2.1.18

Pasolini. La passeggiata di Totò e Ninetto (Federico De Melis)

Totò e Ninetto, un padre e un figlio sottoproletari, camminano per le strade del mondo, le strade dell’estrema periferia romana degli anni '60. Ai due si unisce un corvo parlante (la voce querula e dolce è di Francesco Leonetti), saggio e disilluso, che dice cose giuste sulle sorti dell’umanità ma è insieme consapevole della loro limitatezza. Questo l’avvio di Uccellacci e uccellini (1966) di Pier Paolo Pasolini, oggi riproposto in cassetta dalla Cgd.
La passeggiata di Totò e Ninetto — passeggiata intesa, in senso romantico, come un andare senza meta —, che nella sceneggiatura era il terzo di tre episodi (preziosi spezzoni del primo, L’uomo bianco, tagliato nella versione definitiva, li mandò in onda Raitre nell’85 nella Magnifica Ossessione di Enrico Ghezzi) nel film fa da cornice narrativa alla favola degli uccellacci e degli uccellini che il corvo racconta ai due (e che era il secondo episodio): San Francesco affida a Frate Ciccillo (Totò) e a Frate Ninetto il compito di parlare con falchi e passerotti per conciliarli e consegnarli all'amore.
Nel presente il corvo continua a incalzare con le sue prediche i due poveri cristi. Candidi e cinici, infastiditi, Totò e Ninetto lo guardano di sottecchi, e nella loro mente prende corpo il piano: mangiarselo. La fine è sollievo e amarezza: il corvo è arrostito e mangiato con appetito atavico. Mancheranno i suoi discorsi noiosi ma anche la sua saggezza disincantata, la sua libertà intellettuale. All’origine il corvo doveva essere «un saggio 'reale' che cerca, attraverso una scandalosa e anarchica libertà, la realtà empirica e assoluta, non sistematica, nelle cose». Ma che cosa sono, se non proprio questo, il padre e il figlio sottoproletari? Pasolini doveva inventare un corvo che facesse loro da controcanto, e che dunque non poteva che essere marxista. Ma siccome il corvo dovrebbe essere simpatico e stravagante nel suo ordine mentale, amaro ma infine gioioso, non poteva essere un marxista di vecchio tipo, categorico e settoriale, ma doveva essere piuttosto «un corvo marxista non del tutto ancora liberato dal corvo anarchico, indipendente, dolce e veritiero».
Alla fine Totò e Ninetto divorano l’uccello ma così facendo, suggerisce Pasolini, lo «assimilano», o meglio assimilano quel poco di utile che può servire loro per sopravvivere nel mondo degradato. Così, in un certo senso, i due buoni diavoli, con la loro innocenza irridente e semplicità sottoproletaria, e il corvo, con il suo marxismo infondato e scettico, fanno parte della stessa visione del mondo, dello stesso «sogno di una cosa», come Pasolini e i borgatari degli anni ’60.
Umoristico (un omaggio ai classici del comico) e triste, leggero e ideologico, «ideocomico» (come scrisse Pasolini), Uccellacci e uccellini restituisce in forma di apologo verità orribili ad ascoltarsi. In controluce c’è il «nero pessimismo» degli anni '70, dall'Abiura alla Trilogia della vita e del finale Salò, ma la mimica di Totò e la risata malandra o il riso ingenuo di Ninetto hanno come il sopravvento, la superficie è più vera della verità sottostante.
Uccellacci e uccellini è forse il film più sereno di Pasolini, si respira tra gli anfratti del degrado, tra i casermoni di nuova costruzione degli anni '60 e le baracche dei borghetti romani, il solicello e l’aria tersa che viene dalla vicina campagna. È un mondo mitico che fa da scenario a tutte le favole possibili, e si vorrebbe che il parlare del corvo, col suo tono ironico e esopico, fosse un raccontare infinito, che dalla sua saggezza scaturisse il racconto del mondo, al di sopra dei travagli e lutti ideologici.
«L'atroce amarezza dell’ideologia mi ha impedito di vedere le cose e gli uomini con la leggerezza del perdono» ha scritto Pasolini. Se nel fondo è vero, non sembra. Uccellacci e uccellini fa parte di quel grande capitolo dell’opera pasoliniana votato all’utopia del paleocristianesimo (il Vangelo secondo Matteo è del ’64), al dialogo con la Chiesa conciliare e giovannea, al confronto serrato e libero della sua anima marxista e della sua anima anarco-evangelica, di due credi che lottano invano per potersi redimere nella serenità francescana, nell'obbiettività del mondo così come è.


“il manifesto”, 11 gennaio 1988

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