Una polemica
storiografica è in corso contro l'uso corrente del termine
“feudalesimo” e contro il valore negativo attribuito a questa
parola. Ne è esempio l'articolo che segue, di Giuseppe Sergi, il cui
titolo originario non ha punto interrogativo e che – grosso modo –
distingue tra il feudalesimo “vero” dell'età carolingia e le
successive declinazioni, ove la delega formale di re, papi, principi
e comuni, sempre più nasconde una signoria territoriale il cui
detentore non è in realtà vassallo di nessuno. L'autore sembra
preferire il modello originario in cui il sovrano distribuiva – a
suo dire – ricchezza e non autorità pubblica. E tuttavia questa
idea di un capo che “compra” la fedeltà dei propri vassalli,
concentrando in sé tutto il potere politico a me non garba punto; mi
ricorda il tipo di leaderismo che vige attualmente in Italia, dove
tanti parlamentari, scelti per la loro cieca obbedienza al capo, non
hanno alcuna dignità e alcun peso nelle decisioni, ma in compenso
“ricavano cospicui introiti che 'stipendiano' il loro servizio
armato”. (S.L.L.)
Carlo Magno |
Come si definisce un
ambito di potere arbitrario e senza limiti su poveri sudditi che non
hanno nessuno a cui chiedere giustizia? Feudo. Ma feudo si dice anche
di una zona in cui un orientamento vasto e diffuso si manifesta con
particolare compattezza: la Romagna «feudo juventino» o la Rai
degli anni Cinquanta «feudo democristiano». Come si definisce un
signore locale avvezzo a ogni tipo di abuso? Feudatario. Ma
feudatario si dice anche di un fedele che deve la sua influenza a
qualcuno che gliel'ha delegata dall’alto. Ciò che nel linguaggio
corrente accomuna questi elementi contraddittori è la negatività.
Uno storico di meta
Novecento, Robert Boutruche, osservava che anche il «linguaggio
dotto» è «incline a definire con questa parola ogni cedimento
dell’autorità pubblica» sottolineando come sia sempre spontaneo
collegare l’idea di feudalesimo a «spezzettamento dell’autorità,
torbidi interni, scatenamento degli interessi privati... azione
brutale e forza oppressiva». E un medievista notissimo, Georges
Duby, affermava che «l’uso del contratto vassallatico e del feudo
non fu mai altro che una copertura superficiale delle strutture vive
dei rapporti sociali». Entrambi gli storici erano ispirati dal loro
maestro Marc Bloch, la cui influenza sulla cultura comune è ancora
oggi molto inferiore alla sua fama.
La nozione tutta negativa
di feudalesimo è in gran parte dovuta all’equazione feudalesimo
uguale Medioevo, suggerita su «la Lettura» del 4 giugno da Amedeo
Feniello, nella sua proposta di abolire la «costruzione ideologica»
del Medioevo come «orrido buco nero su cui pesano disprezzo e
condanna». Ma c’è altro. Ci sono anche idee confuse sullo
specifico feudale: la parola feudalesimo, con il suo fortunato
esotismo terminologico, ha vinto sulla sostanza. La sostanza non è
certo da esaltare, ma non merita di essere perennemente evocata come
contenitore di ogni male.
A godere di buona stampa
è l’impero di Carlo Magno, con un governo di ispirazione statale e
funzionari regionali (i conti) che lo rappresentavano. Eppure in
quella parvenza di ordine (l’ordine è sempre giudicato
positivamente) il feudalesimo c’era: molti vassalli del re non
erano conti, erano più numerosi dei funzionari, avevano compiti
militari compensati da benefici in terre (feudi, appunto), terre su
cui i vassalli non avevano potere ma da cui ricavavano introiti che
«stipendiavano» il loro servizio armato.
Due reti di controllo
della società si intrecciavano e si integravano: al modello statale
romano si ispirava la rete funzionariale; al modello seminomadico
delle tribù barbariche si ispirava la rete vassallatica. L’incontro
fra i due modelli assicurava nuova efficienza. Prima un capo tribale
sapeva su chi comandava, non entro quali confini: l’idea di potere
era personale, non territorializzata, dato che gli insediamenti erano
labili e provvisori. La stanzialità si era affermata da oltre due
secoli: ma perché i Franchi (un popolo-esercito tenuto insieme da
rapporti personali) fossero adeguati a una ambiziosa costruzione
statale, i rapporti di fedeltà personale dovevano aiutare i
funzionamenti complessivi.
Si è detto che molti
vassalli non erano conti, aggiungiamo che non erano neppure ufficiali
minori. Inoltre vari personaggi ricchi e potenti (laici, ma anche
vescovi e abati) avevano loro clientele vassallatiche. Questi altri
potenti (seniores), che concedevano feudi, nella maggior parte
dei casi non erano vassalli del re: ecco perché è da cancellare
l'immagine scolastica della «piramide feudale». Altra osservazione
su cui insistere: i vassalli non comandavano sulle loro pur
redditizie terre feudali. Quindi i rapporti vassallatico-beneficiari
creavano legami di solidarietà e parentele artificiali, non
costruivano gerarchie politiche e soprattutto non distribuivano
potere: è questo il feudalesimo delle origini, ben diverso dalle
maldicenze da cui siamo partiti.
La fine dell’età
carolingia ingigantisce poi gli equivoci. Gli storici di un passato
lontano (e la cultura corrente ancora oggi), osservando intorno
all’anno Mille i poteri locali, piccoli e privati, ne hanno trovato
un responsabile: il feudo. Se un signore e la sua famiglia
esercitavano potere incondizionato intorno al loro castello doveva
esserci una sola spiegazione: avevano ricevuto castello e potere in
beneflcio, dal re o da un grande vassallo del re, che aveva perso sia
il monopolio politico sia il controllo dei suoi fedeli. Non è stato
così. L’ereditarietà dei feudi, avviata da una legge dell’877 e
sancita da un’altra del 1037, è ereditarietà di ricchezza, non di
potere.
Se le campagne europee
dei secoli X-XIII sono frazionate in un mosaico a tessere minute, i
protagonisti non sono feudatari, ma altri: signori territoriali che,
con la loro spontanea intraprendenza, si erano arricchiti di terre,
le avevano fortificate o si erano impadroniti di castelli pubblici,
si erano muniti di masnade. Questi signori (dòmini, nelle fonti del
tempo) avevano sudditi con ben pochi strumenti per contestare le
tasse che dovevano pagare, le prestazioni a cui erano tenuti, i
tribunali signorili a cui erano convocati. Inoltre i sudditi non
erano soltanto i coltivatori delle frazionate terre del signore, ma
tutti gli abitanti di una compatta area egemonica, quindi anche
piccoli possessori: la ricchezza fondiaria agevolava il potenziamento
signorile, ma possesso e potere non coincidevano, il dominus
non era un latifondista che aveva anche autorità politica sui suoi
contadini. Quest’ultima è invece l’idea normale che si ha del
potente medievale, per di più definito «feudatario», con
l'aggiunta di errore ad altro errore.
Il cambiamento, anche se
soprattutto di facciata, avvenne fra i secoli XII e XIII. I re in
Francia, i prìncipi territoriali in Germania, i Comuni in Italia
avviarono processi di ricomposizione politica, ma sul piano concreto
potevano alterare poco il frazionamento. Si sviluppò l’attività
dei
giuristi (in quel periodo
diedero sistematicità alla raccolta definita Libri feudorum),
che considerava legittima solo la trasmissione feudale del potere,
quella che nel cuore dell’Europa fino a quel momento non c’era
stata e si era realizzata solo nei regni normanni d’Inghilterra e
del Mezzogiorno italiano e nei principati franco-latini d’Oriente
nati dalle Crociate.
Le autonomie (anzi le
vere e proprie indipendenze) dei signori cambiarono di poco, ma —
poiché le comunità contadine erano divenute più consapevoli e si
ribellavano — cominciarono a essere considerate anomale. Non se ne
mutarono i funzionamenti interni, ma si ritenne ammissibile la loro
esistenza solo se i poteri risultavano delegati dall’alto: nuovi
feudi, dunque, ma questa volta con contenuti di governo (feudi
«nobili» o «di signoria»). Per costruire una parvenza di
ordinamento coerente, i giuristi suggerivano a re, prìncipi e Comuni
di accontentarsi di riconoscimenti formali. Questi seniores
dotati di carisma pubblico ricevevano in dono da signori locali
possessi privati e subito ne reinvestivano feudalmente gli stessi
nuovi vassalli, arricchendoli di autorità: i dòmini (adesso, sì,
feudatari), ormai sicuri dell’ereditarietà del feudo, erano
legittimati dall’investitura. È una procedura razionalizzante,
nota come fief de reprise o feudo «oblato».
Uno dei monumenti
iniziali di tale feudalizzazione formale e tardiva fu l'accordo
raggiunto fra l’imperatore Federico Barbarossa e i Comuni della
Lega Lombarda, sul finire del secolo XII: i Comuni mantennero la
riscossione consuetudinaria delle imposte, ma a patto di riconoscersi
vassalli collettivi dell’imperatore. Il Trecento e il Quattrocento
appaiono integralmente feudalizzati a posteriori, dopo il generale
frazionamento signorile dei secoli precedenti. Ma si può capire
l’abitudine a immaginare gran parte del Medioevo come simile alla
sua parte finale. E una deformazione prospettica tipica della
conoscenza umana nei rapporti con la storia: si vede meglio la realtà
più recente, e si interpreta il «prima» alla luce dei suoi esiti.
La formazione dei poteri medievali non era stata feudale, ma l’età
moderna aveva ereditato una cornice feudale.
La lettura – Corriere
della sera, 23 luglio 2017
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