21.6.18

Torino 1969 – 2003. Ascesa e caduta di una città-fabbrica (Marco Revelli)


Fiat Mirafiori - autunno 1969
«Siamo partiti il 2 settembre. Nel giro di pochi minuti la lotta s'innescò nella nostra squadra e si trasmise a tutta l'officina: 3.000 operai sui tre turni, e tutti e 3.000 si fermarono. Ricordo che avevamo concordato con la mia squadra, che era un punto di riferimento per tutta l'officina, di fermarci alle dieci. Già alle dieci meno dieci tutti guardavano la mia squadra. E tutta la mia squadra guardava me.
Io imperturbabile continuavo a lavorare. Lavorai fino alle dieci esatte, poi spensi il cannello e uscii in mezzo al corridoio. Di fianco a me c'erano le piccole presse che battevano le valvoline. Più lontano si sentiva il rumore dei torni e sul fondo il soffio dei forni. Fu una cosa impressionante: appena uscii nel corridoio partì un fischio, e incominciarono a fermarsi le piccole presse. Poi si arrestarono i torni, seguiti a breve distanza dai forni. A poco a poco tutto, tutto, tutto si spegneva. In capo a qualche minuto l'intera officina era silenziosa. E ognuno seduto al proprio posto di lavoro. Nei settori più lontani non sapevano neanche perché si erano fermati; avevano spento le macchine perché se le avevamo spente noi voleva dire che c'era un motivo. Seduti tutti quanti al nostro posto aspettammo».
«Di lì a un paio d'ore - continua il racconto - arrivò la Commissione Interna. Volevano che riprendessimo il lavoro. Ci fu un'assemblea su in mensa: c'erano due tavoli, su un tavolo io da solo, sull'altro si alternavano i vari membri della CI. E si andò avanti per diverse ore in un contraddittorio, con loro che parlavano del contratto, e io che sostenevo le 100 lire e le 36 ore. Quello che conquistò tutta l'officina era proprio il calore, la passione, l'aggressività con cui mettevo in difficoltà l'altra parte. Fu a questo punto che si inserì Agnelli con le 30.000 sospensioni, già il secondo giorno, per drammatizzare la situazione. E per dimostrare, proprio perché si era alla vigilia delle trattative per il contratto, che in una situazione come la Fiat il sindacato non controllava i lavoratori. Il fatto ebbe una risonanza che sorprese tutti quanti noi, me compreso, facendomi sentire proprio schiacciato dal peso di questa responsabilità: inviati speciali dai giornali italiani, addirittura corrispondenti di giornali stranieri, c'era una folla enorme di cronisti, di giornalisti fuori dalle porte 31 e 32. Mentre fino ad allora “la Stampa” di Torino aveva taciuto tutto, ora dedicava l'intera prima pagina. Continuammo fino al 7 settembre. Io fui l'ultimo a riprendere il lavoro. Il giorno dopo iniziarono gli scioperi contrattuali».
Così Gerolamo racconta l'inizio dello sciopero selvaggio dell'Officina 32, alla Fiat Mirafiori - un luogo strategico dello spazio produttivo Fiat, posta alla confluenza tra le Meccaniche e la Carrozzeria, dove se la produzione si ferma, si blocca l'intero stabilimento -, quando di fatto iniziò, prima della scadenza ufficiale, l'autunno caldo. Gerolamo aveva allora poco più di vent'anni, e veniva da Grottaminarda, da un'estrema periferia del sud, come quasi tutti i suoi compagni. Come Pino, di qualche anno più anziano (aveva allora 26 anni), proveniente da un paesino vicino a Messina, arrivato a Torino, a Porta Nuova, una mattina di novembre del 1961, alle 7, direttamente da Messina, «con due valigie e nessun indirizzo» («quando mi affacciai fuori, non vidi nulla - ricorderà -. Solo un muro grigio e umido. Sentivo i rumori della città, la potevo immaginare, ma non la vedevo. Prima, non sapevo neanche cosa fosse la nebbia»). Come Dario, che veniva da Lucera («A Lucera non si viveva male. Severo, il fratello più grande, aveva ordine da mio padre di fare il fuoco per la cena, e organizzava i più piccoli alla ricerca di legna secca, della paglia, e intanto preparava le pietre per il fornello. Ma da anni la gente partiva, per Milano, per Torino, per la Germania...»). Come Salvatore, Robi, Rino detto «Zorro», Gaetano, Antonio.
I più anziani avevano alle spalle l'esperienza dell'emigrazione in Francia, in Belgio, in Germania. Gli altri venivano direttamente dalle campagne meridionali (il 37% dalle Puglie, il 23% dalla Sicilia, il 13% dalla Calabria, il 10% dalla Campania), la maggioranza con poco più di vent'anni, nessuno al di sopra dei trenta. Un esercito di giovani, tutti con la stessa rabbia da sradicamento dentro. E tutti con la stessa direzione di movimento: dalla periferia al centro, dalla marginalità al protagonismo, dall'esclusione al «potere» sociale. La sera che occuparono Mirafiori, alla fine di novembre, quando li vidi nella penombra nebbiosa di Corso Agnelli, ai cancelli delle Carrozzerie, mi sembrarono dei giganti. Era come se tutta la potenza delle macchine e degli impianti di quell'immensa fabbrica che li aveva ingoiati e oppressi fino a ieri, gli fosse entrata dentro.
Erano lì, nel cuore del mondo, in uno stabilimento che era come una città, con i suoi 50.000 e più addetti, i suoi tre milioni e mezzo di metri quadri di superficie, le sue catene di montaggio e le sue fucine, le sue presse e i suoi convogliatori meccanici; in una fabbrica che faceva andare avanti il Paese. E potevano, a loro volontà, «fermare il mondo». Potevano, vincendo la divisione e la paura, in un'azione collettiva, fermare il Paese. Alle loro spalle, nel buio, la fabbrica faceva sentire un ronzio profondo, quasi un bramito d'animale, il rumore di una forza trattenuta e irresistibile, ed era come se quella fosse diventata la loro voce.
Erano l'incarnazione del lavoro vivo che si nega, nella sua soggettività, al comando e diventa protagonista per sé, incorporandosi tutta la forza dell'«altro», del lavoro morto trattenuto in quelle macchine ora ferme per loro volontà. Da allora, ogni volta che ascolto le parole dell'Internazionale, «Nous ne sommes rien, nous serons tout» non posso non pensare a loro in quel momento, in bilico tra le promesse degli anni sessanta e la durezza del decennio successivo.

Fiat Mirafiori - autunno 1980

Il pomeriggio del 16 ottobre dell'80 il primo che mi si fece incontro alla porta 3 di Mirafiori - la stessa da cui avevo sbirciato poco più di dieci anni prima - fu uno di essi, Angelo: «Noi siamo come i dinosauri - mi disse -, una razza in estinzione». E intendeva «noi operai». Quegli operai lì, come li avevamo conosciuti al colmo della loro parabola sociale. Dentro si era appena conclusa un'assemblea travagliata, sull'ipotesi d'accordo che avrebbe chiuso l'epica vicenda dei «35 giorni della Fiat». Il No aveva prevalso plebiscitariamente. Come d'altra parte al mattino, quando in un'affollatissima assemblea del primo turno, nello spiazzo delle Meccaniche, in migliaia avevano alzato la mano alla richiesta «Chi è contrario?», ma il funzionario sindacale che gestiva le cose aveva proclamato: «Approvato a grande maggioranza». E già al telegiornale dell'una le Segreterie nazionali sindacali, Lama, Carniti, Benvenuto in coro unanime, avevano fatto sapere che l'accordo era cosa fatta.
Per trentacinque giorni, dall'inizio di settembre quando era arrivato l'annuncio dei licenziamenti, avevano circondato Mirafiori, in tutti gli 11 chilometri del suo infinito perimetro, con i propri presidii. Per ognuna delle 33 porte un gruppo, con i suoi simboli, le sue bandiere, i grandi banner con il faccione di Marx disegnato da Pietro Perotti in simbolica simmetria con le madonne degli operai polacchi ai cantieri Lenin, e poi, a poco a poco, le baracchette in legno, il falò notturno, i turni di guardia: un grande anello multicolore, a segnare un confine, e un residuo tentativo di possesso.
Da fuori, la fabbrica a cui si erano abbarbicati, sembrava sempre la stessa: immensa, possente, ingovernabile. Ma dentro - loro lo sapevano - era già cambiata. Alla lastroferratu-ra erano arrivati in forza i robot, a sostituire il lavoro bestiale alle saldatrici, ma anche a fiaccare il potere contrattuale dei «terzo livello». Alle meccaniche, i robo-carrier fruscianti del Lam (Lavorazione Asincrona Motori) avevano reso fluida la produzione prima costretta dalle rigide sequenze fisse delle vecchie linee di montaggio, mettendo fuori gioco le sperimentate forme di lotta operaia. Al posto della mitica Officina 32, infine, alla confluenza tra il flusso delle Meccaniche e quello della Carrozzeria, ora c'era il Digitron, monumento tecnologico informatizzato che cancellava d'un colpo fatica e potere delle squadre che prima, alle «fosse», lavorando a braccia alzate otto ore al giorno, controllavano ben due sezioni su tre di Mirafiori. La rivoluzione tecnico-organizzativa che stava ponendo fine al «fordismo» lavorava contro di loro. Dissolveva la loro «centralità». Annientava il loro potere di controllo e di contrasto. Separava, impietosamente, le loro vite individuali e la vicenda collettiva. Il «Lavoro» e la «Storia».
Ora, in quel tardo pomeriggio del 16 ottobre, sotto una pioggia sottile che per la prima volta da 35 giorni aveva incominciato a cadere, i protagonisti di quella lotta se ne uscivano dalla porta tre: Giovanni Falcone, Norcia, Canu, Luciano. Spaesati, incerti come mai prima. Avevano vinto l'assemblea, ma non sapevano più come mettere a frutto quella loro espressa volontà, con chi condividerla, anche solo come farla conoscere, in una cronaca che già procedeva oltre. Un piccolo corteo rabbioso, sfrangiato, velleitario, marcia sulla V Lega FLM, l'ultimo residuo della grande stagione operaia alla Fiat, ma su corso Unione sovietica si perde, ingoiato dal traffico sparisce in una città già fattasi anonima. Gli eroi del domani, sono gli altri: i «quarantamila» che due giorni prima si sono ripresi Torino. I capi, i quadri intermedi, gli impiegati e i rispettivi «clientes» che in un giorno hanno cancellato la memoria di un decennio. Saranno loro, il simbolo del lavoro senza soggettività - del lavoro assoggettato e sciolto senza residui nella logica d'impresa - i portatori del nuovo «spirito del tempo», che dominerà il decennio successivo.

Fiat Lingotto - gennaio 2003
Giovanni Agnelli, il fondatore
Il 25 gennaio del 2003 una folla scura, informe, riempie gli spazi ormai privi di funzioni produttive del Lingotto. Occupa le volute della rampa elicoidale Nord progettata tra il 1915 e il 1922 da Giacomo Matté Trucco come esempio di modernismo architettonico razionalistico. Sbocca in cima, di fianco all'anello soprelevato della pista di prova, dove un tempo sfrecciavano, a venti metri da terra, le auto sfornate dalle catene di montaggio sottostanti. Si ferma in umile attesa davanti al cenotafio che su quel tetto del mondo l'ultimo capo di quella dinastia industriale aveva voluto per ospitare la propria pinacoteca e che ospitava ora le sue spoglie. E' forse l'ultima occasione pubblica, quel funerale di Agnelli, per le varie generazioni di lavoratori che si sono succedute in Fiat, per ritrovarsi nel saluto a «lui», il padrone che se ne va dopo aver fatto in tempo a intravvedere la fine della propria epoca.
La gente sale lenta, silenziosa, con un rumore sordo di passi strascicati, e sembra una cerimonia di altri tempi, da corte sabauda settecentesca, quando il Piemonte era una marca di confine militare e bigotta, o da borgo meridionale negli anni cinquanta o sessanta, quando ancora il notabilato locale non era stato sfidato dal potere mediatico della televisione, e comandava sui corpi e sulle anime. Non ci sono i simboli del lavoro, né le insegne degli stabilimenti, che appena quindici anni prima avrebbero dominato la scena. Non ci sono neppure reparti produttivi schierati né rappresentanze aziendali, e tantomeno gente in tuta (quelle tute che, come il camice per i medici, erano state per un'intera epoca il segno di distinzione per eccellenza nella metropoli di produzione). Solo un'unica, indifferenziata, folla in cui l'operaio si confonde con il pensionato, il bottegaio, l'impiegato pubblico, la casalinga. E un unico stato d'animo condiviso: la sensazione di spaesamento di chi, in una cerimonia pubblica, avverte di celebrare, nel contempo, anche un po' la propria estinzione. E a che, nel vuoto del «potere» che fino a ieri l'aveva dominato e costretto, finisce per dissolversi anche il residuo della propria identità. Il senso del proprio essere collettivo.
Sto a guardarla per l'intera mattinata, quella sfilata di volti e abiti indifferenziati, senza appartenenza sociale, cercando invano di ritrovare almeno un segno delle passioni pur spente, la traccia della forza e delle distinzioni di ieri. E mi chiedo se questo sia il prodotto della lunga parentesi industriale torinese: questo corpo sociale disossato, informe, nel momento in cui i contenitori metallici di quella forza-lavoro massificata si sono aperti, trasformati rapidamente in rugginosi «vuoti industriali», e hanno sversato fuori il proprio contenuto umano, senza più forma e tenuta. Questo mondo afono. Privo di racconto autonomo. Senza una storia propria, che non si confonda e assimili a quella del «potere» aziendale che ha usato le vite di tutti, e se le è portate con sé. Che non si esprima nel motto monotono e monocorde che diede il titolo a tanti articoli di quotidiani: «Grazie Avvocato». Questo «tutto» che torna ad essere «nulla», nella sfera pubblica de-socializzata del nuovo secolo.
Se lo si guarda con freddezza, resistendo alla tentazione degli affetti, questo popolo sbandato - questi operai senza fabbrica - si ha la misura di quanto sia stato breve, compresso ed esasperato, il ciclo del fordismo italiano - finito, in pratica, quando nella coscienza dei suoi protagonisti stava appena incominciando -, troppo rapido e violento per poter sedimentare coscienza e organizzazione. Per poter diventare «forma sociale». E d'altra parte quanto sia stato devastante, e sconsiderato, il vuoto di memoria che tutti i «responsabili» di quella vicenda - dalle organizzazioni sindacali ai cosiddetti «partiti operai», a noi stessi, che in quell'esperienza sociale eravamo nati alla politica - hanno lasciato crescere, per opportunismo, per stanchezza, per disattenzione, o soltanto perché il tempo è corso veloce, fino a lasciargli ingoiare quella storia e a sommergerla del tutto.
Allora, subito dopo la sconfitta dell'autunno Ottanta, in molti pensarono di potersi liberare tranquillamente di quell'esperienza, come fosse una zavorra che minacciava di tirare a fondo le strutture organizzative residue del Sindacato e del Partito comunista. Per lungo tempo, quella di quella lotta fu considerata una «memoria maledetta», i suoi protagonisti guardati come malati contagiosi, i valori «ribelli» di quella generazione che aveva osato rompere cosi frontalmente l'ordine produttivo messi fuori corso come se da essi fosse dipesa la catastrofe che ne segui. Oggi, ci si accorge che nessuno si è salvato da quella damnatio memoriae. E che l'angolo cieco in cui è finita la sinistra - tutte le sinistre del nuovo secolo - è anche in buona misura il frutto avvelenato di quella deliberata amnesia. Della rimozione, per via burocratica, di quello che resta uno dei pochi esempi di liberazione sociale di massa - di riconquista della propria autonomia individuale e collettiva da parte del lavoro della modernità compiuta -, capace di parlare, se avesse voce, al disagio esistenziale e politico del nostro cattivo presente.

autunno caldo Supplemento al quotidiano “il manifesto” - Novembre 2009

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