14.6.18

Parole del mio paese: “sbarrari” (S.L.L.)

Porticina di "dammusieddru" a Campobello di Licata

Nella mia parlata nativa, quella di Campobello di Licata, ma anche nel dialetto dei paesi circostanti, “sbarrari” vuol dire svuotare.
Si sbarra la vutti (botte) quando la si vuol preparare a ricevere il vino nuovo. Per fare posto ad altro si sbarra un dammusieddru, parola che – soprattutto al diminutivo – al mio paese ha perso gli originari riferimenti a una peculiare struttura architettonica, per indicare un basso e piccolo locale prevalentemente adibito a deposito di attrezzi e prodotti agricoli, a dispensa o a ripostiglio.
Ricordo l'uso speciale che del verbo sbarrari faceva un professore della scuola media, canicattinese d'origine, ottima persona e buon insegnante di lettere, che ebbe in cura alcuni dei miei più cari amici d'infanzia.
Pare che nelle sue ore di insegnamento praticasse una sorta di multilinguismo: nell'ora di latino per esempio adoperava la lingua dei padri anche per comunicazioni di servizio (all'interrogando soleva dire “cape librum et hunc veni”); in altri momenti faceva un libero uso del dialetto, sicché senza remore al giovinetto reduce dal cesso (allora così si chiamava e il massimo dell'eufemismo consentito era “gabinetto”) domandava “Sbarrasti?”.
Quella accezione inconsueta ebbe successo tra di noi e nel nostro adolescenziale vocabolario addirittura entrò una locuzione perifrastica che ci pareva spiritosa. Mescolando le lingue, in ardita metafora chiamavamo le scorregge, soprattutto le più rumorose, “fuoco di sbarramento”.

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