1990 - Nelson Mandela con Winnie nel giorno della liberazione |
Il percorso seguito dallo
sbarco dei primi europei al Capo nel 1652 fino alla creazione del
Sudafrica dell'apartheid si ispirava a una matrice misticheggiante.
L'ideologia dell'Afrikanerdom è stata equiparata a una «religione
civile» (Leonard Thompson, Il mito politico dell'apartheid,
Sei, Torino 1989). Non per questo il volk e i suoi leaders persero di
vista le poste mondane: il potere, la terra, le risorse minerarie.
Fra i brani biblici più cari a Jan Van Rieebeck, il fondatore della
colonia per conto della Compagnia olandese delle Indie orientali,
c'era un versetto del Deuteronomio che recita: «Il popolo
eletto riceverà la sua terra dopo aver annientato i re che gli
impediscono il passaggio».
Dominique Lapierre
(L'arcobaleno nella notte, il Saggiatore, Milano 2008)
racconta come il 28 maggio 1867 due bambini di nome Erasmus e Louisa
trovarono per caso nella loro fattoria una pietruzza grigiastra. Si
stava avverando il messaggio del profeta Giosuè, il libro cult dei
boeri: «Cercate e cercate ancora e Dio finirà per premiare la
vostra ostinazione». La scoperta dei diamanti nella regione ai
confini fra il territorio griqua sotto protezione britannica e la
valle dell'Orange occupata dai boeri e di lì a poco dei giacimenti
d'oro là dove sorgerà Johannesburg segnò la fortuna e insieme la
disgrazia del «popolo eletto»: quell'improvviso apprezzamento di un
angolo remoto dell'Africa australe costrinse infatti i boeri o
afrikaner a riprendere la loro battaglia indefessa contro
l'«imperialismo». Nella sua autobiografia (Lungo cammino verso
la libertà, Feltrinelli, Milano 1995), Nelson Mandela ricorda
che nei colloqui semisegreti con P. W. Botha quando era ancora il più
famoso prigioniero politico del mondo ebbe modo di esprimere al
penultimo presidente bianco del Sudafrica la sua sorpresa per
l'incomprensione dei boeri, nonostante il loro passato di
«resistenti», per il significato della lotta di liberazione e
contro il razzismo in cui era impegnata la sua gente sotto la guida
dell'African National Congress. Anche Gandhi, che passò alcuni anni
in Sudafrica a difendere i diritti umani, soprattutto degli indiani,
era un ammiratore dello spirito di libertà dei boeri.
Nel 1999, il centenario
della guerra anglo-boera fornì lo spunto per una riflessione
politico-culturale al servizio dell'unità e della democrazia. Non fu
tutto e solo speculazione. Adeguatamente «de-razzializzata» e
«de-nazionalizzata» - come dopo tutto è nell'arco di uno Stato
post-razzista che vuole essere non-razziale più che multi-razziale e
che in quanto tale è disposto a stemperare i caratteri marcatamente
«nazionali» di un popolo e della sua storia - la guerra angloboera
è a buon diritto una guerra d'iniziazione in cui hanno combattuto e
sofferto soggetti e gruppi a lungo ignorati o oggetto di
discriminazione: i neri anzitutto, ma anche le donne, i civili che
non hanno portato armi, i boeri del Capo che non si sono ribellati al
governo inglese (Iain R. Smith, The Origins of the South-African
War, 1899-1902, Longman, London 1996). In estrema sintesi, la
guerra anglo-boera è stata un'insorgenza a difesa della libertà.
Anche il nuovo Sudafrica è il coronamento di una lotta per la
libertà e la giustizia contro il colonialismo e il razzismo.
La forza dell'esperimento
che è stato avviato nel Sudafrica dopo il 1990 è quella di
ammettere alla pari tutto e tutti - popoli, nazioni, storie e memorie
- alla sola condizione del ripudio del razzismo come male supremo
(Itala Vivan [a cura di], Il nuovo Sudafrica, Dalle strettoie
dell'apartheid alla complessità della democrazia, La Nuova
Italia, Firenze 1996). L'obiettivo è di venire a capo senza
prevaricazioni e segregazioni della natura frastagliata e contrastata
di un'eredità storica di cui ci si vuole appropriare per evitare
cesure che nemmeno la fine del razzismo avrebbe altrimenti sanato.
Per una volta, il colonialismo non ha demarcato una frontiera a
titolo definitivo. Riconoscere a ciascuno la propria posizione e le
proprie responsabilità è sicuramente funzionale al Sudafrica
post-razzista. La riconciliazione non può prescindere dalla verità.
Parimenti essenziale è creare dei valori accessibili a tutti
rivalutando il senso di ideali come la libertà, la giustizia,
l'autonomia, ecc., quale che sia la parte che in una determinata fase
storica si è schierata a favore di ciascuno di quegli ideali. La
stessa guerra anglo-boera ha avuto un profilo paradossale, visto che
i boeri vi hanno svolto insieme la parte delle vittime
(dell'imperialismo inglese) e degli oppressori (della popolazione
africana), nonché dei vinti (sul campo di battaglia) e dei vincitori
(sulla scena politica). Senza volerlo, e forse senza saperlo, i
protagonisti della transizione dal razzismo al dopo-razzismo
mettevano in pratica un motto che Smuts aveva ricavato da Kruger:
«Prendere dal passato solo ciò che ha di buono» (Take only what
is good out of the past) (Jan Christian Smuts, Smuts by his
son J. C. Smuts, Cassell and Co., London 1952).
La storia specialissima
di una comunità umana stanziata in una nazione divenuta stato per
aggiunte invece che per esclusioni contribuisce a spiegare la vicenda
del Sudafrica anche nel momento presente, la sua ricchezza pur nelle
contraddizioni irrisolte (Itala Vivan [a cura di], Corpi liberati
in cerca di storia, di storie, Baldini Castoldi Dalai, Milano
2005). Nei passaggi cruciali, prima della svolta che si consumò
intorno al 1990, la violenza ha avuto una funzione decisiva. Ma i
neri non sono mai stati cancellati dal paesaggio e dalla storia, come
accaduto ad altri «indigeni» a contatto con un insediamento bianco
di quell'entità, e i bianchi hanno saputo considerare, a tempo
debito e con il necessario realismo, i loro stessi interessi,
materiali e immateriali. Quando F. W. De Klerk, l'ultimo presidente
bianco, dichiarò la fine della «guerra contro il nostro popolo» e
convocò l'elettorato bianco a pronunciarsi sull'abrogazione ormai
improcrastinabile dello stato razzista, il referendum del 17 marzo
1992 vide una partecipazione di più dell'88 per cento degli aventi
diritto e la vittoria del «sì» con una maggioranza schiacciante di
quasi il 70 per cento dei votanti. L'estremista di destra dal nome
fatidico di Terre'Blanche - lo stesso Eugène Terre'Blanche ucciso
brutalmente alcune settimane fa in circostanze inquietanti, al di là
del movente occasionale che potrebbe aver causato il delitto - restò
pressoché solo con la sua ossessione del Volkstaat o Whiteland.
Anche la provocazione, chiunque sia stato a perpetrarla,
dell'assassinio di Chris Hani, massimo esponente del Partito
comunista, alla vigilia dell'accordo conclusivo fra De Klerk e
Mandela non interruppe la strada verso il nuovo Sudafrica. Allo
stesso modo, le violenze scatenate dagli zulu contro la vera o
presunta egemonia xhosa per il controllo del territorio nelle città
a popolazione mista non degenerarono in quella escalation che gli
estremisti delle varie specie forse si auguravano.
Le elezioni finalmente
libere e universali del 27 aprile 1994 furono il simbolo del
Sudafrica unito, non un atto di decolonizzazione in senso stretto. I
cafri, i bantu, i nativi erano diventati cittadini ed elettori.
L'integrazione aveva la precedenza sul distacco. Non si era mai visto
che il partito degli ex-dominatori partecipasse alle elezioni del Day
After con il suo nome e il suo patrimonio purché depurato del
razzismo. Il conto dei voti produsse un risultato così perfetto da
far pensare a qualche ritocco a fin di bene. L'Anc stravinceva ma non
superava la soglia dei due terzi del parlamento che gli avrebbe
concesso la possibilità di emendare la Costituzione con i suoi soli
voti. L'Inkatha di quel Buthelezi che aveva tentato di cavalcare una
sorta di separatismo zulu ottenne abbastanza voti da aver diritto a
una vice-presidenza. La prova a distanza di tempo che Buthelezi aveva
sbagliato lo spartito è l'insediamento di Jacob Zuma, uno zulu, come
successore di Mandela e Thabo Mbeki nella magnificenza dell'Union
Building di Pretoria, sede della presidenza della Repubblica.
Il fascino personale di
Nelson Mandela, invictus dentro e oltre la storia, è
irripetibile e si può rimpiangere che non abbia sfruttato fino in
fondo la sua enorme popolarità (R. W. Johnson, South Africa's
Brave New World: The Beloved Country since the End of Apartheid,
Allen Lane, London 2008). Già l'ex-vice di Mandela non riuscì a
tenere il passo quando divenne presidente nel 1999: eppure Thabo
Mbeki era figlio di uno dei grandi vecchi che uscirono dal carcere
insieme a Madiba l'11 febbraio 1990. La fine turbolenta del doppio
mandato di Mbeki, sfortunata un po' per tutti i contendenti, ha dato
la misura della frattura che taglia la politica e la società del
Sudafrica. Lo stesso African National Congress ha subito una
scissione, la prima di un certo peso dopo quella che negli anni
Cinquanta diede vita al Pan-Africanist Congress, nel quale, in
contrasto con la prospettiva nonrazziale e inclusiva che caratterizza
la Fre-edom Charter («Noi popolo del Sudafrica»), si raccolsero gli
«africanisti». L'Anc, fondato nel lontano 1912, fatica a passare
dallo status di movimento di liberazione a partito di governo in un
regime pluralistico. Nessuno sa fin quando durerà la tendenza
all'auto-referenzialità su base razziale. Il Cope (Congress of
People), costituito da chi, nell'Anc o fra i neri, non ama i progetti
e più ancora i modi di Zuma, che possono apparire poco «civilizzati»
a confronto dello stile di Thabo Mbeki, detto per questo
l'«afro-sassone», ha avuto un successo limitato nelle elezioni del
2009 ma l'assunto che in Sudafrica ci sarà sempre un partito dei
bianchi e un partito dei neri è già stato infranto. Secondo le
stime, la Democratic Alliance ha incassato pochi voti di neri
ma è in grado comunque di presentare un profilo plurirazziale per
gli ampi consensi di cui gode fra i coloured di lingua afrikaans
della zona del Capo.
L'evoluzione da
un'appartenenza identitaria a un reclutamento in nome degli interessi
sarebbe la conclusione logica dello schema che si è imposto
all'inizio degli anni Novanta. Il processo in questa direzione è
probabilmente irreversibile nel medio periodo, coadiuvato dalla
crescita economica, che si è interrotta però negli ultimi due anni.
Il Sudafrica è polarizzato come pochi paesi al mondo e le linee del
colore conservano tutta la loro rilevanza. Come in Brasile, il Primo
mondo convive con il Terzo mondo. L'iniqua distribuzione delle
risorse è causa di frustrazioni e rivendicazioni. La disuguaglianza
è un attentato per la stabilità generale. Lo stesso presidente Zuma
potrebbe essere sensibile all'idea di giocare la carta razziale. La
questione della terra è stata la casella zero della costruzione
razzista insieme alla rigida disciplina della mobilità dei neri fra
riserve indigene e città, miniere e industrie bianche. A essa
risalgono, direttamente o per via traverse, sia l'omicidio
Terre'Blanche che i molti assalti alle fattorie bianche, meno
propagandati o volutamente taciuti per non seminare rancori e paure,
in cui si mescolano la criminalità comune e la disperazione dei
contadini senza terra. I perdenti, coloro che non hanno tratto i
vantaggi sperati dalla fine dell'apartheid, sono per lo più neri, ma
nero è anche il ceto medio in ascesa grazie all'esercizio del potere
e ai meccanismi del black empowerment e dell'affirmative
action nel solco della retorica della «liberazione». La
vocazione dei bianchi che hanno scelto di rimanere a vivere in
Sudafrica sentendosi sudafricani a tutti gli effetti non è solo
quella di fare opposizione. All'appello di Terre'Blanche a creare un
homeland per i bianchi di fede protestante e lingua afrikaans
hanno aderito solo in 30 mila su una popolazione bianca di 4,5
milioni e una popolazione complessiva di 49 milioni. La classe media
nera è forte nel campo della politica ma è subalterna ai bianchi
nel campo dell'economia e della finanza. È così che i divari
sociali possono fungere da fattore di accelerazione di una
de-razzializzazione della politica. L'ultima parola dovrebbe spettare
a chi stabilirà la sua egemonia sul piano culturale.
Il Sudafrica sa molto
bene che il contesto in cui si muove è l'Africa e che l'Africa dà
spicco al suo ruolo nel mondo. Per un altro verso, il Sudafrica
rifugge da un'«africanizzazione» delle sue crisi - la povertà di
massa, l'insicurezza, l'Aids - come delle sue conquiste. Il
precedente di Zimbabwe è un monito fin troppo eloquente. La
scommessa è stare dentro l'ordine globale senza cessare di essere
Africa. C'è una differenza fondamentale fra l'Unione nata dalla
«guerra sudafricana» del 1899-1902 e lo Stato democratico nato nel
1994. La guerra anglo-boera, pur di arrivare a chiudere un conflitto
insostenibile davanti all'opinione pubblica in Europa, e pur di
proseguire l'avventura coloniale in questa parte del continente senza
più distinguere fra due popoli egualmente figli dell'espansione
dell'Europa, terminò con la vittoria dei «peggiori», patteggiando
un modus vivendi fra i padroni delle miniere e la dirigenza boera a
detrimento degli africani e dei non bianchi (Alan John Percivale
Taylor, From the Boer War to the Cold War. Essays on Twentieth
Century Europe, Hamish Hamilton, London 1995). L'impegno contro
il razzismo attraverso tutta la storia del Sudafrica è culminato
invece nella vittoria dei «migliori» dell'una come dell'altra
parte, rendendo possibile una pacificazione che - almeno in via di
principio perché le difficoltà pesano ancora come macigni facendo
temere un fallimento - non esclude o discrimina nessuno ma accredita
e onora il contributo di tutti.
Da Terre in vista
supplemento a “il manifesto”, 6 agosto 2010
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