12.1.18

“Dove paga le tasse Mc Donald's? Il giro del mondo delle multinazionali” (Chiara Rancati)

Un articolo chiaro nella denuncia, ma esageratamente ottimista sulle prospettive di soluzione. Dal tempo della sua stesura, circa due anni fa, non è successo nulla di determinante e la vittoria elettorale di Trump ha semmai complicato le cose. Di questi temi vorrei sentire parlare nella campagna elettorale in corso in Italia e non di miracolistici tagli di tasse e imposte, quasi sempre a scapito dello stato sociale. Le domande sono facili: “In Italia le multinazionali pagano le tasse che dovrebbero, commisurate ai profitti e alle leggi in vigore nel nostro paese? Se così non è, quanto eludono e a quali artifici ricorrono? Con quali politiche è possibile bloccare questa mala pratica? Quanto può essere recuperato?”. C'è qualcuno che prova a rispondere? (S.L.L.)

Mc Donald’s vende molti più panini in Francia che in Lussemburgo, ma la sua filiale lussemburghese registra profitti ben più elevati. Questo perché i ristoranti francesi della catena di fast food per utilizzare i locali che li ospitano e gli arredi al loro interno pagano un considerevole affitto all’azienda che ne è proprietaria, che poi sarebbe Mc Donald’s Lussemburgo. Un circolo vizioso privo di senso? Non proprio. Perché l’aliquota fiscale sui redditi delle aziende nel Granducato è molto più bassa di quella francese, quindi spostando i suoi profitti da un Paese all’altro la multinazionale americana dell’hamburger risparmia un bel po’ in tasse.
Ecco un classico esempio di “ottimizzazione fiscale”, ovvero di strategia teoricamente legale ma sostanzialmente scorretta con cui un’azienda presente in diversi Paesi sfrutta le lacune nelle regole del commercio estero per pagare meno tasse possibile. L’abitudine è radicata nei meccanismi industriali e finanziari da decenni, ma da qualche anno a questa parte è diventata uno dei grandi nemici della comunità internazionale, determinata a mettervi fine.
Nel novembre scorso, ad Antalya, i leader del G20 hanno sottoscritto un piano in quindici punti per lanciare l’offensiva a livello mondiale, e una decina di giorni fa, nei saloni parigini dell’Ocse, rappresentanti delle autorità fiscali di 31 Paesi hanno firmato il primo accordo multilaterale di implementazione, che riguarda lo scambio automatico di informazioni. «C’è un accordo politico molto forte, che ora si sta traducendo in pratica, definendo metodi e regole concrete», spiega a pagina99 Pascal Saint-Amans, direttore della divisione per le politiche fiscali dell’Ocse, che dal 2011 coordina le operazioni su questo fronte, «anche la Commissione europea si sta muovendo per inserire la questione nella sua regolamentazione fiscale. Il messaggio che si sta facendo passare è che il processo è cominciato e avanza da adesso, subito, e che chi non vuole adeguarsi sarà presto costretto a farlo». Un attivismo che suscita il plauso di gruppi e associazioni che da anni si battono contro le pratiche fiscali scorrette, che ora hanno, nelle parole del direttore esecutivo del Tax Justice Network John Christensen «motivo di essere ottimiste».
Certo, per far davvero sparire le centinaia di trucchetti fiscali oggi in uso ci vorrà ben più di un accordo tecnico con poche decine di firmatari, tra cui spicca l’assenza degli Usa. Ma quantomeno questi provvedimenti, secondo i due esperti, sono segnali evidenti di un cambio di mentalità diffuso. «La pianificazione fiscale era diventata parte del business model per numerose aziende, una forma di creazione di valore, mentre dovrebbe essere una funzione di supporto e niente più», dice ancora Saint-Amans. «Era una pratica normale», prosegue, «tutti lo facevano e nessuno diceva niente, mentre ora le aziende saranno spinte a cambiare se non vogliono ritrovarsi sotto la lente di ingrandimento. Poi magari resterà qualche gruppo più aggressivo su questo fronte, o qualche nicchia o scappatoia di cui non ci siamo inizialmente accorti, ma il contesto sarà diverso».
Il grande motore di questa inversione di tendenza è stata senza dubbio la crisi economica e finanziaria: con indebitamento in crescita, deficit da contenere ed entrate fiscali già limate dalla recessione, i governi non potevano più restare indifferenti di fronte a queste pratiche. Il costo per i loro sistemi fiscali era troppo elevato, qualcosa tra i 100 e i 240 miliardi di dollari all’anno a livello globale, secondo una stima Ocse dell’ottobre 2015 che i suoi stessi autori definiscono «prudente» e arrotondata al ribasso. «Negli ultimi 40 anni i grandi gruppi hanno sempre barato sulle tasse, e non era mai stato fatto niente di concreto per evitarlo. Ma oggi sulla politica c’è una forte pressione, anche da parte dell’opinione pubblica, sia da destra sia da sinistra», sottolinea Christensen, «progressisti e conservatori dicono che non è più possibile che le multinazionali non paghino quanto dovrebbero. E non ci sono più scuse che i governi possano usare per giustificare il fatto di non tassare queste aziende».
In questo clima sono partite sia la mobilitazione internazionale, che ha scelto il G20 come veicolo principale, sia le azioni autonome di alcuni Stati, che hanno iniziato a chiedere più trasparenza sulle strutture e attività societarie, ma anche a cercare di farsi ripagare almeno parte delle tasse eluse per decenni. Numerose giurisdizioni hanno aperto inchieste per omessa dichiarazione, inviato verbali e contestazioni per mano della polizia tributaria, o più discretamente intavolato mediazioni nella speranza di ottenere accordi di condono in cambio di risarcimenti. L’Italia ci è riuscita con Apple, che a fine 2015 ha accettato di versare 318 milioni di euro all’Agenzia delle Entrate per sanare mancati versamenti dell’Ires tra 2008 e 2013, in quello che la procura titolare del caso ha definito un «risultato importante» per le casse statali. Si è dovuta invece accontentare di una vittoria a metà la Gran Bretagna nel contenzioso con Google, chiuso con un deal che impone all’azienda un pagamento di appena 130 milioni di sterline per dieci anni di imposte aggirate, quando il conto totale avrebbe potuto sfiorare il miliardo, considerando il giro d’affari del motore di ricerca e dei suoi prodotti collegati nel Paese.
Ora però, argomentano gli esperti del Tax Justice Network, quello che serve è andare oltre il lavoro bilaterale sui singoli casi, e passare a una revisione completa della logica di base del sistema fiscale internazionale, in cui «una multinazionale non è trattata come una singola azienda, ma come un insieme di aziende diverse, attive in diverse giurisdizioni, ciascuna delle quali è tassata separatamente». Così, spiega ancora il direttore Christensen, «Mc Donald’s può fare finta che i suoi profitti siano realizzati in Lussemburgo, anche se vende pasti e bibite in Francia, e altri possono nasconderli montando strutture societarie fittizie alle Cayman o chissà dove. È un sistema assurdo, del tutto superato, che non funzionava nel secolo scorso e funziona ancora meno adesso. C’è stata la globalizzazione dell’economia, ma non si sono dati agli Stati gli strumenti per mantenere la loro sovranità fiscale».


Pagina 99, 6 febbraio 2016

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