14.11.17

E Flaubert gridò: la Bovary sono io (Enzo Siciliano)

Negli ultimi anni 70, sul finire della settimana, non ricordo più se il venerdì, il sabato o lo domenica con il “Corriere della Sera” usciva un supplemento dedicato ai programmi televisivi. Il testo che segue è tratto da uno di quei supplementi. Non c'è data nel mio ritaglio, ma l'anno è di sicuro il 1978, lo stesso della realizzazione della Madame Bovary della Rai, di cui il testo di Siciliano, dedicato al romanzo di Flaubert, costituiva un accompagnamento. (S.L.L.)

Visse lo scrivere quel suo romanzo come un supplizio, una tortura che gli accendeva l’immaginazione ma che lo spingeva a muovere le parole dai loro usi domestici con gesti inavvertibili, sfumati. Gustave Flaubert scrisse Madame Bovary fra il 1851 e il 1856. Chiuso nella sua casa di Croisset, alla periferia di Rouen, pareva dominato da fantasmi di automortificazione. Invecchiato anzitempo, ammalato, le illusioni romantiche, i voli lirici che avevano segnato la sua giovinezza e la sua maturirà di scrittore, parevano diventati in lui oggetto d’odio o simboli dell’umana stupidità.
Incontrò il suo personaggio sulla cronaca dei giornali. Un amico gliene additò il caso. La moglie di un medico di provincia, sconvolta dall’eros e dai debiti, si era tolta la vita.
Flaubert si impossessò del fatto. La mediocrità, la volgarità, nella loro veste quotidiana, non erano stati fino ad allora argomento di romanzo se non sporadicamente. Il romanzo, anche nei suoi esempi massimi, era ancora una grande avventura, dove il bene e il male si battevano senza risparmio di colpi per impossessarsi dell’umano destino. Luci immense tagliavano le pagine di quelle avventure, impenetrabili tenebre le invadevano.
Flaubert restrinse il suo obiettivo, o, meglio, decise di restringere al minimo il fuoco del romanzo. I silenzi delle case borghesi scanditi dal tic tac della pendola, qualche raschio di tosse, lo starnazzare delle oche in un cortile di campagna: al centro di tutto un’esistenza qualsiasi, confusa irreparabilmente nell’anonimia.
Stretto per un verso il fuoco sull’ovvio e sul qualsiasi, l’obiettivo si dilatava in modo incontenibile su tutto quanto riempie di pura casualità la vita quotidiana. Una sequela di dettagli, trascurabili all’apparenza, si aprirono il passo sulle pagine del romanzo.

Amore e tradimento
Fino ad allora ciò che il narratore mostrava della vita ai suoi lettori pareva rigorosamente selezionato: con Flaubert, con Madame Bovary, sembrò sparire ogni selezione, e la vita dilagò nei capoversi di ogni capitolo con il suo invariato pulsare, i suoi polivalenti significati.
Per un’alchimia folle, il dramma, che il romanziere andava costruendo tessera per tessera meticolosamente, proprio in quei dettagli spersi, vaganti, prendeva forma e credibilità.
Flaubert fu sgomento dal suo medesimo lavorare. Si rinchiuse dentro le giustificazioni dello stile. Lo stile diventò per lui una sorta di dio o di demone esigentissimo cui dare tutto e da cui ricevere poco.
Proprio lo stile lo aiutò a sovvertire il vecchio parco lampade a disposizione del narratore. Le luci si adattarono allo stillicidio dei giorni sempre uguali: bastò poco per evocare il variare della stagione, il variare dell’ora.
Scrupolosissimo nell’individuare i particolari, nell’inciderli con la meticolosa mina di un Ingres, Flaubert non abbandonò la sua penna ai colori. Quando un colore scocca sulla sua pagina sentiamo accendersi l’urgenza di una concretezza ulteriore, non avvertiamo il vagabondare di un pennello.
I pomelli rosa di Emma Bovary, il suo incarnato avorio, le due bande lucenti di capelli che le incorniciano la fronte, un’alcova foderata di rosso, un mucchio di azzurra cenere fredda, o lo svolare di una farfalla gialla su un mazzo di viole altrettanto gialle, affiorano nel bianco e nero della narrazione più presupposti che visti. A Flaubert premeva che la vita scorresse dentro le sue parole come un rivolo invisibile.
Dunque, simulato sotto le richieste dello stile si disegnava intanto il personaggio: Emma, uno dei proverbi della narrativa moderna.
«Madame Bovary sono io!» scrisse Flaubert. Sarebbe facile scoprire nelle spoglie di quell'oscura ed esaltata ragazza di provincia tratti coincidenti con quelli del suo autore. Ma l’esclamazione di Flaubert scaturiva da sorda, profonda repugnanza per il frutto della sua immaginazione: in quello verificava la prigionia cui il suo io era condannato. Si vedeva costretto a un forzoso riconoscimento della propria anima da cui non lo liberava neppure il tanto invocato esercizio stilistico. Emma Bovary era là, davanti a lui fissa come in uno specchio, con la sua voluttà repressa, le smanie snobistiche, i vagheggiamenti inguaribilmente adolescenziali, la frenetica e marginatale dedizione dissipatoria: era là suicida masticando arsenico (e lo scrivere quella scena fece stare fisicamente male Gustave).
Cosa c’era di lui in quella donna mediocre? Sposata a un uomo che non ama, Emma si fa una ragione di quel non amore soltanto attraùverso il tradimento. Il tradimento in lei non è un’esigenza del cuore o dei sensi: è un’esigenza dell’intelletto. La modernità e l’eternità del personaggio la scopriamo non nella sensibilità scorticata: piuttosto nel vederla divisa dalla realtà che la circonda, nel vederla ossessionata dal bisogno di soddisfare a ubbie velenose, a sogni contratti leggendo come un’ammalata nevrastenica libri e riviste.
«Aveva letto Paolo e Virginia, ed aveva sognato la casetta di bambù, il negro Domingo, il cane Fido...». Aveva letto Chateaubriand ma si inebriava alle dolcezze di un medioevo da melodramma; i suoi vagabondaggi sentimentali conoscevano arruffate memorie di Mille e una notte, turcheschi teatrini. Anelava a un ideale di pallida e sfibrata esistenza cui la gente di scarso sentire, a suo giudizio, era negata. «Amava il mare solo per via delle tempeste, e il verde solo quand’era sparso tra le rovine». La campagna che la circondava con la sua eterna quiete, «il belato delle greggi, la confezione dei formaggi, l’uso degli aratri», le infliggeva crudeli tormenti.
Emma legge: legge e si esalta. Più si esalta, più ferisce la propria carne avvilita. L’uomo che ha sposato, quel Charles Bovary, la cui conversazione «era piatta come un marciapiede, sopra cui sfilano le idee di tutti nella veste più ordinaria», le appare via via sempre più repellente. «Lui la credeva felice, e lei gli portava rancore per la calma posata, atona, di cui faceva mostra». Reiteratamente Emma si chiese, «Perché mi sono sposata, Dio mio?».

Rabbia come preghiera
Eppure si è sposata: affina le proprie grazie con solitarie dediche a se stessa. Coltiva e spreca idee d’eleganza, profumi e vezzi, in un luogo, in un ambiente, il piccolo paese, dove nulla e nessuno può ricompensarla. Incontra uno stupidissimo «giovane di studio», un ancor più stupido nobilastro del vicinato. Crede costoro creature di romanzo, relizzazioni delle proprie letture: si lascia andare alla volgarità loro, alla loro violenza. Si compromette, sperpera denaro: non le resterà che uccidersi. Una morte che è il gesto estremo della stupidità, di un delirio irreale.
Anche senza aver letto Madame Bovary potremmo dire: conosciamo questa storia. Sì, lo potremmo: ma ciò che il libro scopre per noi è l’assurdità di quel vivere, la sua pochezza immensa, il suo non possedere la vitale coerenza che, sempre, nelle vite più sciagurate, incontriamo.
La vita di Emma, con parola usurata, tutta novecentesca, ci appare alienata. All’inverso di quanto accadeva a Don Chisciotte, anche lui stralunato e travolto da un viaggio tutto men tale, i sogni non nutrono Emma: anzi, via via la impoveriscono, la rendono pazza d’una cinerina pazzia. Masticare l’arsenico fu per lei una scelta obbligata.
In tutto questo scopriamo una solenne malinconia: o una rabbia, altissima come una preghiera. Flaubert aveva visto scaturire dai sogni romantici, alla lettera grandi e generosi, la piattezza, la meschinità ideale della borghesia: aveva visto distruggersi e farsi scheletro il progetto di una vita spiritualmente alta e nobile. Allo spirito rivoluzionario del 1848 non aveva creduto. Il suo romanticismo si era voltato in un sentimento di acceso nichilismo. Niente era più chiaro all’intelligenza di Flaubert della menzogna borghese. Sotto le forme morbide di Emma, lo scrittore inseguì il segno di un destino funebre, un’arsura morale che nessuna bevanda avrebbe potuto soddisfare.
Accanto a Emma, i suoi amanti, il marito, il farmacista Homais, e chiunque altro si affacci nelle pagine del romanzo: tutti portano il marchio affliggente della degradazione, e non lo sanno.

Lettere dalla prigionia
Per tutto questo, in Flaubert, non c’era soltanto odio: c’era una strana, accanita e fredda pietà. La bugia borghese, per cui gli imperativi etici possono venire esitati separandoli di netto dalla contingenza concreta dell’esistere, la soffriva in se stesso come un morbo: se ne sentiva invadere la mente, e l’urlo che ciò gli provocava restava mozzo e sfocato sulle sue labbra. Dalla prigionia di Croisset scriveva lettere dense di disperazione: volgeva in estetica l’assottigliarsi della consapevolezza etica. «Il genio, in fin dei conti, è forse solo un raffinamento del dolore, cioè una più intensa e completa penetrazione della realtà oggettiva attraverso la nostra anima. La tristezza di Molière nasceva certamente da tutta l’idiozia dell’umanità che egli sentiva in sé; egli soffriva dei Diaifourus e dei Tartufes che gli entravano per gli occhi nel cervello» (30 settembre 1853, a Louise Colet).
Emma Bovary, Charles, Homais, gli erano entrati «per gli occhi nel cervello», ma solo perché nel suo cervello c’era una identica irresolutezza, una identica incapacità a vivere la vita poiché la vita era caduta in eclissi.
L’ambizione di Flaubert era poter rappre sentare e studiare «l’anima umana con l’obiettività con cui, nelle scienze fisiche, si studia la materia». La sua illusione era «un misticismo nuovo»: quello per via del quale l’umanità potesse osservarsi nelle proprie opere come Dio si osserva nella natura. Era un’illusione, era un’ambizione sbagliata.

Flaubert fantasticava come Emma su un paradiso impossibile. Diversamente da lei, rappresentando lei, narrandone le velleità e le sconfitte, descriveva e rappresentava, di quel paradiso, non soltanto i limiti ma l’irrealtà atroce, infernale, e l’irreversibile deriva. Flaubert poteva uccidere Emma lasciando che inghiottisse arsenico, poteva, così, persino con cinismo, dannarla alla sua pochezza: ciò che non poteva era uccidere tutto quel che di Emma c’era in lui (e non solo di lei, ma anche di Charles, di Homais, e degli altri). Avrebbe desiderato ucciderlo con lo stile, con l’impassi bilità della forma e dell’arte, sostenendo che il romanziere dovesse svanire come nebbia al sole dell’invenzione. Invece, dolorosamente piagato, restò lì, fisso al suo specchio, a reclamare l’unica sua possibile identità. Emma Bovary era lui. Dopo di lui il romanzo avrebbe vissuto i propri personaggi: non li avrebbe più rappresentati.

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