25.6.18

L’eterno ritorno di Bellow e Roth (Giulio D’Antona)

Philip Roth e Saul Bellow

Le storie che compongono l’epopea della letteratura moderna americana sono per la maggior parte avvolte in un’atmosfera d’altri tempi: Dick Stern che convince Philip Roth a scrivere Goodbye, Columbus (1959) dopo aver mangiato un hamburger in condizioni igieniche precarie, John Cheever e Raymond Carver che si ubriacano tra i dormitori dell’Iowa Writers’ Workshop, Bernard Malamud che vive di una mela e un litro di caffè al giorno in un palazzo che aspetta di essere demolito. Probabilmente è vero che le leggende nascono in un minuto come bugie e impiegano anni a essere ricordate come verità, ma pare che il panorama letterario americano si sia fermato al mito dei primi settant’anni del Novecento.
Allo stesso modo, i romanzieri esordienti pescano miti e ispirazione a due generazioni di distanza dalla propria. Non è un caso se la rivisitazione del passato ricorre tanto prepotentemente tra gli esordi: tornare indietro è il modo per avvicinarsi ai propri modelli.
Molti dei giovani autori che alimentano il famoso milione di libri stampati all’anno trovano i loro riferimenti stilistici in maestri del secolo scorso, saltando a piè pari e quasi completamente un blocco di scrittori attivi dagli anni Ottanta in poi, che evidentemente non ha lasciato granché di sé ai posteri. Ci sono eccezioni notevoli e notevolmente incredibili, ma è molto più facile distinguere in un romanzo d’esordio echi illustri di Joan Didion, Joyce Carol Oates, Don DeLillo, Arthur Miller, Kurt Vonnegut o J. D. Salinger, piuttosto che George Saunders, David Foster Wallace, Elizabeth Strout o Chuck Palanhiuk. Le nuove generazioni, a quanto pare, preferiscono evitare i loro professori per riferirsi, paradossalmente ma non inaspettatamente, a quelle che sono state le fonti di ispirazione di chi gli ha insegnato l’arte.
La quasi totalità della letteratura americana di oggi, declinata su centinaia di nuovi autori all’anno e un’infinità di diverse categorie di lettura, si rifà a un pugno di autori di stampo classico e al vecchio, rassicurante, mito del grande romanzo.

Il canone di Bellow
In una raccolta di saggi uscita da poco in Italia, intitolata Troppe cose a cui pensare – curata da Benjamin Taylor e tradotta da Luca Briasco per SUR – Saul Bellow, premio Nobel nel 1976, delinea bene i confini di queste due generazioni fondanti. Gli ultimi maestri riconoscibili prima della pioggia di autori intercambiabili, formati in catena di montaggio dall’automatizzazione dell’insegnamento della scrittura creativa e dalla sete dell’industria d’intrattenimento di massa.
Tra il 1951 e il 2000, Bellow ha definito i suoi contemporanei assieme ai loro predecessori e contribuito a lasciare ai posteri affamati di modelli condivisibili un canone al quale fare riferimento. Allo stesso tempo, ha sperimentato e tagliato su misura una lingua nuova per la nascente nonfiction letteraria, profondamente influenzata dalla narrativa. «Si dice che i romanzieri utilizzino la mano sinistra, quando si occupano di saggistica», ha scritto una volta Martin Amis sul “New York Times”. «Ma posso testimoniare che Bellow è ambidestro». Un’abilità, non a caso, poi condivisa da Joan Didion, John McPhee e Susan Sontag, per citare alcuni esempi notevoli.
Nel panorama fondativo che Roth, allievo principale di Bellow e suo più grande promotore, ha definito come «colonna vertebrale della cultura americana», quel brodo primordiale evoluto che ha contribuito a fissare le basi per la letteratura a venire, ci sono i maestri dei maestri, i colleghi e i successori. Tra i primi è il caso di citare Ernest Hemingway e Vladimir Nabokov, che Bellow rilegge con devozione e senso critico, interrogandosi continuamente sul valore oggettivo delle opere che lo hanno formato e immergendosi tanto nella lettura da chiedersi a un certo punto: «Cosa c’è di attraente nella narrativa?». È una domanda che rimane senza risposta, a dirla tutta, ma che aleggerà come uno spirito infestante sulle teste di chi se ne occuperà di lì in poi.

La famiglia salingeriana
Pensando a Salinger e riferendosi soprattutto al ciclo di racconti e romanzi brevi che hanno come protagonista la famiglia Glass – contenuti in Nove racconti, Franny e Zooey e Alzate l’architrave, carpentieri e Seymour, pubblicati in Italia in varie edizioni Einaudi – Bellow individua il futuro della famiglia perbene, che, con le sue macchie evidenti e i suoi segreti inconfessabili, diventerà la protagonista di un gran numero di romanzi a venire. I ragazzi Glass, puri di cuore e di mentalità aperta ma non per questo privi di di un’anima scura, sono il prototipo sentimentale e patologico dei Lambert in Le correzioni di Jonathan Franzen e dei Leary di Matthew Thomas in Non siamo più noi stessi, ad esempio. La buona linfa della classe media americana, impegnata giorno dopo giorno a superare la propria ambizione all’equilibrio emotivo. Volendo fare un passo oltre, ma accostandosi meglio all’origine salingeriana, i Glass sono i Tenenbaum del film di Wes Anderson, i Berkman di Il calamaro e la balena e i Meyerowitz di Noah Baumbach. Bellow, anche in questo caso, ha designato un punto di partenza, invariato settant'anni più tardi.

Roth, l’intellettuale riluttante
Nel saggio dal titolo La palude della prosperità definisce il primo libro di Philip Roth «un esordio che non è un esordio, nato con i capelli, le unghie e i denti», e regala al mondo il suo figlio prediletto. Roth – del quale uscirà in Italia il primo dei “Meridiani” Mondadori, curato da Elèna Mortara e che raccoglierà le opere dal 1959 al 1986 – è probabilmente il più influente tra gli scrittori americani del secondo Novecento (assieme soltanto a Don DeLillo). La sua figura, quella del romanziere spaesato ma in qualche modo altero, dell’uomo libertino ma sempre impegnato in goffi tentativi di riparare ai propri danni, contemporaneamente vittima e artefice della propria rovina, debole ma abbastanza risoluto da decidere di smettere di scrivere, è diventata il modello fisico dell’intellettuale riluttante. La sua scrittura è la base di partenza e lo standard a cui tendere, tragicamente comica e comicamente spiazzante.
Nel “Meridiano” assistiamo alla nascita di Nathan Zuckerman, che sarebbe riduttivo definire un alter ego e ridondante definire un personaggio. Zuckerman, che fa la sua comparsa in My Life as a Man del 1974 come creatura e si afferma come protagonista in Lo scrittore fantasma del 1979, è la copertura della copertura: il modo che Roth ha escogitato per non far trapelare niente di se stesso attraverso le maglie strette della narrativa. Oppure per rivelare tutto dando l’impressione di non farlo. Si tratta nuovamente di un primato, poi riciclato e riutilizzato dalle nuove leve e dagli estimatori. Mai, fino ad ora, eguagliato.

La linea ebraica
La linea che passa tra Bellow e Roth, prendendo idealmente avvio da Franz Kafka e Sholem Aleichem, ramificandosi in Isaac Bashevis Singer, Salinger e Bernard Malamud, per poi confluire nel genio comico di Fran Lebowitz e in Norman Mailer ed essere trasmessa a Gary Shteyngart, Nathan Englander e Shalom Auslander come un’eredità, è riconoscibile nell’identità ebraica. Bellow si è interrogato spesso sulla matrice dei suoi scritti e su quanto l’ebraismo li abbia influenzati, concludendo di poterne fare a meno ma, contemporaneamente, lasciando ai suoi successori un ennesimo argomento di discussione. È una storia che si ripete: di maestri, sempre gli stessi, e allievi sempre nuovi, dei quali è difficile tenere traccia.
Da una parte ci sono due generazioni di talenti inscalfibili che prendono spunto l’una dall’altra per modellare la nuova letteratura americana, tra ubriacature nei campus, critici schiaffeggiati e discussioni sulle verande delle case di campagna. Dall’altra c’è Franzen che si ribella a Oprah nel tentativo di acchiappare la maggiore fetta di pubblico possibile: non un bello spettacolo.

“Pagina 99”, 3 novembre 2017

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