I primi rapporti
sistematici con la carta stampala Italo Calvino li ha avuti a Torino,
lavorando alla terza pagina della edizione piemontese dell' “Unità”.
Prima di lui alla "terza» aveva lavorato Raf Vallone che
lasciò “l'Unità” per una singolare opportunità che decise
molto del suo futuro. Calvino ricordò la circostanza in una
conversazione del 1984, con un redattore dell'edizione piemontese che
raccoglieva materiali e testimonianze per la storia del giornale: «Il
regista Giuseppe De Santis tenne a Torino. Cercava attori per il suo
film “Riso amaro” che girò poi nelle cascine di Gualino nel
Vercellese. Gli mancava un attore. "Perché non potresti farlo
tu?" chiese a Raf Vallone. E lui andò, io ero già da Einaudi
dove mi aveva portato Cesare Pavese. Collaboravo però assiduamente
al giornale e anche all'Unità di Genova (allora le edizioni del
quotidiano del Pei erano quattro, Roma. Milano, Torino, Genova) e a
quella di Milano dove lavorava Giansiro Ferrata».
All' “Unità”
piemontese Calvino era arrivato nel 1948. «Ero venuto per le
elezioni del 18 aprile a dare una mano a Vallone. Lui mi insegnò un
po’ il mestiere e io restai. A quell’epoca entrò in redazione
anche Paolo Spriano che si era avvicinato al Pci dopo lo scioglimento
del Partito d'Azione avvenuto nell’ottobre del 1947». Calvino
tiene una rubrica, chiamata Gente nel tempo e
su quella terza pagina esce anche il racconto Ultimo venne il
corvo, nato da un ricordo di vita partigiana.
L'attentato a Togliatti
del luglio 1948 segue di tre mesi la sconfitta elettorale del 18
aprile. Uno sciopero generale di protesta non fa uscire i giornali,
il Pci stampa un numero straordinario di un suo periodico, «Coscienza
di classe», per dare un indirizzo e vie d'uscita al forte moto
popolare che ha bloccato le fabbriche torinesi anche con episodi
preoccupanti, Calvino scrisse su quel foglio che raggiunse subito i
luoghi di lavoro. Poi anche lui, come altri che lavoravano all'Unita,
andò alle assemblee operaie per discutere le indicazioni e riferire
la raccomandazione di Togliatti ferito ai compagni: «Non perdete la
testa».
La collaborazione alla
terza pagina dell’ edizione piemontese dell'«Unità», durò fino
al 1953 e oltre. Il pezzo qui ripreso apparve sull'Unità del 3 marzo
1951 e fu ripubblicato nel 1985, in occasione della morte dello
scrittore. Si tratta di un servizio che mette insieme tre storie di
operai delle officine Fiat. (S.L.L.)
Dal nostro inviato in
fabbrica
Alle Acciaierie delle
Ferriere. Gli «scriccatori» hanno un lavoro duro. Tutto il giorno
col pesante martello pneumatico tra le braccia, che sussulta, che
vibra, che tiene braccia e petto in un continuo «ballo di San Vito»,
con le gambe piantate salde per trattenere i balzi dello strumento? e
piegate sui ginocchi perché la punta d'acciaio morda nei lingotti
che scorrono bassi sulla linea. La «scriccatura» è l’eliminazione
delle «cricche» ossia dei difetti di fusione delle «billette» o
lingotti. Dove la «billetta» presenta un nodo, una bolla,
un’escrescenza, là si fa vorticare l'urlante, divoratrice punta
del martello: intanto la teoria dei lingotti scorre impassibile sulla
linea. Gli «scriccatori», abituati a quel lavoro insieme di forza e
di precisione, sono tipi ostinati e pignoli, amano le cose nette come
i lingotti senza scorie.
Un giorno vengono in
reparto i cronometristi. Brutto segno — pensano gli operai —,
quando cominciano a prendere i tempi bisogna aspettarsi sempre il
peggio. Dicono ci sia stata una modifica alla linea: le operazioni
dovrebbero esser facilitate e i 450 chili all'ora di materiale
prodotto dovrebbero esser superati. I cronometristi sono qui per fare
i nuovi calcoli.
Gli «scriccatori»
lavorano, guardinghi. Tra le «billette», si sa, ci sono quelle con
difetti e quelle senza, che passano via tranquille, senz'esser
sottoposte al martello pneumatico. Quel mattino, va a sapere, erano
tutte «billette» lisce come petali di rosa. La produzione filava
via d'incanto.
Una voce corse pel
reparto: «Attenti! Qui c’è un trucco! Hanno messo in linea una
scorta di lingotti buoni! Vogliono fregarci!».
Difatti, dal calcolo dei
cronometristi, la produzione oraria andava portata a 900 chili
all’ora: raddoppiata, nientemeno. E di lì a poco, scomparsi i
cronometristi, sulla linea ricominciarono a scorrere lingotti con
«cricche» grosse come teste di neonato. Come facevano a corrergli
dietro coi martelli, a quel ritmo? Era un inferno. Il reparto scese
in sciopero.
Non fu sciopero da poco.
Quel che è calcolato coi cronometri è legge, dice la Direzione. Ma
intanto i martelli neumatici stavano fermi, tetterò fermi diciannove
giorni. Finché non l’ebbero vinta. Si rifecero i conti senza
trucchi sfacciati, i lingotti ripresero a passare sulla linea a un
ritmo normale, e i martelli pneumatici a cantare, liberatori d’ogni
impurità.
• ♦ •
Alla Grandi Motori poco
tempo fa morì un operaio. Era stato un uomo sfortunato. Già era
cieco d’un occhio per una disgrazia sul lavoro. Era addetto al
caricamento degli elevatori della fonderia: riempiva di creta i
carrelli che salgono su per la catena.
La fonderia era
un'officina nuova, inaugurata da due mesi. Agli operai era stato
tolto il cottimo della vecchia fonderia e non era ancora stato
stabilito quello nuovo; venivano pagati sulla media aziendale.
Il caposquadra era un
negriero. Apparteneva a quella triste genia che un posto di comando
trasforma in aguzzini, e che sono per natura destinati a fare da
strumento ai poteri dispotici. Urlava, sopra lo sferragliare delle
macchine, insultava, inveiva.
Frastornato da quegli
urli, l'operaio cieco da un occhio sgobbava a caricare di terra rossa
i carrelli. Ma nell’elevatore, la terra ogni tanto cadendo dai
carrelli finisce tra i denti della catena e la fa scivolare. Allora
erano nuovi insulti del capo. L’operaio orbo, per prevenire una di
queste fermate, volle pulire la cinghia mentre la macchina era in
moto, e si ficcò in uno stretto vano sotto la macchina. Forse fu il
ferro con cui voleva spinger via la creta che restò impigliato nella
cinghia e lui cercò di riprenderlo a ogni costo per non fermare la
macchina, e fu trascinato dentro; forse per l'occhio cieco non riuscì
a calcolare bene i suoi movimenti in quello stretto spazio: sta di
fatto che la cinghia lo prese sotto e lo uccise.
Gli operai si fermarono,
quel giorno. C’era un’atmosfera di spavento. L'indomani ripresero
il lavoro abbattuti, a nervi tesi. Il capo sentiva che quel giorno
non andava, che non riusciva a affermare la sua autorità, e,
apprensivo di natura come sono di solito quei tipi, già temeva
d’averla persa per sempre. Perciò non vedeva l’ora di forzare la
mano, di riprendere le redini: al primo appiglio che ebbe, si lanciò
a gridare contro un operaio, lo insultò. Si fermò tutta l'officina.
Non fu un arresto
momentaneo. Continuò in un lungo sciopero. La Direzione fu costretta
a riconoscere la ragione degli operai, chiese loro un rapporto
dettagliato sulle prepotenze del caposquadra, accettò di trattare
sui cottimi, di fissare le paghe di posto. Sarebbe una storia a lieto
fine, questa, se ogni volta che guardano alle tazze dell’elevatore,
agli operai non venisse da piangere.
• ♦ •
La terza storia che
voglio raccontare è un episodio individuale. Un vecchio operaio
della Mirafiori sta per compiere i trent’anni d'anzianità Fiat:
potrà ritirarsi non solo con l'irrisoria pensione della Previdenza
Sociale, ma anche con le quindicimila al mese del «premio di
fedeltà». L'indomani c’è sciopero generale. Il suo caposquadra
lo prende da parte, gli dice: «Guarda, se vuoi un consiglio, domani
vieni a lavorare. Ormai, a te che te ne importa? Tra poco vai in
pensione. Se scioperi, ti licenziano adesso e perdi il premio di
fedeltà...». Il vecchio ci pensa su, la notte si rigira nel letto.
È uno che non s'è mai tirato indietro, uno che sa che tutto quello
che gli operai hanno — anche quello che pare concessione ei padroni
— ce lo si è guadagnati lottando. Certo, oggi, ormai... alla
vigilia d'andare in pensione... giocarsi così quell'unico
sostentamento per gli ultimi suoi anni...
Indeciso, il mattino
s’awia alla Mirafiori, con la borsa in mano, come sempre. Si ferma
a guardare sul piazzale. Incontra i suoi compagni di reparto. «Parin,
dove vai? Non sai che c’è lo sciopero?».
«Ma — dice il vecchio
— il mio è un caso speciale, sentite un po’...».
Ma gli operai non gli
danno retta, hanno altro da pensare, e continuano nelle loro
discussioni sullo sciopero.
Il vecchio sta alle loro
calcagna, ascolta, ogni tanto cerca di richiamare l’attenzione di
qualcuno: «Ma nel mio caso, sapeste...».
Alla fine, dopo un’ultima
occhiata alla fabbrica, grida: «Oh, diavolo! Per quei quattro soldi!
In trent'anni non mi son mai venduto, mi devo vendere adesso?
Sciopero anch'io! Solo se si fa così lo sciopero riesce e non è
licenziato nessuno!».
E così è andata,
difatti.
L'Unità, 20 settembre
1985
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