Porticina di "dammusieddru" a Campobello di Licata |
Nella mia parlata nativa,
quella di Campobello di Licata, ma anche nel dialetto dei paesi
circostanti, “sbarrari” vuol dire svuotare.
Si sbarra la vutti
(botte) quando la si vuol preparare a ricevere il vino nuovo. Per
fare posto ad altro si sbarra un dammusieddru,
parola che –
soprattutto al diminutivo – al mio paese ha perso gli originari
riferimenti a una peculiare struttura architettonica, per indicare un
basso e piccolo locale prevalentemente adibito a deposito di attrezzi e prodotti agricoli, a dispensa o a ripostiglio.
Ricordo
l'uso speciale che del verbo sbarrari faceva un professore
della scuola media, canicattinese d'origine, ottima persona e buon
insegnante di lettere, che ebbe in cura alcuni dei miei più cari
amici d'infanzia.
Pare
che nelle sue ore di insegnamento praticasse una sorta di
multilinguismo: nell'ora di latino per esempio adoperava la lingua
dei padri anche per comunicazioni di servizio (all'interrogando
soleva dire “cape librum et hunc veni”);
in altri momenti faceva un libero uso del dialetto, sicché senza
remore al giovinetto reduce dal cesso (allora così si chiamava e il
massimo dell'eufemismo consentito era “gabinetto”) domandava
“Sbarrasti?”.
Quella
accezione inconsueta ebbe successo tra di noi e nel nostro
adolescenziale vocabolario addirittura entrò una locuzione
perifrastica che ci pareva spiritosa. Mescolando le lingue, in ardita
metafora chiamavamo le scorregge, soprattutto le più rumorose,
“fuoco di sbarramento”.
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