Crescenzio Cane nel 2006 |
Quando Leonardo Sciascia
entra nella sua casa e viene investito da quell'abbaglio di colori
gli dice d'istinto: «I tuoi problemi economici sono finiti. Basta
vendere le tele per vivere decorosamente. Ti aiuterò organizzandoti
la prima mostra». Le pareti erano "stipate" di quadri dai
colori vivacissimi e dal segno infantile: galli, cavalli, pesci e
farfalle; volti, alberi, lampioni e ingranaggi. E due "tormentoni"
ovunque presenti: il cane, ora moscio ora ringhiante, e il sole
prismatico, una sorta di totem alla solarità isolana. Autentica arte
popolare quella del pittore-poeta-scrittore Crescenzio Cane. Anzi
proletaria. Sciascia da quell'impasto di vernici, che l'artista usa
per risparmiare, fiuta il talento. Ed è subito mostra.
«Era il dicembre del
1972 - ricorda Cane, che oggi ha giusto 72 anni - Le sessanta tele
vennero esposte ad "Arte al Borgo". Fu un successo
strepitoso. Tutte vendute. Quando mi vidi nelle mani i tre milioni e
mezzo di allora che mi diedero gli organizzatori mi sembrò
incredibile. E chi mai li aveva visti tutti quei soldi in una volta?
La mia vita era stata tribolata. Fame, fame e sempre fame. Figlio di
famiglia numerosa, eravamo sette fratelli, e padre di nutrita prole,
raramente ero riuscito a mettere insieme pranzo e cena. Ma quello fu
un bel Natale».
Prima di raccontare le
peripezie di Crescenzio va detto che Sciascia nel presentare il
catalogo della mostra gli rende quello che tanti gli avevano tolto:
la paternità della parola "sicilitudine". «Crescenzio
Cane - scrive l' autore di A ciascuno il suo - è l' inventore
della parola sicilitudine
che lettori distratti e critici peggio che distratti ingiustamente e
ingiustificatamente ritengono mia. Una invenzione non casuale, ma che
viene da tutto un discorso e lo muove: serrato, rabbioso,
disarginato». «Sicilitudine - precisa Cane - è una
condizione dello spirito. Nel mio saggio del 1959 in cui la definivo
descrivevo che scaturiva dalla paura e dalla solitudine che ti
assaliva a vivere in Sicilia, terra di illusioni e delusioni, di
slanci e di tirannidi: il fascismo prima, la mafia dopo».
Cane nasce nel quartiere
Zisa, in via Whitaker. L'infanzia a scorribandare per le strade, ma
attento a non soffermarsi davanti al Castello per via dei 15 diavoli
impossibili da contare nonostante siano imprigionati in un affresco.
Poi le tribolazioni della guerra. Ai morsi della fame si aggiungono
quelli del fascismo. Gli abitanti della sua strada, tra cui il nonno
del pittore, vengono portati in caserma perché osano ironizzare
sulla targhetta che cambia il nome della via: da Whitaker a via
Albania. «Quando sento parlare di fascismo mi sale il sangue alla
testa. Ho visto bastonare gente dignitosa perché non voleva mettersi
la camicia nera o perché non partecipava alle adunate. Io stesso
sono finito in camera di sicurezza a dieci anni, colpevole di avere
giocato all' alzabandiera con un fazzoletto rosso e azzurro fiorato.
Fascismo per me resta sinonimo di violenza, miseria e prepotenza sui
più deboli». Sugli anni della sua infanzia alla Zisa lo
scrittore-poeta-pittore ha recentemente pubblicato La strada di
casa (edizioni Grifo 96 pagine, 10 euro); otto racconti che fanno
assaporare le atmosfere di quegli anni terribili e affamati.
«Mio padre era
macchinista del "Rex" il mitico transatlantico. Quando,
dopo la dichiarazione della guerra, il Rex da New York rientrò a
Trieste per essere posto in disarmo, mio padre restò senza lavoro. E
per noi cominciarono gli anni bui. Che cosa poteva fare a Palermo un
macchinista e per di più in periodo bellico? L'unico lavoro
saltuario che trovò fu quello di spalare le macerie dei
bombardamenti».
La famiglia Cane era
marinara per tradizione; il nonno era imbarcato sui piroscafi della
flotta Florio, che allora aveva 99 natanti. «Cento no, perché la
legge glielo vietava. Mio nonno mi raccontava che il vecchio Vincenzo
Florio aveva fatto costruire un piroscafo tutto d'oro di un paio di
metri e così poteva vantarsi di averne cento, in barba alle
restrizioni del governo. Anche io sono stato sempre un marinaio nel
cuore. Purtroppo non ho potuto mai navigare. Il mio destino si è
consumato sulla terraferma. E sempre con una divisa addosso, perché
l'unica possibilità di mangiare allora mi era offerta
dall'arruolamento: militare prima, poliziotto dopo e vigile urbano
alla fine». Di questo parleremo dopo. Ora ritorniamo alla guerra. La
famiglia, come tante a Palermo sfolla a Borgo Molara, sotto Monreale.
Il padre fa su e giù a piedi da Palermo per spalare macerie
rischiando la vita sotto le bombe. L'arrivo al Borgo è particolare.
Con il nonno marinaro che s'intestardisce a portarsi dietro la bara
che si era comprato a un prezzo d' occasione. Per le prime settimane
nessuno si avvicina alla loro casa. E chi lo fa tocca ferro e altro.
«Quella cassa da morto per un ironico percorso del destino fu la
nostra salvezza. Un giorno arrivò una jeep americana. Avevano saputo
che avevamo una bella bara in casa e la volevano venduta per
riportare negli Usa un ufficiale morto. In cambio ci diedero un
camion pieno di cibarie. Al Borgo fu festa grande, mio nonno diventò
l'eroe e tutti smisero di toccarsi».
La guerra è fame
(«mangiavamo di tutto, tutto quello che riuscivamo a racimolare nei
campi»), è paura, ogni tanto è gioco tragico. Così Crescenzio e i
suoi amichetti vanno a vedere da vicino i potenti fari dell'antiaerea
tedesca, in un campo allestito in contrada "Olio di Lino",
che illuminano il cielo a giorno. «Mentre eravamo acquattati a
guardare con gli occhi sbarrati lo spettacolo della notte che
diventava giorno, un terribile bombardamento. Le schegge di un aereo
Usa abbattuto ci erano piovute addosso. Quando finisce l'inferno mi
accorgo che l'uomo accanto a me è morto. Una scheggia lo aveva
colpito al cuore. Sono corso via come un puledro. Ogni tanto ancora
oggi ci penso e mi viene il soprassalto».
Finisce la guerra e resta
la miseria. «Nella nostra casa non c' erano più nemmeno i chiodi.
Avevamo venduto tutto per sopravvivere. Per forza non c' erano ladri
durante il fascismo. Cosa si poteva mai rubare nelle case spoglie?
C'è un proverbio siciliano che dice: a uno nudo non puoi togliergli
niente, nemmeno la dignità, perché tutto ha già perduto. Eravamo
completamente nudi. L'ultimo oggetto, uno specchio, mio padre l'ha
venduto a guerra finita per comprarsi il biglietto per Genova dove
doveva ritornare a imbarcarsi». Sono anni difficili, di
ricostruzione, Crescenzio si guarda attorno e non vede sbocchi. Le
scuole le ha fatte saltuariamente. L'unica prospettiva che vede è la
divisa. Finisce così a Venezia, al battaglione San Marco, dove
diventa istruttore d'arme. Vive di malinconia e ricordi. Ha già
provato le vertigini dell'amore. Un amore contrastato per i facili
costumi della ragazza. Ricorda e scrive. Legge di tutto, come ogni
autodidatta, e annota.
Sono struggenti i suoi
versi sulla guerra: «Anche l'angelo custode bestemmiava l'assenza di
pane. Non si cantava più nella via, specie a casa mia, e mia madre
ci guardava e piangeva disperata». Siamo agli albori degli anni
Sessanta e il soldato diventa poliziotto a Torino. Il posto è più
sicuro. Comincia un' altra vita. Una brutta vita. Sono gli anni di
Scelba, la polizia picchia duro gli operai che scioperano. «E nel
regno della Fiat ogni giorno erano botte. Ma io stavo male. Mi
chiedevo perché dovevo manganellare poveri padri di famiglia che
chiedevano solo i loro diritti. Avevo la divisa ma mi sentivo
dall'altra parte. Non potevo parlare con nessuno di questo travaglio
che mi tormentava e allora la sera mi sfogavo scrivendo le mie
emozioni e le mie rabbie».
Nasce tra una carica e
l'altra lo scrittore. A Palermo conosce Maria, stavolta è la donna
giusta e la sposa nel 1958. Togliersi di dosso una divisa che sentiva
più pesante di un macigno e tornare a casa, al sole di Sicilia,
diventa il suo chiodo fisso. C'è un concorso per vigile urbano e non
si fa scappare l'occasione. Sempre divisa è, ma è più leggera.
Comincia la sua terza vita, che presto riempie di figli. Cinque
bocche da sfamare e si ritrova con i problemi di sempre. Non è più
fame nera, ma la cinghia è sempre stretta. Si ritrova così a
lottare per una casa, dopo che gli abusivi avevano occupato quella da
lui ottenuta legittimamente. La ottiene, infine, a Borgo Nuovo, un
deserto desolato. «Mancava tutto, acqua, luce, fogne. Avevamo solo
la dignità e una forza bestiale». Blocchi e proteste e finisce due
volte davanti al giudice. Denunce che pesano. Diventa comunista.
E lo è ancora, con tanta
nostalgia dei tempi quando i dirigenti erano in prima linea. «Da
anni i leader della sinistra sono spariti dai quartieri popolari. E
poi si chiedono perché Berlusconi fa man bassa». Da anni fa spola
con Firenze dove vive uno dei suoi figli, chef di successo. Fa figli,
scrive, pubblica (il primo libro è La radice del Sud) e
dipinge i colori della sua Sicilia («Con i quadri ho tirato avanti
la famiglia»). Ma resta sempre ai margini. Va in giro con
l'Antigruppo, artisti d'avanguardia, per i paesi a fare happening di
poesia e pittura («Ma era una buffonata»). Litiga con i palermitani
del "Gruppo 63"(«Sono stati sempre razzisti nei miei
confronti. Nanni Balestrini, invece, mi ha aiutato a pubblicare le
prime cose»). La casa da cui si vede tutto Borgo Nuovo e la collina
di fronte è piena di quadri. I suoi («Non posso permettermi di
acquistare quelli degli altri»). Al centro del salone un acquerello
di Cesare Zavattini. «Me lo ha regalato, un signore». Mentre legge
la dedica del maestro («Non so se c'è un po' di padanitudine, come
nei tuoi c'è la sicilitudine») si commuove.
“la Repubblica” ed.
siciliana, 4 agosto 2002
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