negli Stati Uniti è nato il movimento “Back to Sunday Church”, che – dicono loro – ha già riportato in parrocchia quattro milioni di americani in otto anni. Qualcosa si muove anche dal basso, vale a dire sulle bacheche di Facebook. Gianni Morandi non fa in tempo a postare una foto con le buste del supermercato la domenica che viene giù un pieno: sarebbe questa la solidarietà verso i poveri lavoratori sfruttati? (Segue dibattito). Il mondo continua però su un’altra strada: non va a messa, va all’Ikea. Senza smettere di controllare la mail dell’ufficio.
Lo scorso aprile è stata presentata un’altra ricerca, promossa dalla compagnia di noleggio Enterprise. Rivela che, su dieci americani, sette lavorano nel fine settimana, con una media di nove ore al giorno. Le persone interpellate rispondono, nel 63% dei casi, che il loro capo si aspetta che lavorino anche il sabato e la domenica. Il 61% rivela che è automatico pensare al lavoro anche nei giorni teoricamente di pausa. Più l’età del lavoratore è giovane, più la situazione peggiora: il 74% della fascia 25-44 anni con la testa non stacca mai; tra i 45-60enni succede solo al 49% degli intervistati. Jonathan Alpert, psicologo e autore del saggio Be Fearless: Change Your Life in 28 Days, entra in campo con i suoi trucchetti per vivere meglio. Ovvero: non pensare: «I weekend sono troppo corti», ma, proprio perché hai meno tempo libero, trova il modo di sfruttarlo al meglio; non passare le giornate a dormire, cerca di metterle a frutto; trova un equilibrio tra l’ansia di pianificare con anticipo ogni tuo giorno libero e la bellezza di lasciarti andare agli imprevisti. Nella ricerca non v’è traccia dell’ultimo consiglio, quello – lo chiamerei io – di Peter Pan. E cioè: lancia il telefono dalla finestra. Per questo no, non siamo ancora pronti. Soprattutto nel weekend: non potremo mai rinunciare a postare le foto #nofilter delle nostre gite fuori porta. Scattate nei rarissimi sabati e domeniche in cui non lavoriamo, si capisce.

Pagina 99, 22 settembre 2017

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