Djiana Pavlovic |
«Quando la pezza è
peggio del buco». Dopo avere annunciato un censimento sui rom in
Italia, «una ricognizione per vedere chi, come e quanti», il
ministro dell’Interno Matteo Salvini, attaccato dall’opposizione,
ma anche da parti della maggioranza e da associazioni, ha deciso di
spiegare meglio che cosa intendesse dire. «Intendiamo tutelare prima
di tutto migliaia di bambini ai quali non è permesso frequentare la
scuola regolarmente perché si preferisce introdurli alla
delinquenza». Un’affermazione che ha indispettito Dijana Pavlović,
attrice, mediatrice culturale e attivista per i diritti umani, di
origine rom.
«Quelle parole mi hanno
fatto pensare alla psicologa tedesca Eva Justin, collaboratrice di
Robert Ritter, il teorico della razza che, nel regime nazista,
diresse il Centro di ricerca per l’Igiene e la Razza. Anche lei si
preoccupava per i nostri bambini. Ne tolse 39 dalle loro famiglie e
li collocò in orfanotrofi. Passò un anno con loro per capire se
fossero “educabili”, e alla fine concluse che non lo erano, che
il terribile gene zingaro dell’istinto errante prevaleva, e fece la
cosa più semplice: li mandò ad Auschwitz, dove solo due
sopravvissero», spiega. «Io a Salvini vorrei dire di occuparsi dei
suoi figli. Il mio è orgoglioso delle sue origini, sensibile ai
problemi del prossimo, piange quando sente che i bambini muoiono in
mezzo al mare, soffre se sa di qualcuno troppo povero per vivere una
vita dignitosa. Ma i bambini che crescono in un clima di odio no, non
potranno mai essere brave persone. Salvini si occupi di loro».
Salvini ha detto che a
«migliaia di bambini» non è permesso frequentare la scuola
regolarmente «perché si preferisce introdurli alla delinquenza».
«È la ruspa che
impedisce ai bimbi di andare a scuola. Quelli che a sei anni hanno
già subìto due o tre sgomberi, hanno visto umiliare i genitori,
distruggere quelle che sono le loro case, con le loro cose dentro,
non hanno la speranza di poter andare a scuola. Bisogna domandarsi
quale rapporto avranno con la polizia e con le istituzioni. Io sono
certa che molti di quelli che sfilano i portafogli dalle tasche lo
fanno solo per dispetto. Se a quei bambini venisse dato un posto dove
vivere e potersi lavare, avrebbero un’idea diversa del mondo che
abitano».
Che cosa ne pensa del
«censimento»?
«È illegale. Salvini
non può censire me, mio figlio, le altre 90 o 100 mila persone di
origine rom che vivono nelle case. Non può nemmeno dire che
“purtroppo ci deve tenere”. È un meccanismo infernale, il
prodotto di 15 anni di campagne d’odio terribile nei confronti di
130 mila persone, lo 0,03% della popolazione italiana, di cui la metà
sono bambini e di cui 80 mila sono cittadini italiani a tutti gli
effetti, alcuni presenti sul territorio dal 1500. In Italia ci sono 5
milioni di poveri e 20 milioni a rischio di povertà: se arriva
qualcuno che attribuisce la responsabilità di questa situazione a
immigrati o a zingari, è facile che questi diventino capri
espiatori».
Contro la criminalità
nei campi, che cosa si potrebbe fare?
«La criminalità è la
conseguenza diretta della ghettizzazione in baraccopoli. I campi non
sono stati inventati dagli zingari, ma dalle istituzioni italiane.
Non è questione di origini rom, ma di emarginazione, di generazioni
cresciute senza via di scampo: non ci si può sorprendere. E allora
si può scegliere la via della persecuzione, che, a meno che non
preveda l’eliminazione fisica, non migliora, ma peggiora la
situazione, oppure la via più civile, quella dell’inclusione
sociale, dell’intervento rispettoso. Tenendo conto che ci sono
stati 30 ani di discriminazioni e ghettizzazione, e che il problema
non può essere risolto dall’oggi al domani. Occorre dialogare con
i sinti e cercare soluzioni condivise».
Non sono i rom a voler
rimanere nei campi, quindi.
«Non c’è via
d’uscita: se sei riconoscibile come zingaro, nessuno ti affitta una
casa. Se sulla carta d’identità c’è l’indirizzo di un campo
nomadi sei spacciato: non puoi aspirare a un lavoro. Ma come si può
uscire dal ghetto, se non con un lavoro? Come ci si può fidare della
società? Per non parlare dei meccanismi psicologici che si scatenano
quando ci si sente continuamente rifiutati e ai margini».
Anche i rom che vivono
nelle case vengono discriminati?
«Sì: la figlia di una
mia carissima amica, avvocato, di origine rom, ha una bimba di 5 anni
che va alla Materna. La piccola ha un cognome rom riconoscibilissimo
e non vuole più andare a scuola perché i compagni non la vogliono
toccare: vanno a lavarsi le mani ogni volta che hanno un contatto con
lei. Pensare che è anche bionda e ha gli occhi azzurri. È a queste
cose che mi riferisco quando chiedo a Salvini di pensare ai suoi, di
figli».
E lei, dove è
cresciuta?
«Sono nata in
Iugoslavia, in un contesto davvero socialista, in cui nessuno poteva
darmi della “zingara” senza rischiare una denuncia. La mia era
una famiglia povera, ma con una grande voglia di riscatto e con un
fortissimo senso della dignità. I miei genitori, nati negli anni 50,
si sono creati una vita in un paese termale, molto chic. Hanno
affittato una casa, mia madre ha trovato lavoro in una fabbrica e mio
padre in un negozio di alimentari. Tenevano molto all’istruzione
mia e di mio fratello, volevano che diventassimo “qualcuno”, ci
hanno sempre vestito con cura. Volevano che avessimo quello che a
loro era stato precluso. A Belgrado ho frequentato l’accademia di
arte drammatica, poi, a 23 anni, sono venuta in Italia, continuando a
impegnarmi per la politica e i diritti sociali».
Da bambina non subiva
discriminazioni?
«Andavo bene a scuola,
ed ero sicura che le mie origini rom fossero qualcosa di cui andare
fiera. Fino a quando, alle elementari, una compagna, invidiosa perché
presi un voto superiore al suo, commentò: “Non importa, tanto
rimarrai sempre una zingara”. Quando tornai a casa, in lacrime, mia
madre mi disse: “Tu devi essere orgogliosa di essere zingara. La
tua compagna, invece, è una maleducata. Nella vita dovrai essere
sempre migliore degli altri: non ti ameranno mai, ma almeno ti
rispetteranno”. L’ho presa sul serio: ho passato vita cercando di
dimostrare di essere brava, di meritare un posto. Ce l’ho fatta in
vari modi, e non ho mai permesso che nessuno mi umiliasse. Sono
sempre stata abituata a difendere la mia dignità».
Oltre a
quell’episodio?
«L’offesa più grande,
per me, era vedere la gente meravigliata perché eravamo “Zingari,
ma così bravi e così puliti”».
Chi sono i rom?
«Una minoranza di 18
milioni di persone in Europa, che non ha mai avuto pretese
territoriali, non ha mai armato eserciti, ha sempre convissuto
pacificamente con i popoli europei. C’è qualche elemento della
tradizione comune per tutti, come la necessità di fare parte di una
famiglia allargata. Viviamo molto nel presente e non abbiamo la mania
e l’ossessione del possesso delle cose. Nelle nostre comunità una
persona è realizzata perché è saggia, perché dice cose
importanti, perché ha una grande famiglia e tanti nipoti, perché sa
preparare bene un matrimonio. Siamo un popolo senza frontiere, il
popolo che rappresenta simbolicamente quello che l’Europa vuole
essere: viviamo in tutti i Paesi, abbiamo tutte le religioni, e pur
mantenendo la nostra, il romanì, parliamo tutte le lingue europee».
VANITY FAIR, 19 giugno
2018
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