C'ero anch'io in facoltà per quella straordinaria lezione. Non c'ero, purtroppo, alla cena del Cassero, ove si mangiavano ottimi involtini. Il padrone si faceva chiamare "don Ciccio", come il più celebrato oste di Bagheria, e - non ricordo bene il perché (forse una lontana parentela) - faceva un prezzo speciale a noi studenti di Campobello di Licata. Ma quella sera, purtroppo, non c'ero. (S.L.L.)
Ricordo l’apparizione
di Eduardo nell’Aula Magna della Facoltà di Lettere, in
agitazione. Era forse la prima volta che Eduardo si lasciava
convincere a tenere una lezione in una facoltà. A convincerlo riuscì
Rognoni, sempre lui, che di Eduardo era amico ed estimatore. Quella
lezione dal titolo Perché il teatro di Eduardo? m’è
rimasta negli anni impressa per la lucidità intellettuale e la forte
tensione con cui Eduardo recitò una Ballata, un Moritat sul suo modo
di fare teatro, attraversato dal cruccio della necessità di
riscattarlo dalla facilità del comico.
Eduardo - così ci
raccontò - aveva esordito nel 1904, a quattro anni, al Teatro Valle,
nel teatro di Scarpetta, dinanzi a Vittorio Emanuele III, la regina
Elena e sei palchi - ricordo la sottolineatura ironica con gli occhi
del numero sei - di dignitari di corte. Era l’epoca in cui
Scarpetta per nove mesi l’anno riproponeva al pubblico, ancora
«entusiasticamente unitario», la napoletanizzazione della pochade
francese e vi inseriva la cristallizzazione del
piccolo-borghese-pulcinellesco: la maschera di Felice Sciosciammocca
e di cui Eduardo sottolineò la parentela con il Fefè di
Pi-randello. Ecco, questa operazione di Scarpetta - ci disse Eduardo
- che si era per forza scordato di Goldoni e del suo teatro borghese,
di Gallina e dello stesso Petito (e di cui Eduardo non a caso
riprenderà negli anni Cinquanta Palummella) segnò la prima e
grave distorsione del teatro italiano del Novecento, lo scotto che
Scarpetta doveva pagare per sopravvivere con il mestiere. Il teatro
doveva far ridere e Scarpetta-Sciosciammocca faceva ridere.
Ma lo scotto di
Scarpetta, ci disse Eduardo, è stato per anni anche il suo. Quando
nel ’28 mise su compagnia, capì che per trascinare il pubblico,
prendendolo per la cravatta, doveva coprire di comicità il fondo
tragico del suo modo di intendere il teatro. Tant’è - ci disse
Eduardo - che di Natale in casa Cupiello sia il pubblico che
la critica preferiva il finale delsecondo atto con l’arrivo dei
Magi e si seccava per il plumbeo finale del terzo. Agli italiani di
quegli anni il presepe piaceva, eccome! Così Eduardo continuerà a
pagare, soprattutto sotto il fascismo quando «quello del balconcino»
- ci disse - proclamò che a lui le compagnie dialettali non
piacevano. Bisogna aspettare la guerra, la sua drammaticità e la
miseria del dopoguerra perché la tragicità di Eduardo potesse
venire fuori senza più cautele. Eduardo si riferì soprattutto a Il
Sindaco di Rione Sanità. La dimensione epica allora conquistata
da Eduardo, commentò subito Rognoni, lo avvicina all’esperienza di
Brecht: i napoletani lumpen di Eduardo sono «straniati» per
trarne una lezione morale e dialettica sulla ricchezza e la miseria,
sui valori borghesi e sulla loro falsità, questa sì comica. Quella
sera del marzo 1969, dopo una recita al Biondo di Filumena Marturano,
a cena, al Cassaro, allora in una traversina di corso Vittorio
Emanuele, ci spiegò come i tempi della recitazione vadano sempre
costruiti e soprattutto rispettati. «È da trent’anni - ci disse,
rifacendola mentre tutto il ristorante si fermò per ascoltarlo - che
quella scena di Filumena quando poggio le mani sul tavolo e mi alzo
dalla sedia la faccio sempre uguale, con lo stesso tempo».
Imbrigliare il tempo, costruirne uno proprio per comunicare allo
spettatore il valore, il senso di un gesto, di una parola.
Swinging Palermo, Sellerio, 2015
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