13.2.18

A proposito di liberalismo e di polemiche liberali (Palmiro Togliatti, 1919)

Di Mario Missiroli (1886-1974) si ricorda la lunga milizia giornalistica e specialmente il ruolo di direttore del Corrierone “autorevole” e reticente tra il 1952 e il 1961, gli anni d'oro della Dc, come si ricordano i rapporti altalenanti con il fascismo. Ostile a Mussolini fu da costui ferito in duello nei primi anni 20 e fu tra i suoi accusatori al tempo del delitto Matteotti. Poi, protetto dal ras emiliano Leandro Arpinati, si riconciliò con il regime e non mancò nei suoi scritti la piaggeria nei confronti del Duce.
Missiroli ebbe, fin dalla giovinezza, ambizioni di scrittore. Pubblicò nel 1913 La monarchia socialista, in cui rimproverava al conservatorismo dei Savoia la mancata riforma religiosa che li avrebbe poi spinti, per guadagnare il consenso delle masse, ad accettare quelle rivendicazioni socialiste che il giornalista non amava. Pubblicò poi con Zanichelli, nel 1919, una Polemica liberale, rivolta prevalentemente contro democratici e socialisti.
Il testo che segue, apparso in quell'anno sull'“Ordine nuovo” diretto da Gramsci nella rubrica La battaglia delle idee e firmato p.t., è formalmente una recensione al libro di Missiroli, ma l'autore, Palmiro Togliatti, approfitta dell'occasione per una definizione teorico-politica del liberalismo, delle sue correnti e dei suoi rapporti con il socialismo. Mi pare che Togliatti prospetti fin da allora, quando non c'era ancora un partito comunista, criteri analitici che continueranno ad orientarne la condotta quando, qualche decennio più tardi, sarà leader indiscusso del comunismo italiano e cercherà una “via italiana al socialismo” diversa dal modello sovietico. Anche per questo ne consiglio vivamente la lettura. (S.L.L.)
Una immagine giovanile di Palmiro Togliatti
Che cos’è il liberalismo?
La polemica, dalla quale questo libro trae il titolo, che ne forma la parte centrale e dà luce e valore alle altre parti, si svolse tra il Missiroli e alcuni uomini politici e di pensiero, intorno al concetto di liberalismo e alla funzione del partito liberale. Che vuol dire essere liberali? E se questa parola, per la stessa estensione del suo contenuto, conserva un significato politico, quale dovrebbe essere, in politica, il logico programma dei liberali, l’atteggiamento coerente con le premesse di pensiero alle quali essi vorrebbero richiamarsi? o meglio: esistono ancora degli uomini, dei gruppi, un partito, che possano richiamarsi a queste premesse, considerarsi depositari e propugnatori della grande idea, eredi del grande nome ch’è sì facile rimettere a nuovo, ogni tanto, tra le stamburate patriottiche e la retorica del Risorgimento nazionale?
Perché il liberalismo fu pure una grande cosa; chiamarsi ed essere liberali non fu una frase priva di senso, quando i pensatori e gli uomini di azione del 700 e della prima metà dell’800 conducevano la polemica e la lotta contro il sistema di governo monarchico-feudale e contro l’ordine sociale del privilegio e degli abusi signorili, e compievano quest’opera in modo organico, completo, con chiara consapevolezza del valore dei principi e delle loro inevitabili conseguenze pratiche. Il liberalismo era allora movimento radicale e universale; aveva una sua filosofia e propugnava un rinnovamento letterario, voleva instaurata su nuove basi la vita morale e preconizzava tutte le trasformazioni politiche e sociali. Fonte prima di tutto il movimento era il principio individualista e rivoluzionario, il quale col progredire continuo della consapevolezza; libertà diventa sicurezza di armonico sviluppo, nei quadri stabiliti, sotto la tutela della classe che governa e concepisce la sua azione, sotto un’apparenza di assoluto, come una investitura perpetua da parte dello spirito del mondo. Non si parla piu di libertà conquistata ma di libertà garantita, non più di diritti dell’uomo ma di ordine sociale. Il nome di liberale resta, come agli aristocratici datisi al commercio restava il titolo nobiliare suonante di armi e di battaglie, ma i liberali sono morti, sono diventati conservatori, «classe dirigente», uomini di ordine, e il loro «ordine» è l’ultima forma storica del diritto divino. La funzione liberatrice è passata ad altri, a una classe nuova, che prendendo a sua volta coscienza del suo scopo in modo radicale e completo, riscuote nel suo pensiero tutte le audacie, rivendica a sé tutto ciò che di universalmente valido ancora vive nella tradizione rivoluzionaria, e non rinnega il passato mentre si conquista l’avvenire.
Le vecchie classi borghesi, i partiti di governo ben sentono il pericolo e l’equivoco della loro posizione; hanno una coscienza più o meno chiara che il principio che ha giustificato il loro avvento al potere, giustifica ora l’ascesa e l’affermazione di sé dei nuovi ribelli, sanno che Babeuf non è altro che un Robespierre il quale va fino in fondo, che Marx è figlio diretto di Hegel, e Bakunin è per lo meno nipote di Rousseau, e vorrebbero tornare indietro, rinunciare al diavolo e rifarsi frati, anche a costo di riaccettare un po’ di antico regime. Ma solo il diavolo, cioè la rivoluzione, ha legittimato i loro titoli, e rinnegando la sua logica essi perdono ogni ragione ideale di esistere, diventano puro elemento reazionario, forza che resiste, peso morto; il loro Stato non si giustifica più che per motivi pratici, perché c’è della gente che non vuole lasciare ad altri il proprio posto.

Lo Stato liberale in Italia
Il processo è visibile in tutti gli Stati moderni, visibilissimo in Italia, dove, mancando una tradizione di governo unitario, ed essendo anche non troppo ben fusa ed una la compagine nazionale, lo Stato non altrove che nei principi della Rivoluzione poté trovare una giustificazione ideale della sua esistenza. E così difatti fondavano lo Stato i pensatori del Risorgimento, dal Mazzini allo Spaventa. Ma chiusa l’epoca delle rivolte nazionali e costituzionali, conquistato alla monarchia tutto il paese, cominciò il periodo critico dello Stato italiano, che non poteva essere reazionario se non voleva distruggere se stesso, mentre d’altra parte, per la mancanza di una vera classe borghese industriale o agricola, il partito cosiddetto liberale non riusciva mai a liberarsi dal vacuo gioco delle parole e degli uomini, a concretare la sua azione in un positivo programma di ricostruzione e di rinnovamento.
Noi scontiamo ancora oggi il peccato d’origine del liberalismo nostrano, di essere stato movimento di un’aristocrazia intellettuale e non riscossa e riordinamento di sane e forti energie sociali. La macchina dello Stato, costruita secondo le regole dell’arte di governo venuteci d’Inghilterra e di Francia era perciò destinata a diventare, nelle mani dei primi nuclei i quali avessero organizzata la propria forza allo scopo di conquistarla, istrumento di dominio sulle altre parti del paese e di compressione delle rimanenti energie produttive, organo squisito di sfruttamento e niente altro. Né la tradizione si smentisce: oggigiorno lo Stato Italiano sono i 500 milioni di Ansaldo ecc. e i 60 mila carabinieri di Nitti. La rivoluzione liberale tra di noi non ha servito che a creare un perfezionato strumento di polizia.
Perciò tra di noi acquista un significato speciale l’espressione che i veri liberali sono i socialisti, espressione che il Missiroli si compiace di ripetere e di cui ho cercato di spiegare quale è il significato generale. Noi siamo, con tutte le nostre smanie e irrequietezze pseudorivoluzionarie, uno dei paesi dove più forte e più generale è ancora la soggezione inconscia e paziente all’autorità esteriore. Non per niente siamo un paese dove la Riforma religiosa non ha avuto quasi nessuna eco, non per niente siamo la patria e la sede dell’infallibile. Anche i democratici, in Italia, sono preti e sbirri. La lotta di classe è stata, per buona parte del nostro popolo, l’unica scuola di libertà, il socialismo può diventare il vero liberatore di tutto il paese nostro, abituandoci a considerare la libertà come una conquista, gli istituti politici come una incarnazione delle volontà organizzate e coordinate a uno scopo comune, l’autorità sociale come attributo della persona umana, inseparabilmente congiunto con la dignità del lavoro.

Azione e contemplazione
Ma ritorniamo a M. Missiroli e alla posizione sua nella polemica che si svolge attraverso gli articoli da lui ora riuniti in volume. Anzitutto, bisogna riconoscere che il suo modo di impostare e discutere le questioni gli fa una posizione speciale tra i polemisti politici che sono ora in Italia. Nel suo libro la politica, che per la maggior parte degli uomini non è altro che un battagliare di persone e di programmi, che una preoccupazione del momento agita sopra uno scenario cinematografico, la politica diventa contrasto di principi, cozzo di avverse posizioni ideali. Missiroli non si può perciò chiamare uomo di parte; egli è un elaboratore di idee, è in fondo soltanto un logico abile e rigoroso. Determinato un punto di partenza, fissata la legge interiore di un movimento spirituale, egli ne deduce inesorabilmente le conseguenze, e le rinfaccia ai timidi, agli incerti, a quelli che vorrebbero fermarsi a mezzo. Cosi si rivelano le contraddizioni riposte, gli attriti secreti, e le concordanze insospettate: il particolare si illumina della luce dell’eterno, la cronaca si fa storia.
Del resto il compito dello scrittore è facilitato dalla posizione ch’egli prende: egli non parteggia, davanti al gioco immane delle forze scatenate nel mondo, nella lotta per l’affermazione di sé, egli rimane spettatore, non aderisce, non giudica nemmeno se non da un punto di vista interiore al movimento di cui tratta. E fin qui nulla di male: ognuno si scelga la parte che vuole. Ma il Missiroli va più in là, e la sua posizione vuole giustificare da un punto di vista universale, sostenere ch’essa è l’unica conveniente a chi ha acquistato coscienza critica della legge intima della vita e della storia. Perché se essa è lotta, divenire continuo, e se non esiste un punto di fermata, che possa servire come base per un giudizio estrinseco e definitivo, allora non esiste nemmeno un punto nel quale l’uomo di studio possa inserire la propria azione; non resta altro che uno spettacolo da contemplare: le posizioni contrarie si equivalgono, la ragione è nel successo, la storia diventa un succedersi senza mèta né scopo, più alta e vera del grido del Manifesto dei Comunisti risuona la parola amara dell’Ecclesiaste : Non vi è nulla di nuovo sotto il sole.
È l’ultima parola dell’individualismo distruttore e scettico, che ha smarrito la certezza dell’universale, è la disperazione romantica che si ravvolge nel manto della contemplazione, e dandosi il nome di senso storico recide le molle dell agire. Per noi solo nell’azione vive e si rivela l’assoluto e conoscere il vero vuol dire concorrere alla creazione di esso, prendendo posizione, parteggiando, immergendosi decisamente nel mare agitato della realtà. Acquistare coscienza storica per noi vuol dire sentirsi parte effettiva e operante della storia, conquistare sempre più chiara coscienza del proprio scopo e quindi coscienza di sé come forza attiva. E non possiamo disgiungere il pensare dall’operare.
Mario Missiroli accetta come strumento di studio il metodo del pensiero moderno, ma rifugge dal prendere la posizione di lotta che sarebbe richiesta da esso, e rimane al di fuori della mischia, dove s’immagina che sia l’unica pace, l'unica calma, l’unica quiete che ancora è concessa agli uomini: quella del contemplare. Per noi non vi è quiete che nel risolvere, operando, i problemi che agitano questa nostra vita comune, non vi è calma che nell’eliminare, lottando, le contraddizioni pratiche e ideali, non pace che non sia la conseguenza di un guerreggiare.
Mario Missiroli ha la nostalgia della stabilità del vero oggettivo che si apprende e non si conquista, del bene che si accoglie e non si costruisce: rinchiudendosi nella torre d’avorio dell’uomo di studio egli finisce per negare la modernità: egli è un uomo moderno che ha la nostalgia del cattolicismo.

“Ordine Nuovo”, Anno I, n.19, 1919


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