Stefano Massini |
È la risposta dell’homo
erectus all’imperativo naturale, ancestrale, di procacciarsi il
cibo. Ma è anche uno strumento di definizione e realizzazione di sé.
Il concetto di lavoro ha due facce, fin dall’etimologia della
parola, alla quale Stefano Massini, romanziere e drammaturgo, autore
di Lehman trilogy – l’ultima regia firmata dal maestro
Luca Ronconi – e da sempre sensibile al tema (suo è anche lo
spettacolo Sette Minuti, divenuto anche un film per la regia
di Michele Placido), ha dedicato il libro Lavoro (Il Mulino,
2016).
Siccome «le emozioni
collegate a una parola ne compromettono il senso stesso», ecco che
il termine “lavoro” si è degradato via via che gli cresceva
attorno la disillusione. Esaminando la prima delle due facce, il
labor, cioè la fatica che implica sofferenza e risponde «alla
voce che ordina di procurarci materia prima da convertire in
energia», Massini si domanda: fino a quando a una bestia che,
nonostante una corsa agile, veda sempre fallire il suo agguato si può
chiedere di perseguire nei propri inutili slanci? Per gli uomini la
materia prima oggi è il denaro, spiega il drammaturgo a pagina99, e
quella «bestia mortificata» è una metafora incarnata da chi il
lavoro non lo trova e dai tanti neet, giovani che non hanno un
impiego, non lo cercano né investono nelle proprie competenze. «In
loro il trauma è particolarmente forte per via del confronto.
Veniamo da una fase storica che era esattamente il contrario: i
brillanti anni ’80-’90 ci hanno consegnato il ritratto di una
società fin troppo fissata con l’obiettivo continuo del fare, del
produrre a tutti i costi. Rispetto a quel modello oggi tutto è
rimesso in discussione».
In un Paese
costituzionalmente fondato sul lavoro, ma in cui questo elemento
programmatico basilare ha perso ogni concretezza, che risposta diamo
a quell’imperativo di sopravvivenza? Secondo Massini l’abbiamo
affidata alla sorte, alla Fortuna: «C’è uno sviluppo esponenziale
di slot machine e gratta&vinci. Molti fanno notare che esistevano
anche prima. Ma c’è una bella differenza tra giocare al Totocalcio
una volta a settimana e stare tre ore al giorno attaccati alla slot
machine. L’immagine di gente accalcata a grattare è un’esperienza
che chiunque di noi ha avuto, in Italia come all’estero. Ha mai
provato a guardare le pattumiere appena fuori dai tabaccai? Il
tentativo della fortuna si è sostituito alla “vivanda”, a ciò
che mi dà da vivere: non a caso qualche anno fa è stato introdotto
il Gratta&vinci con la formula della vittoria sotto forma di
stipendio, quantificata in un tot al mese invece della classica
grossa vincita una tantum».
Ma è forse nell’altra
faccia della parola “lavoro” che si percepisce di più la portata
del mutamento culturale. La radice sanscrita da cui deriva il labor
latino, spiega Massini, vuol dire “conseguire ciò che si
desidera”, in un senso che arriva a disegnare una “morfologia
sociale”, cioè a definire la posizione di ciascuno nel mondo.
Prima che la crisi deflagrasse, alla domanda “Che lavoro fai?” si
rispondeva usando il verbo essere (“Sono un medico”, per
esempio), «il verbo sommo deputato dell’identità, sinonimo di
“esistere”, strumento di affermazione suprema e quindi sintesi
politica dell’individuo». Nel momento in cui il lavoro non è più
percepito come una “colonna portante dell’edificio esistenziale
di ciascuno”, la definizione delle identità di ognuno arriva da un
altrove, dal modo in cui riempiamo il nostro tempo libero, spesso
specchiandolo nel virtuale.
Se l’occupazione (da ob
capere) è ciò che riempie il nostro tempo, sottraendolo ad
altro, quando questa manca o è precaria il tempo sottratto è poco e
quello (cosiddetto) “libero” si dilata: così «aspetti un tempo
considerati marginali come un hobby, l’essere tifoso di una squadra
di calcio o il seguire appassionatamente una certa serie tv diventano
qualificanti. È molto più facile che un architetto cerchi dei
propri simili in rete passando dal filtro di uno di questi interessi,
percepiti come essenziali, che dal fatto di fare l’architetto»,
riflette Massini. Un esempio calzante? «Artisti come Jannacci o
Vecchioni, che si sono connotati anche per la professione che
svolgevano al di là e prima della musica, se fossero emergenti oggi
nasconderebbero la professione di cardiologo o insegnante, perché –
al contrario di quanto è accaduto nelle loro carriere – non lo
considererebbero qualificante né determinante. Ed è chiaro che
questo è un effetto del precariato: se faccio un lavoro ma non so se
lo avrò ancora tra un mese, faccio fatica a definirmi attraverso
esso». Il problema vero, secondo Massini, è stata la rapidità dei
cambiamenti: «Era chiaro che l’arrivo delle auto a motore avrebbe
determinato la fine del mestiere di cocchiere, ma ciò è avvenuto in
modo lento e graduale, quindi non particolarmente traumatico; oggi i
mutamenti del lavoro sono velocissimi rispetto alla nostra capacità
di capirli e adeguarci: è diventato tutto così baumaniamente
liquido che, nella fretta, abbiamo tolto la diga e ci è venuto tutto
addosso».
Pagina 99, 8 settembre 2017