15.6.18

L'egemonia del “fascioleghismo” e il terzo spazio possibile a sinistra (Mario Pezzella)

Dal sito de “Il Ponte”, il mensile fiorentino fondato da Calamandrei, recupero con un titolo diverso (lì hanno scelto L'egemonia della destra) un articolo in cui molto mi riconosco, non solo per l'acuta rappresentazione del “fascismo” leghista, ma anche per l'individuazione di uno spazio di intervento a sinistra. 
Una sinistra che voglia resistere e rilanciarsi ha bisogno di essere – insieme – “basista” e (almeno) continentale. È difficile? Ma quando mai è stato facile? (S.L.L.)

Non avendo avuto il tempo di scrivere per il numero a stampa, farò qualche osservazione tardiva sulla formazione del nuovo governo: consapevole di come la mia posizione sia minoritaria all’interno del «Ponte». Io credo che il governo Conte sia un caso esemplare di quella situazione politica che Gramsci esprimeva col termine “egemonia”. Un partito la Lega – che per me ha inconfondibili tratti fascisti – ha imposto la propria direzione politica di fatto, pur avendo come alleato un movimento che aveva ricevuto il doppio dei suoi voti. Ai significanti oscillanti dei Cinquestelle (tra destra e sinistra? Un po’ di destra, un po’ di sinistra?) ha contrapposto un’ideologia regressiva dura ed efficace. Ne ho scritto più volte su «Il Ponte» e dunque sarò sintetico. La Lega è assonante con i fascismi storici almeno su questi temi: Welfare ristretto rigorosamente ai soli “indigeni” nazionali; razzismo e creazione di un nemico “altro”, l’intruso capro espiatorio di ogni conflitto e fallimento; critica della finanza cattiva e non del capitale come modo di produzione; l’idea di un popolo-nazione immaginariamente unificato al di là dei suoi conflitti di classe e di interesse. L’enfasi anticoloniale costituisce da sempre un punto di forza dei movimenti populisti, che configurano il nemico in una nazione egemone (oggi la Germania), invece di contestare il sistema capitalistico, di cui essa è solo una maschera e una funzione. Infine, alla garanzia di una certa redistribuzione del reddito corrisponde l’assicurazione che non saranno minimamente scalfiti i “fondamentali” dell’economia attuale del capitale.
È una visione politica che si configura come «rivoluzione passiva» di un programma di sinistra, una sinistra che ha lasciato cadere o si è lasciata espropriare di tutti i suoi temi distintivi, che ora vengono ripresi – nella forma monca o amputata del nazionalismo escludente – dal governo in carica. Il programma economico di tale governo, in particolare, riformula proposte una volta di sinistra come il reddito di cittadinanza, la revisione della legge Fornero, il blocco delle grandi opere nocive all’ambiente; ma esse vengono inserite in un contesto razzista e xenofobo, e –presumibilmente – saranno realizzate in modo limitato, accettando un compromesso coi poteri forti e la destra tecnocratica che pure è presente nella compagine del governo.
Nel senso proposto da Gramsci, in una rivoluzione passiva frammenti della cultura di sinistra vengono conservati ma distolti dal loro fine essenziale e dislocati in un contesto diverso e tendenzialmente opposto.
Così, per esempio, i fascismi italiani hanno collocato in una disposizione gerarchica ed elitaria elementi che inizialmente appartenevano a richieste partorite dal principio di uguaglianza. L’assistenza sociale viene concessa da Mussolini; purché venga subordinata allo statuto delle corporazioni, alla rinuncia alla trattativa sindacale, alla negazione di una classe antagonista (naturalmente essa viene accordata entro certi limiti, meno di quanto era dapprima richiesto dai socialisti, ma pur sempre più di quanto avrebbe accettato la vecchia classe dirigente).
La Lega ha tentato di recente di compiere un lavoro di assimilazione-deformazione per certi versi simile, attenuando la sua iniziale carica provocatoria. Proposte della sinistra sociale, come federalismo, autodecisione dei territori, e perfino quella della cittadinanza dei migranti, vengono deformate nella loro formulazione originaria e così omologate al progetto autoritario, assumendo una caratteristica flessione gerarchica. Prendiamo a esempio il tema dell’immigrazione. Non si tratta più semplicemente di dire «fuori tutti», «non li vogliamo», ma piuttosto: li vogliamo nella misura in cui ci servono, nella misura in cui non tolgono il lavoro agli italiani, nella misura in cui accettano una cittadinanza dimezzata; a patto insomma, che l’integrazione si coniughi al comando della razza superiore e al principio gerarchico.
Tuttavia, a questo prezzo, a una parte degli immigrati vengono concessi certi diritti e certe garanzie di lavoro e sopravvivenza (come ai servitori neri nel Sud degli Stati Uniti di un tempo, o a quelli del colono europeo in Africa). In un certo senso, l’immigrato può perfino apprezzare questa parziale concessione di diritti (rispetto alla clandestinità), che è meno di quanto richiedeva o poteva pretendere, ma più di quanto i padroni inizialmente erano disposti a concedere. Una tematica (la cittadinanza piena) che era patrimonio diffuso della sinistra, che si ispirava all’inclusione e al principio di uguaglianza, viene “corretta” dal suo assorbimento nella “tesi” opposta, una costruzione gerarchica del sociale, divisa in signori e servi (cittadinanza dimezzata).
I Cinque Stelle avevano una componente che qualcuno definiva di “sinistra” o addirittura anarchico-libertaria? Se c’era, è del tutto scomparsa dalla scena, mentre il loro leader – Di Maio – è sovrastato sul piano mediatico e spettacolare da Salvini. Il nostro presidente della Repubblica si è molto spaventato per la presenza, in fondo confermata, di Savona nella compagine di governo: a me spaventa molto di più Salvini all’interno, con le sue promesse di deportazioni di migranti, respingimenti violenti e la sua ossessione securitaria (che proseguirebbe del resto la politica già iniziata da Minniti in Libia, con la creazione di inumani campi di internamento). Qui si addensa il nucleo oscuro di un nuovo autoritarismo, che potrebbe portarci non tanto fuori dall’Europa, quanto verso l’Europa di Orbàn.
Mi permetto di dire che sono un po’ sorpreso di come nell’ultimo numero del «Ponte» si faccia poca menzione di questo pericolo (a parte eccezioni) e del possibile imbarbarimento dei comportamenti securitari.
Naturalmente occorre che i rappresentanti della “sinistra” – come è accaduto di recente agli avatar successivi del partito comunista – siano singolarmente sprovveduti, incapaci e collusi perché l’opera di passivizzazione abbia successo: o quanto meno che si ispirino a una cultura politica obsoleta. La classe dirigente del Pd è corresponsabile della vittoria del neoliberismo in Italia, della distruzione di ogni nozione di socialismo, dell’adesione alle misure economiche più sconsideratamente tecnocratiche della finanza multinazionale europea. Non possono dunque invocare ora un «Fronte repubblicano».
Occorrerebbe un “Terzo spazio”, tra europeismo tecnocratico e populismo neofascista, come ha cercato di definirlo Y. Varoufakis in un suo libro (Il Terzo spazio. Oltre establishment e populismo, Laterza, 2017). Non credo che un populismo di sinistra (alla Mélenchon), comunque ancorato all’idea di Stato nazionale, comunque incline all’identificazione verticistica nel corpo e nel nome di un “capo” possa avere la forza di cambiare le cose. Solo un movimento antagonista radicale a livello transnazionale ed europeo, che organizzi critica e lotta comune al capitalismo attuale, potrebbe restituirci qualche speranza. Occorre una sinistra che si riappropri delle sue parole tradite e deformate: federalismo, internazionalismo, beni comuni, inclusione, autogestione; che rilanci una stagione di lotte sindacali coordinate a livello internazionale. Che effetto avrebbe uno sciopero generale delle ferrovie non limitato alla sola Francia, come sta accadendo negli ultimi mesi, ma esteso all’Europa intera? Il termine “sciopero generale”, ora ridotto a un significato rituale e modesto, riacquisterebbe un suono altamente minaccioso per i poteri dominanti.

"Il Ponte", 8 giugno 2018

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