26.6.18

Sudafrica. 250 anni per costruire una nazione e un grande esperimento. Una storia di violenza e libertà (Giampaolo Calchi Novati)

1990 - Nelson Mandela con Winnie nel giorno della liberazione 

Il percorso seguito dallo sbarco dei primi europei al Capo nel 1652 fino alla creazione del Sudafrica dell'apartheid si ispirava a una matrice misticheggiante. L'ideologia dell'Afrikanerdom è stata equiparata a una «religione civile» (Leonard Thompson, Il mito politico dell'apartheid, Sei, Torino 1989). Non per questo il volk e i suoi leaders persero di vista le poste mondane: il potere, la terra, le risorse minerarie. Fra i brani biblici più cari a Jan Van Rieebeck, il fondatore della colonia per conto della Compagnia olandese delle Indie orientali, c'era un versetto del Deuteronomio che recita: «Il popolo eletto riceverà la sua terra dopo aver annientato i re che gli impediscono il passaggio».
Dominique Lapierre (L'arcobaleno nella notte, il Saggiatore, Milano 2008) racconta come il 28 maggio 1867 due bambini di nome Erasmus e Louisa trovarono per caso nella loro fattoria una pietruzza grigiastra. Si stava avverando il messaggio del profeta Giosuè, il libro cult dei boeri: «Cercate e cercate ancora e Dio finirà per premiare la vostra ostinazione». La scoperta dei diamanti nella regione ai confini fra il territorio griqua sotto protezione britannica e la valle dell'Orange occupata dai boeri e di lì a poco dei giacimenti d'oro là dove sorgerà Johannesburg segnò la fortuna e insieme la disgrazia del «popolo eletto»: quell'improvviso apprezzamento di un angolo remoto dell'Africa australe costrinse infatti i boeri o afrikaner a riprendere la loro battaglia indefessa contro l'«imperialismo». Nella sua autobiografia (Lungo cammino verso la libertà, Feltrinelli, Milano 1995), Nelson Mandela ricorda che nei colloqui semisegreti con P. W. Botha quando era ancora il più famoso prigioniero politico del mondo ebbe modo di esprimere al penultimo presidente bianco del Sudafrica la sua sorpresa per l'incomprensione dei boeri, nonostante il loro passato di «resistenti», per il significato della lotta di liberazione e contro il razzismo in cui era impegnata la sua gente sotto la guida dell'African National Congress. Anche Gandhi, che passò alcuni anni in Sudafrica a difendere i diritti umani, soprattutto degli indiani, era un ammiratore dello spirito di libertà dei boeri.
Nel 1999, il centenario della guerra anglo-boera fornì lo spunto per una riflessione politico-culturale al servizio dell'unità e della democrazia. Non fu tutto e solo speculazione. Adeguatamente «de-razzializzata» e «de-nazionalizzata» - come dopo tutto è nell'arco di uno Stato post-razzista che vuole essere non-razziale più che multi-razziale e che in quanto tale è disposto a stemperare i caratteri marcatamente «nazionali» di un popolo e della sua storia - la guerra angloboera è a buon diritto una guerra d'iniziazione in cui hanno combattuto e sofferto soggetti e gruppi a lungo ignorati o oggetto di discriminazione: i neri anzitutto, ma anche le donne, i civili che non hanno portato armi, i boeri del Capo che non si sono ribellati al governo inglese (Iain R. Smith, The Origins of the South-African War, 1899-1902, Longman, London 1996). In estrema sintesi, la guerra anglo-boera è stata un'insorgenza a difesa della libertà. Anche il nuovo Sudafrica è il coronamento di una lotta per la libertà e la giustizia contro il colonialismo e il razzismo.
La forza dell'esperimento che è stato avviato nel Sudafrica dopo il 1990 è quella di ammettere alla pari tutto e tutti - popoli, nazioni, storie e memorie - alla sola condizione del ripudio del razzismo come male supremo (Itala Vivan [a cura di], Il nuovo Sudafrica, Dalle strettoie dell'apartheid alla complessità della democrazia, La Nuova Italia, Firenze 1996). L'obiettivo è di venire a capo senza prevaricazioni e segregazioni della natura frastagliata e contrastata di un'eredità storica di cui ci si vuole appropriare per evitare cesure che nemmeno la fine del razzismo avrebbe altrimenti sanato. Per una volta, il colonialismo non ha demarcato una frontiera a titolo definitivo. Riconoscere a ciascuno la propria posizione e le proprie responsabilità è sicuramente funzionale al Sudafrica post-razzista. La riconciliazione non può prescindere dalla verità. Parimenti essenziale è creare dei valori accessibili a tutti rivalutando il senso di ideali come la libertà, la giustizia, l'autonomia, ecc., quale che sia la parte che in una determinata fase storica si è schierata a favore di ciascuno di quegli ideali. La stessa guerra anglo-boera ha avuto un profilo paradossale, visto che i boeri vi hanno svolto insieme la parte delle vittime (dell'imperialismo inglese) e degli oppressori (della popolazione africana), nonché dei vinti (sul campo di battaglia) e dei vincitori (sulla scena politica). Senza volerlo, e forse senza saperlo, i protagonisti della transizione dal razzismo al dopo-razzismo mettevano in pratica un motto che Smuts aveva ricavato da Kruger: «Prendere dal passato solo ciò che ha di buono» (Take only what is good out of the past) (Jan Christian Smuts, Smuts by his son J. C. Smuts, Cassell and Co., London 1952).
La storia specialissima di una comunità umana stanziata in una nazione divenuta stato per aggiunte invece che per esclusioni contribuisce a spiegare la vicenda del Sudafrica anche nel momento presente, la sua ricchezza pur nelle contraddizioni irrisolte (Itala Vivan [a cura di], Corpi liberati in cerca di storia, di storie, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2005). Nei passaggi cruciali, prima della svolta che si consumò intorno al 1990, la violenza ha avuto una funzione decisiva. Ma i neri non sono mai stati cancellati dal paesaggio e dalla storia, come accaduto ad altri «indigeni» a contatto con un insediamento bianco di quell'entità, e i bianchi hanno saputo considerare, a tempo debito e con il necessario realismo, i loro stessi interessi, materiali e immateriali. Quando F. W. De Klerk, l'ultimo presidente bianco, dichiarò la fine della «guerra contro il nostro popolo» e convocò l'elettorato bianco a pronunciarsi sull'abrogazione ormai improcrastinabile dello stato razzista, il referendum del 17 marzo 1992 vide una partecipazione di più dell'88 per cento degli aventi diritto e la vittoria del «sì» con una maggioranza schiacciante di quasi il 70 per cento dei votanti. L'estremista di destra dal nome fatidico di Terre'Blanche - lo stesso Eugène Terre'Blanche ucciso brutalmente alcune settimane fa in circostanze inquietanti, al di là del movente occasionale che potrebbe aver causato il delitto - restò pressoché solo con la sua ossessione del Volkstaat o Whiteland. Anche la provocazione, chiunque sia stato a perpetrarla, dell'assassinio di Chris Hani, massimo esponente del Partito comunista, alla vigilia dell'accordo conclusivo fra De Klerk e Mandela non interruppe la strada verso il nuovo Sudafrica. Allo stesso modo, le violenze scatenate dagli zulu contro la vera o presunta egemonia xhosa per il controllo del territorio nelle città a popolazione mista non degenerarono in quella escalation che gli estremisti delle varie specie forse si auguravano.
Le elezioni finalmente libere e universali del 27 aprile 1994 furono il simbolo del Sudafrica unito, non un atto di decolonizzazione in senso stretto. I cafri, i bantu, i nativi erano diventati cittadini ed elettori. L'integrazione aveva la precedenza sul distacco. Non si era mai visto che il partito degli ex-dominatori partecipasse alle elezioni del Day After con il suo nome e il suo patrimonio purché depurato del razzismo. Il conto dei voti produsse un risultato così perfetto da far pensare a qualche ritocco a fin di bene. L'Anc stravinceva ma non superava la soglia dei due terzi del parlamento che gli avrebbe concesso la possibilità di emendare la Costituzione con i suoi soli voti. L'Inkatha di quel Buthelezi che aveva tentato di cavalcare una sorta di separatismo zulu ottenne abbastanza voti da aver diritto a una vice-presidenza. La prova a distanza di tempo che Buthelezi aveva sbagliato lo spartito è l'insediamento di Jacob Zuma, uno zulu, come successore di Mandela e Thabo Mbeki nella magnificenza dell'Union Building di Pretoria, sede della presidenza della Repubblica.
Il fascino personale di Nelson Mandela, invictus dentro e oltre la storia, è irripetibile e si può rimpiangere che non abbia sfruttato fino in fondo la sua enorme popolarità (R. W. Johnson, South Africa's Brave New World: The Beloved Country since the End of Apartheid, Allen Lane, London 2008). Già l'ex-vice di Mandela non riuscì a tenere il passo quando divenne presidente nel 1999: eppure Thabo Mbeki era figlio di uno dei grandi vecchi che uscirono dal carcere insieme a Madiba l'11 febbraio 1990. La fine turbolenta del doppio mandato di Mbeki, sfortunata un po' per tutti i contendenti, ha dato la misura della frattura che taglia la politica e la società del Sudafrica. Lo stesso African National Congress ha subito una scissione, la prima di un certo peso dopo quella che negli anni Cinquanta diede vita al Pan-Africanist Congress, nel quale, in contrasto con la prospettiva nonrazziale e inclusiva che caratterizza la Fre-edom Charter («Noi popolo del Sudafrica»), si raccolsero gli «africanisti». L'Anc, fondato nel lontano 1912, fatica a passare dallo status di movimento di liberazione a partito di governo in un regime pluralistico. Nessuno sa fin quando durerà la tendenza all'auto-referenzialità su base razziale. Il Cope (Congress of People), costituito da chi, nell'Anc o fra i neri, non ama i progetti e più ancora i modi di Zuma, che possono apparire poco «civilizzati» a confronto dello stile di Thabo Mbeki, detto per questo l'«afro-sassone», ha avuto un successo limitato nelle elezioni del 2009 ma l'assunto che in Sudafrica ci sarà sempre un partito dei bianchi e un partito dei neri è già stato infranto. Secondo le stime, la Democratic Alliance ha incassato pochi voti di neri ma è in grado comunque di presentare un profilo plurirazziale per gli ampi consensi di cui gode fra i coloured di lingua afrikaans della zona del Capo.
L'evoluzione da un'appartenenza identitaria a un reclutamento in nome degli interessi sarebbe la conclusione logica dello schema che si è imposto all'inizio degli anni Novanta. Il processo in questa direzione è probabilmente irreversibile nel medio periodo, coadiuvato dalla crescita economica, che si è interrotta però negli ultimi due anni. Il Sudafrica è polarizzato come pochi paesi al mondo e le linee del colore conservano tutta la loro rilevanza. Come in Brasile, il Primo mondo convive con il Terzo mondo. L'iniqua distribuzione delle risorse è causa di frustrazioni e rivendicazioni. La disuguaglianza è un attentato per la stabilità generale. Lo stesso presidente Zuma potrebbe essere sensibile all'idea di giocare la carta razziale. La questione della terra è stata la casella zero della costruzione razzista insieme alla rigida disciplina della mobilità dei neri fra riserve indigene e città, miniere e industrie bianche. A essa risalgono, direttamente o per via traverse, sia l'omicidio Terre'Blanche che i molti assalti alle fattorie bianche, meno propagandati o volutamente taciuti per non seminare rancori e paure, in cui si mescolano la criminalità comune e la disperazione dei contadini senza terra. I perdenti, coloro che non hanno tratto i vantaggi sperati dalla fine dell'apartheid, sono per lo più neri, ma nero è anche il ceto medio in ascesa grazie all'esercizio del potere e ai meccanismi del black empowerment e dell'affirmative action nel solco della retorica della «liberazione». La vocazione dei bianchi che hanno scelto di rimanere a vivere in Sudafrica sentendosi sudafricani a tutti gli effetti non è solo quella di fare opposizione. All'appello di Terre'Blanche a creare un homeland per i bianchi di fede protestante e lingua afrikaans hanno aderito solo in 30 mila su una popolazione bianca di 4,5 milioni e una popolazione complessiva di 49 milioni. La classe media nera è forte nel campo della politica ma è subalterna ai bianchi nel campo dell'economia e della finanza. È così che i divari sociali possono fungere da fattore di accelerazione di una de-razzializzazione della politica. L'ultima parola dovrebbe spettare a chi stabilirà la sua egemonia sul piano culturale.
Il Sudafrica sa molto bene che il contesto in cui si muove è l'Africa e che l'Africa dà spicco al suo ruolo nel mondo. Per un altro verso, il Sudafrica rifugge da un'«africanizzazione» delle sue crisi - la povertà di massa, l'insicurezza, l'Aids - come delle sue conquiste. Il precedente di Zimbabwe è un monito fin troppo eloquente. La scommessa è stare dentro l'ordine globale senza cessare di essere Africa. C'è una differenza fondamentale fra l'Unione nata dalla «guerra sudafricana» del 1899-1902 e lo Stato democratico nato nel 1994. La guerra anglo-boera, pur di arrivare a chiudere un conflitto insostenibile davanti all'opinione pubblica in Europa, e pur di proseguire l'avventura coloniale in questa parte del continente senza più distinguere fra due popoli egualmente figli dell'espansione dell'Europa, terminò con la vittoria dei «peggiori», patteggiando un modus vivendi fra i padroni delle miniere e la dirigenza boera a detrimento degli africani e dei non bianchi (Alan John Percivale Taylor, From the Boer War to the Cold War. Essays on Twentieth Century Europe, Hamish Hamilton, London 1995). L'impegno contro il razzismo attraverso tutta la storia del Sudafrica è culminato invece nella vittoria dei «migliori» dell'una come dell'altra parte, rendendo possibile una pacificazione che - almeno in via di principio perché le difficoltà pesano ancora come macigni facendo temere un fallimento - non esclude o discrimina nessuno ma accredita e onora il contributo di tutti.

Da Terre in vista supplemento a “il manifesto”, 6 agosto 2010

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