15.2.18

Tre storie operaie raccontate da Italo Calvino. Quando lavorava all'Unità...

I primi rapporti sistematici con la carta stampala Italo Calvino li ha avuti a Torino, lavorando alla terza pagina della edizione piemontese dell' “Unità”. Prima di lui alla "terza» aveva lavorato Raf Vallone che lasciò “l'Unità” per una singolare opportunità che decise molto del suo futuro. Calvino ricordò la circostanza in una conversazione del 1984, con un redattore dell'edizione piemontese che raccoglieva materiali e testimonianze per la storia del giornale: «Il regista Giuseppe De Santis tenne a Torino. Cercava attori per il suo film “Riso amaro” che girò poi nelle cascine di Gualino nel Vercellese. Gli mancava un attore. "Perché non potresti farlo tu?" chiese a Raf Vallone. E lui andò, io ero già da Einaudi dove mi aveva portato Cesare Pavese. Collaboravo però assiduamente al giornale e anche all'Unità di Genova (allora le edizioni del quotidiano del Pei erano quattro, Roma. Milano, Torino, Genova) e a quella di Milano dove lavorava Giansiro Ferrata».
All' “Unità” piemontese Calvino era arrivato nel 1948. «Ero venuto per le elezioni del 18 aprile a dare una mano a Vallone. Lui mi insegnò un po’ il mestiere e io restai. A quell’epoca entrò in redazione anche Paolo Spriano che si era avvicinato al Pci dopo lo scioglimento del Partito d'Azione avvenuto nell’ottobre del 1947». Calvino tiene una rubrica, chiamata Gente nel tempo e su quella terza pagina esce anche il racconto Ultimo venne il corvo, nato da un ricordo di vita partigiana.
L'attentato a Togliatti del luglio 1948 segue di tre mesi la sconfitta elettorale del 18 aprile. Uno sciopero generale di protesta non fa uscire i giornali, il Pci stampa un numero straordinario di un suo periodico, «Coscienza di classe», per dare un indirizzo e vie d'uscita al forte moto popolare che ha bloccato le fabbriche torinesi anche con episodi preoccupanti, Calvino scrisse su quel foglio che raggiunse subito i luoghi di lavoro. Poi anche lui, come altri che lavoravano all'Unita, andò alle assemblee operaie per discutere le indicazioni e riferire la raccomandazione di Togliatti ferito ai compagni: «Non perdete la testa».
La collaborazione alla terza pagina dell’ edizione piemontese dell'«Unità», durò fino al 1953 e oltre. Il pezzo qui ripreso apparve sull'Unità del 3 marzo 1951 e fu ripubblicato nel 1985, in occasione della morte dello scrittore. Si tratta di un servizio che mette insieme tre storie di operai delle officine Fiat. (S.L.L.)

Dal nostro inviato in fabbrica
Alle Acciaierie delle Ferriere. Gli «scriccatori» hanno un lavoro duro. Tutto il giorno col pesante martello pneumatico tra le braccia, che sussulta, che vibra, che tiene braccia e petto in un continuo «ballo di San Vito», con le gambe piantate salde per trattenere i balzi dello strumento? e piegate sui ginocchi perché la punta d'acciaio morda nei lingotti che scorrono bassi sulla linea. La «scriccatura» è l’eliminazione delle «cricche» ossia dei difetti di fusione delle «billette» o lingotti. Dove la «billetta» presenta un nodo, una bolla, un’escrescenza, là si fa vorticare l'urlante, divoratrice punta del martello: intanto la teoria dei lingotti scorre impassibile sulla linea. Gli «scriccatori», abituati a quel lavoro insieme di forza e di precisione, sono tipi ostinati e pignoli, amano le cose nette come i lingotti senza scorie.
Un giorno vengono in reparto i cronometristi. Brutto segno — pensano gli operai —, quando cominciano a prendere i tempi bisogna aspettarsi sempre il peggio. Dicono ci sia stata una modifica alla linea: le operazioni dovrebbero esser facilitate e i 450 chili all'ora di materiale prodotto dovrebbero esser superati. I cronometristi sono qui per fare i nuovi calcoli.
Gli «scriccatori» lavorano, guardinghi. Tra le «billette», si sa, ci sono quelle con difetti e quelle senza, che passano via tranquille, senz'esser sottoposte al martello pneumatico. Quel mattino, va a sapere, erano tutte «billette» lisce come petali di rosa. La produzione filava via d'incanto.
Una voce corse pel reparto: «Attenti! Qui c’è un trucco! Hanno messo in linea una scorta di lingotti buoni! Vogliono fregarci!».
Difatti, dal calcolo dei cronometristi, la produzione oraria andava portata a 900 chili all’ora: raddoppiata, nientemeno. E di lì a poco, scomparsi i cronometristi, sulla linea ricominciarono a scorrere lingotti con «cricche» grosse come teste di neonato. Come facevano a corrergli dietro coi martelli, a quel ritmo? Era un inferno. Il reparto scese in sciopero.
Non fu sciopero da poco. Quel che è calcolato coi cronometri è legge, dice la Direzione. Ma intanto i martelli neumatici stavano fermi, tetterò fermi diciannove giorni. Finché non l’ebbero vinta. Si rifecero i conti senza trucchi sfacciati, i lingotti ripresero a passare sulla linea a un ritmo normale, e i martelli pneumatici a cantare, liberatori d’ogni impurità.

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Alla Grandi Motori poco tempo fa morì un operaio. Era stato un uomo sfortunato. Già era cieco d’un occhio per una disgrazia sul lavoro. Era addetto al caricamento degli elevatori della fonderia: riempiva di creta i carrelli che salgono su per la catena.
La fonderia era un'officina nuova, inaugurata da due mesi. Agli operai era stato tolto il cottimo della vecchia fonderia e non era ancora stato stabilito quello nuovo; venivano pagati sulla media aziendale.
Il caposquadra era un negriero. Apparteneva a quella triste genia che un posto di comando trasforma in aguzzini, e che sono per natura destinati a fare da strumento ai poteri dispotici. Urlava, sopra lo sferragliare delle macchine, insultava, inveiva.
Frastornato da quegli urli, l'operaio cieco da un occhio sgobbava a caricare di terra rossa i carrelli. Ma nell’elevatore, la terra ogni tanto cadendo dai carrelli finisce tra i denti della catena e la fa scivolare. Allora erano nuovi insulti del capo. L’operaio orbo, per prevenire una di queste fermate, volle pulire la cinghia mentre la macchina era in moto, e si ficcò in uno stretto vano sotto la macchina. Forse fu il ferro con cui voleva spinger via la creta che restò impigliato nella cinghia e lui cercò di riprenderlo a ogni costo per non fermare la macchina, e fu trascinato dentro; forse per l'occhio cieco non riuscì a calcolare bene i suoi movimenti in quello stretto spazio: sta di fatto che la cinghia lo prese sotto e lo uccise.
Gli operai si fermarono, quel giorno. C’era un’atmosfera di spavento. L'indomani ripresero il lavoro abbattuti, a nervi tesi. Il capo sentiva che quel giorno non andava, che non riusciva a affermare la sua autorità, e, apprensivo di natura come sono di solito quei tipi, già temeva d’averla persa per sempre. Perciò non vedeva l’ora di forzare la mano, di riprendere le redini: al primo appiglio che ebbe, si lanciò a gridare contro un operaio, lo insultò. Si fermò tutta l'officina.
Non fu un arresto momentaneo. Continuò in un lungo sciopero. La Direzione fu costretta a riconoscere la ragione degli operai, chiese loro un rapporto dettagliato sulle prepotenze del caposquadra, accettò di trattare sui cottimi, di fissare le paghe di posto. Sarebbe una storia a lieto fine, questa, se ogni volta che guardano alle tazze dell’elevatore, agli operai non venisse da piangere.

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La terza storia che voglio raccontare è un episodio individuale. Un vecchio operaio della Mirafiori sta per compiere i trent’anni d'anzianità Fiat: potrà ritirarsi non solo con l'irrisoria pensione della Previdenza Sociale, ma anche con le quindicimila al mese del «premio di fedeltà». L'indomani c’è sciopero generale. Il suo caposquadra lo prende da parte, gli dice: «Guarda, se vuoi un consiglio, domani vieni a lavorare. Ormai, a te che te ne importa? Tra poco vai in pensione. Se scioperi, ti licenziano adesso e perdi il premio di fedeltà...». Il vecchio ci pensa su, la notte si rigira nel letto. È uno che non s'è mai tirato indietro, uno che sa che tutto quello che gli operai hanno — anche quello che pare concessione ei padroni — ce lo si è guadagnati lottando. Certo, oggi, ormai... alla vigilia d'andare in pensione... giocarsi così quell'unico sostentamento per gli ultimi suoi anni...
Indeciso, il mattino s’awia alla Mirafiori, con la borsa in mano, come sempre. Si ferma a guardare sul piazzale. Incontra i suoi compagni di reparto. «Parin, dove vai? Non sai che c’è lo sciopero?».
«Ma — dice il vecchio — il mio è un caso speciale, sentite un po’...».
Ma gli operai non gli danno retta, hanno altro da pensare, e continuano nelle loro discussioni sullo sciopero.
Il vecchio sta alle loro calcagna, ascolta, ogni tanto cerca di richiamare l’attenzione di qualcuno: «Ma nel mio caso, sapeste...».
Alla fine, dopo un’ultima occhiata alla fabbrica, grida: «Oh, diavolo! Per quei quattro soldi! In trent'anni non mi son mai venduto, mi devo vendere adesso? Sciopero anch'io! Solo se si fa così lo sciopero riesce e non è licenziato nessuno!».
E così è andata, difatti.


L'Unità, 20 settembre 1985

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