Wladimiro Settimelli,
morto qualche settimana fa, per “l'Unità” curò spesso pagine di
rievocazione storica. Nell'agosto 1986 gli fu affidata una rubrica
estiva dal titolo Archivio Italia,
donde ho ripreso – anche per ricordare la figura di un giornalista
cui sono grato soprattutto per le accuratissime inchieste sui misteri
dell'Italia repubblicana - la rapida (e vivida) narrazione che segue,
della guerra di Libia e dell'occupazione coloniale italiana. Erano
gli anni in cui il colonnello Gheddafi, dittatore in Libia,
intensificava la sua denuncia dei crimini italiani, reali o presunti,
e in cui due bombe libiche dimostrative erano state lanciate al largo
di Lampedusa. (S.L.L.)
È IL 2 OTTOBRE del 1911
quando la torpediniera italiana «Albatros», attracca alla dogana di
Tripoli. Pochi istanti dopo, scende a terra un ufficiale italiano che
consegna agli allibiti funzionari accorsi al porto, una lettera del
vice ammiraglio Thaon di Ravel. È una intimazione di resa alla Libia
e una richiesta al governo della «Sublime porta» (il governo turco
veniva chiamato così) di farsi da parte, pena il bombardamento della
città. Al largo, sulla linea dell’orizzonte, c’è già una parte
della poderosa flotta italiana in attesa: si tratta delle navi da
guerra «Benedetto Brin», «Emanuele Filiberto», «Garibaldi»,
«Roma», «Napoli», «Ferruccio», «Coatit», «Re Umberto»,
«Sicilia», «Sardegna», «Carlo Alberto» e «Varese». L’Italia
— dice il messaggio di Thaon di Revel — si considera
ufficialmente in guerra con la Turchia, dal 29 settembre precedente.
È, in pratica, una decisione unilaterale. Le autorità di Tripoli
respingono l’ultimatum e, il 3 ottobre, alle 15,30 esatte, le navi
aprono il fuoco sul forte della città a malapena difeso da qualche
vecchio cannone a corta gittata.
L’eco di quelle
cannonate si fa udire ancora oggi con gli insulti e le minacce di
Gheddafi e con quei due missili lanciati contro Lampedusa. Perché
occupammo la Libia e che cosa volevamo farne? Il presidente del
Consiglio Giovanni Giolitti, tornato al potere nel marzo del 1911,
aveva evidentemente ascoltato le voci preoccupate della grande
borghesia italiana e in parte del mondo cattolico che protestavano
contro il «far nulla del nostro paese». Era in piena espansione, in
quegli anni in tutta Europa, il colonialismo e la ricerca, ad ogni
costo, di paesi poveri da sfruttare e «civilizzare». Francia,
Inghilterra, Germania e Olanda, continuavano ad espandere i loro
possedimenti e a conquistare intere zone dell’Africa. E noi? Una
«proprietà» lungo il Mediterraneo, dicevano ì fautori del
colonialismo, avrebbe risolto i problemi tutti italiani della
disoccupazione e fermato la grande migrazione dei poveri verso le
Americhe. Insomma, ci saremmo arricchiti anche se a spese degli
altri. Nacque, così, il mito della «quarta sponda», al quale i
socialisti rispondevano gridando che quel paese non era altro che uno
«scatolone di sabbia» senza valore.
Sorsero così polemiche e
scontri politici anche all’interno dello stesso movimento
socialista. Giustino Fortunato, il grande meridionalista, non era
affatto contrario all’impresa che «forse avrebbe risolto i nostri
mali». La stampa cattolica, nazionalista e liberale sosteneva che la
Libia doveva essere occupata e Giovanni Pascoli scriveva la famosa
frase: «La Grande Proletaria delle nazioni è scesa in campo».
D’Annunzio e Corredini
non erano da meno. I sindacati, quando già si parlava di sbarco,
avevano proclamato, da Bologna, un primo sciopero generale che non
aveva riscosso gran successo. Pietro Nenni e Benito Mussolini (allora
socialista) erano, tra l’altro, finiti in carcere per aver tentato
di impedire ai richiamati di giungere ai distretti. Scontri e
manifestazioni pro o contro la guerra libica, si erano susseguite, un
po’ ovunque, per giorni e giorni. Poi quelle prime cannonate,
mentre ancora i giornali scrivevano che la «Tripolitania era ricca»
e altri rispondevano «che non lo era, ma che le braccia italiane
avrebbero fatto miracoli».
I primi giorni a Tripoli
(dopo la grandinata di proiettili di cannoni, c’era stato lo sbarco
dei marinai italiani) tutto era andato per il meglio. I comandanti
avevano promesso ai locali che sarebbero stati rispettati la loro
religione, i loro averi e loro diritti, ed era finita lì. Intanto in
Italia, al canto di «Tripoli bel suol d’amore», veniva imbarcato,
diretto in Libia, un grande corpo di spedizione composto di
bersaglieri, fanti, artiglieri e aviatori, comandati dal generale
Carlo Caneva. Neanche la comparsa del colera in alcune province
italiane ritardò quelle operazioni. Se l’occupazione di Tripoli da
parte dei marinai era avvenuta senza gravi scontri, le cose
cambiarono radicalmente all’arrivo della fanteria. Arabi e truppe
turche attaccarono più volte le posizioni italiane e vi furono
massacri atroci, dall’una parte e dall’altra. L’11° reggimento
bersaglieri fu quasi completamente distrutto e i poveri soldati
evirati e torturati. Gli italiani, a loro volta impiccarono,
fucilarono e incendiarono interi villaggi. Fu soltanto il preludio di
quello che sarebbe accaduto in seguito. L’occupazione italiana,
infatti, non riuscì mai ad andare oltre certe zone costiere. Il
«nemico libico» (un milione di abitanti, 80.000 chilometri quadrati
di culture e un povertà agghiacciante, prima della scoperta del
petrolio) dava prova di inusitato coraggio e attaccamento alla
propria indipendenza. Fra un trattato e l’altro, uno scontro e
quello seguente, si giunse alla prima guerra mondiale e poi
all’avvento del fascismo: fu il periodo più terribile. I patrioti
libici organizzarono una vera e propria guerra partigiana e l'Italia
di Mussolini rispose con terrificanti bombardamenti, l’uso dei gas,
e le fucilazioni di massa dopo processi sommari.
Così, fu passato per le armi l’eroe libico e combattente per la Senussia e l’indipendenza, Omar el Muktar. Organizzammo poi veri e propri campi di concentramento (niente a cne vedere con quelli nazisti) come quello famoso di El Agheila. Morirono così centinaia di migliaia di persone e intere popolazioni furono ridotte alla fame con i trasferimenti forzati ordinati da Rodolfo Graziani e Pietro Badoglio. E vero: costruimmo, in cambio, qualche strada, qualche scuola e alcune aziende modello. Nel 1956 pagammo i «debiti di guerra» a re Idris. Certo, con i soldi non restituimmo la vita ai martiri e agli impiccati. Ma Gheddafi non ha comunque diritto di confondere l’Italia repubblicana nata dalla Resistenza con l’Italia di Mussolini, Graziani e Badoglio.
Così, fu passato per le armi l’eroe libico e combattente per la Senussia e l’indipendenza, Omar el Muktar. Organizzammo poi veri e propri campi di concentramento (niente a cne vedere con quelli nazisti) come quello famoso di El Agheila. Morirono così centinaia di migliaia di persone e intere popolazioni furono ridotte alla fame con i trasferimenti forzati ordinati da Rodolfo Graziani e Pietro Badoglio. E vero: costruimmo, in cambio, qualche strada, qualche scuola e alcune aziende modello. Nel 1956 pagammo i «debiti di guerra» a re Idris. Certo, con i soldi non restituimmo la vita ai martiri e agli impiccati. Ma Gheddafi non ha comunque diritto di confondere l’Italia repubblicana nata dalla Resistenza con l’Italia di Mussolini, Graziani e Badoglio.
"l'Unità", 10 agosto 1986
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