5.2.18

«I giacobini neri» di C.L.R. James. Schiavi d'America alla presa della Bastiglia (Alessandro Portelli)

Tossaint L'Ouverture
Pagine rigorose e avvincenti per ricostruire la rivoluzione antischiavista che portò alla cacciata dei francesi e alla fondazione della Repubblica di Haiti. Un grande sommovimento sociale che dai Caraibi si diffuse negli Usa, cambiando la storia mondiale. Per poi essere rimosso dalla storia dei vincitori.
Ci sono libri che spostano radicalmente l'idea occidentale della storia, l'immagine che l'Occidente ha di sé, che mettono il margine e la periferia al centro, in maniera talmente radicale che la nostra cultura fa praticamente finta che non esistano. Due di questi libri uscirono sul finire degli anni '30: Black Reconstruction in America di W. E. B. Du Bois, e The Black Jacobins. Toussaint L'Ouverture and the San Domingo Revolution di C.L.R. James.
I loro autori sono due giganti del ventesimo secolo, ma per la maggior parte dei nostri storici e politologi potrebbero anche non esistere. E forse non esistono veramente: dopo tutto, non erano neanche bianchi, e per di più - ciascuno a modo suo e in tempi diversi - sono stati tutti e due comunisti e partecipi con un altro comunista, George Padmore (già:«chi era costui?»), delle origini del movimento panafricano e anticolonialista.
In Black Reconstruction, tuttora mai tradotto in italiano (ne tratta una piccola e preziosa monografia di Lauso Zagato, che risale al 1975), W. E. B. DuBois spazzava via la versione etnocentrica della guerra civile americana: lungi dall'essere passivamente liberati dalla benevolenza di Lincoln e del Nord, gli afroamericani hanno avuto un ruolo decisivo nella propria liberazione e nell'esito della guerra. È stato quello che DuBois chiamava lo «sciopero generale» degli schiavi, la loro fuga in massa verso le file dei soldati nordisti, a far crollare l'apparato produttivo del Sud ribelle e decidere una guerra che il Nord non riusciva a vincere. Gli schiavi, gli afroamericani, insomma, non sono stati oggetto di una storia monopolizzata dai bianchi e dalle classi dominanti, ma protagonisti della propria liberazione e, con essa, della storia intera.

Il vento della libertà
Tre anni dopo, C. L. R. James fa un passo avanti: è la storia intera del nostro mondo che ruota attorno alle vicende di un'isola caraibica, Santo Domingo, e al protagonismo degli schiavi che conquistarono la libertà e fondarono la prima repubblica africana, Haiti. I giacobini neri era già uscito molti anni fa, e ritorna oggi nella traduzione di Raffaele Petrilli rivista e adattata da Filippo Del Lucchese, con introduzione di Sandro Chignola e una postfazione dello scrittore americano Madison Smartt Bell (Derive Approdi, pp. 363, euro 25).
Sul finire del '700, spiega James, Santo Domingo era la «più bella colonia del mondo» e, per questo, un inferno di orrore schiavista. Grande quasi quanto l'Irlanda, divisa fra la Francia e la Spagna, Santo Domingo stava all'economia settecentesca dello zucchero e del cotone un po' come il Bahrein e il Kuwait stanno a quella novecentesca del petrolio: una fonte apparentemente inesauribile di ricchezza, estratta con brutalità assoluta tanto nei confronti della terra quanto nei confronti di quella merce umana importata dall'Africa talmente a buon mercato che era più conveniente ammazzare uno schiavo irrispettoso e comprarne un altro che adattarsi a tollerarlo. Ma anche su questa isola spira sul volgere del secolo il vento della libertà e della rivoluzione. Gli Stati Uniti hanno appena conquistato l'indipendenza; e la madrepatria francese è nel pieno della sua grande rivoluzione. James segue con minuzia rabbiosa gli andirivieni, le contraddizioni, le discussioni di una Francia rivoluzionaria dove la borghesia rivendica la libertà, le masse proletarie parigine spingono per l'uguaglianza, e la questione della schiavitù è la cartina di tornasole su cui si misura la verità della rivoluzione. Dopo tutto, le navi cariche di schiavi all'andata e di zucchero al ritorno sono di proprietà dei grandi borghesi rivoluzionari di Nantes; e persino i bianchi e mulatti schiavisti di Santo Domingo si identificano con la repubblica. Ma i veri «giacobini», suggerisce James, non stanno a Parigi, ma nelle piantagioni e nelle montagne di Haiti. Qui, come più tardi in Virginia e in Georgia, saranno proprio gli schiavi - analfabeti, appena arrivati dall'Africa, trattati da subumani e semiselvaggi - a incarnare, a portare fino in fondo e a rendere possibili quei valori di libertà che i loro padroni rivendicano per sé fingendo di ritenerli universali (subito dopo la dichiarazione d'indipendenza, in cui Thomas Jefferson e i coloni americani proclamavano che «tutti gli uomini sono creati uguali», furono inondati di lettere e petizioni dei loro schiavi e dei neri liberi che dicevano, in sostanza: benissimo, d'accordo, quando si comincia? Naturalmente, ci volle una guerra, e non bastò nemmeno).
C.L.R. James racconta una storia complicata, spesso confusa, di alleanze e rotture, tanto fra bianchi, mulatti e neri a Santo Domingo quanto fra le diverse anime di classe della rivoluzione in Francia (con in mezzo i tentativi dell'Inghilterra, patria della libertà, di inserirsi e mettere le mani sulla più ricca colonia del mondo). È una guerra senza esclusione di colpi, di massacri e tradimenti da tutte le parti, durata dodici anni finché ogni compromesso è spazzato via e ai neri ribelli non resta altra scelta che l'indipendenza e la repubblica.Un immenso sommovimentoAl centro dell'analisi di James sta una difficile relazione: da un lato, i fattori di classe, trattati con rigore marxiano d'altri tempi, ma tuttora sostanzialmente persuasivi nel disegno generale; dall'altro, una personalità eccezionale, Toussaint L'Ouverture, un altro di quei grandi protagonisti della storia umana di cui la nostra cultura finge di ignorare l'esistenza.Anche per questo, avrei preferito che invece del sottotitolo che gli è stato dato nell'edizione italiana La prima rivolta contro l'uomo bianco fosse stato mantenuto quello originale: Toussaint L'Ouverture e la rivoluzione di Santo Domingo. Un po' perché questa rivoluzione ha cercato fino all'ultimo di non avere come antagonista «l'uomo bianco» (ce n'erano diversi fra i consiglieri e gli aiutanti di Toussaint) ma un'istituzione e un rapporto di classe: la schiavitù. Soprattutto, perché il nodo problematico su cui James insiste è proprio quello del rapporto fra il singolo «grande uomo» Toussaint e un immenso sommovimento sociale collettivo, una grande vicenda di masse. «Non fu Toussaint a fare la rivoluzione - scrive infine James -, ma la rivoluzione a fare Toussaint»; c'è una copla di fandango rivoluzionario andaluso che dice, «qui ci vorrebbe un Fidel come a Cuba, ma dobbiamo sapere che un popolo che sa quello che vuole partorisce un proprio Fidel»). Io aggiungerei che la rivoluzione ha fatto Toussaint perché altrimenti non poteva fare se stessa.Toussaint aveva quarant'anni e si chiamava Toussaint Breda quando, non senza esitazioni, si unisce alla rivolta iniziata dal cimarron voodoo Boukman, prende il nome di L'Ouverture come a dire che adesso si apre un'epoca nuova, e presto ne diventa il capo carismatico indiscusso. C'è qualcosa di doloroso quando James osserva che senza le straordinarie circostanze storiche in cui si trovarono a vivere, grandi protagonisti come Toussaint, Christophe, Dessalines avrebbero vissuto e sarebbero morti inosservati, trattati fino alla fine solo come fidati, innocui subalterni e servitori. (Nel 1821, ispirata in gran parte dalle vicende di Haiti, si prepara a Charleston, South Carolina, una rivolta di schiavi. Quando Rolla, uno dei capi, è arrestato, il suo padrone disse: non ci posso credere; era il mio schiavo più fidato, gli ho tante volte affidato la mia famiglia. Gli chiede: ma che intenzioni avevi? E Rolla: piantarti la spada nella pancia e tagliarti la testa, a te e a tutti i tuoi. Senza quel tentativo di rivolta, anche Rolla sarebbe stato ricordato solo come un fedele e fidato domestico. Quanto furore si annida nell'anima di tanti oppressi che non incontrano le circostanze adatte?).Una personalità socialeLa Francia rivoluzionaria abolisce la schiavitù in ritardo, quasi per caso e un po' pentendosene; Napoleone la restaura ma ormai è troppo tardi, e gli eserciti che manda per domare Santo Domingo vengono distrutti dalle febbri e dai ribelli neri (Toussaint paga con la libertà e la vita l'essersi fidato della Francia rivoluzionaria; e Dessalines completerà il lavoro senza scrupoli e senza pietà). Ed è qui che il mondo gira attorno alla centralità di Haiti. Ricordiamoci: la Francia era allora padrona della ricca e fertile valle del Mississippi, da New Orleans (Orléans, appunto) al confine canadese (attraverso luoghi chiamati Saint Louis, Louisville, D'etroits, Sault Sainte Marie, Des Moines...) e non si era ancora rassegnata alla recente perdita del Canada. Il recupero di Santo Domingo è allora la pietra angolare di un disegno imperiale francese dai Caraibi al circolo polare artico, attraverso la valle del Mississippi e il Canada riconquistato nella guerra contro gli inglesi. Sono gli schiavi neri di Haiti a far saltare questa visione: senza la preziosa Santo Domingo, non ne vale più la pena. Guardate: nel 1802, Haiti è indipendente; nel 1803, Napoleone svende tutta la valle del Mississippi ai neonati Stati Uniti, per quattro centesimi l'acro. Sconfitta dai suoi schiavi, la Francia abbandona il Nord America. Il resto - la frontiera, l'espansione, l'egemonia degli Stati Uniti - è la storia dell'Occidente fino a noi. Ma attorno ad Haiti ruota una storia controfattuale che sarebbe piaciuta a Philip K. Dick: e se Haiti avesse perso, sarebbe il francese oggi la lingua egemone?Gli schiavi fuggiaschi della Georgia, gli schiavi rivoluzionari di Santo Domingo non hanno scritto episodi marginali, magari entusiasmanti, della nostra storia. L'hanno fatta loro.

Post scriptum.
Sulle pagine culturali di Repubblica del 3 novembre, un corrispondente letterario da New York commemora William Styron scrivendo che «Nelle Confessioni di Nat Turner affrontò l'abominio della schiavitù attraverso gli occhi di un personaggio immaginario di un afro-americano che tentò una ribellione nei confronti dei "padroni"». A parte le inspiegabili virgolette (i padroni erano letteralmente tali: proprietari degli schiavi), forse vale la pena di informarlo che Nat Turner non è «immaginario» per niente: si è ribellato, ha terrorizzato il Sud, è stato sconfitto ed è stato giustiziato nel 1831 lasciando una memorabile narrazione di sé. Ma Nat Turner è altrettanto inconcepibile di Toussaint e Dessalines, e di George Padmore: semplicemente, ci rifiutiamo di accettare la loro esistenza, la loro rivolta, la loro intelligenza. D'altronde, questo è lo stesso critico che anni fa sulle stesse pagine sbeffeggiava intellettuali neri come Henry Louis Gates, Jr. e Kwame Appiah perché la loro Encyclopaedia Africana dava troppo spazio, pensate, al «giocatore di cricket» C. L. R. James.

“il manifesto”, 10 dicembre 2006

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