Fiat Mirafiori -
autunno 1969
«Siamo partiti il 2
settembre. Nel giro di pochi minuti la lotta s'innescò nella nostra
squadra e si trasmise a tutta l'officina: 3.000 operai sui tre turni,
e tutti e 3.000 si fermarono. Ricordo che avevamo concordato con la
mia squadra, che era un punto di riferimento per tutta l'officina, di
fermarci alle dieci. Già alle dieci meno dieci tutti guardavano la
mia squadra. E tutta la mia squadra guardava me.
Io imperturbabile
continuavo a lavorare. Lavorai fino alle dieci esatte, poi spensi il
cannello e uscii in mezzo al corridoio. Di fianco a me c'erano le
piccole presse che battevano le valvoline. Più lontano si sentiva il
rumore dei torni e sul fondo il soffio dei forni. Fu una cosa
impressionante: appena uscii nel corridoio partì un fischio, e
incominciarono a fermarsi le piccole presse. Poi si arrestarono i
torni, seguiti a breve distanza dai forni. A poco a poco tutto,
tutto, tutto si spegneva. In capo a qualche minuto l'intera officina
era silenziosa. E ognuno seduto al proprio posto di lavoro. Nei
settori più lontani non sapevano neanche perché si erano fermati;
avevano spento le macchine perché se le avevamo spente noi voleva
dire che c'era un motivo. Seduti tutti quanti al nostro posto
aspettammo».
«Di lì a un paio d'ore
- continua il racconto - arrivò la Commissione Interna. Volevano che
riprendessimo il lavoro. Ci fu un'assemblea su in mensa: c'erano due
tavoli, su un tavolo io da solo, sull'altro si alternavano i vari
membri della CI. E si andò avanti per diverse ore in un
contraddittorio, con loro che parlavano del contratto, e io che
sostenevo le 100 lire e le 36 ore. Quello che conquistò tutta
l'officina era proprio il calore, la passione, l'aggressività con
cui mettevo in difficoltà l'altra parte. Fu a questo punto che si
inserì Agnelli con le 30.000 sospensioni, già il secondo giorno,
per drammatizzare la situazione. E per dimostrare, proprio perché si
era alla vigilia delle trattative per il contratto, che in una
situazione come la Fiat il sindacato non controllava i lavoratori. Il
fatto ebbe una risonanza che sorprese tutti quanti noi, me compreso,
facendomi sentire proprio schiacciato dal peso di questa
responsabilità: inviati speciali dai giornali italiani, addirittura
corrispondenti di giornali stranieri, c'era una folla enorme di
cronisti, di giornalisti fuori dalle porte 31 e 32. Mentre fino ad
allora “la Stampa” di Torino aveva taciuto tutto, ora dedicava
l'intera prima pagina. Continuammo fino al 7 settembre. Io fui
l'ultimo a riprendere il lavoro. Il giorno dopo iniziarono gli
scioperi contrattuali».
Così Gerolamo racconta
l'inizio dello sciopero selvaggio dell'Officina 32, alla Fiat
Mirafiori - un luogo strategico dello spazio produttivo Fiat, posta
alla confluenza tra le Meccaniche e la Carrozzeria, dove se la
produzione si ferma, si blocca l'intero stabilimento -, quando di
fatto iniziò, prima della scadenza ufficiale, l'autunno caldo.
Gerolamo aveva allora poco più di vent'anni, e veniva da
Grottaminarda, da un'estrema periferia del sud, come quasi tutti i
suoi compagni. Come Pino, di qualche anno più anziano (aveva allora
26 anni), proveniente da un paesino vicino a Messina, arrivato a
Torino, a Porta Nuova, una mattina di novembre del 1961, alle 7,
direttamente da Messina, «con due valigie e nessun indirizzo»
(«quando mi affacciai fuori, non vidi nulla - ricorderà -. Solo un
muro grigio e umido. Sentivo i rumori della città, la potevo
immaginare, ma non la vedevo. Prima, non sapevo neanche cosa fosse la
nebbia»). Come Dario, che veniva da Lucera («A Lucera non si viveva
male. Severo, il fratello più grande, aveva ordine da mio padre di
fare il fuoco per la cena, e organizzava i più piccoli alla ricerca
di legna secca, della paglia, e intanto preparava le pietre per il
fornello. Ma da anni la gente partiva, per Milano, per Torino, per la
Germania...»). Come Salvatore, Robi, Rino detto «Zorro», Gaetano,
Antonio.
I più anziani avevano
alle spalle l'esperienza dell'emigrazione in Francia, in Belgio, in
Germania. Gli altri venivano direttamente dalle campagne meridionali
(il 37% dalle Puglie, il 23% dalla Sicilia, il 13% dalla Calabria, il
10% dalla Campania), la maggioranza con poco più di vent'anni,
nessuno al di sopra dei trenta. Un esercito di giovani, tutti con la
stessa rabbia da sradicamento dentro. E tutti con la stessa direzione
di movimento: dalla periferia al centro, dalla marginalità al
protagonismo, dall'esclusione al «potere» sociale. La sera che
occuparono Mirafiori, alla fine di novembre, quando li vidi nella
penombra nebbiosa di Corso Agnelli, ai cancelli delle Carrozzerie, mi
sembrarono dei giganti. Era come se tutta la potenza delle macchine e
degli impianti di quell'immensa fabbrica che li aveva ingoiati e
oppressi fino a ieri, gli fosse entrata dentro.
Erano lì, nel cuore del
mondo, in uno stabilimento che era come una città, con i suoi 50.000
e più addetti, i suoi tre milioni e mezzo di metri quadri di
superficie, le sue catene di montaggio e le sue fucine, le sue presse
e i suoi convogliatori meccanici; in una fabbrica che faceva andare
avanti il Paese. E potevano, a loro volontà, «fermare il mondo».
Potevano, vincendo la divisione e la paura, in un'azione collettiva,
fermare il Paese. Alle loro spalle, nel buio, la fabbrica faceva
sentire un ronzio profondo, quasi un bramito d'animale, il rumore di
una forza trattenuta e irresistibile, ed era come se quella fosse
diventata la loro voce.
Erano l'incarnazione del
lavoro vivo che si nega, nella sua soggettività, al comando e
diventa protagonista per sé, incorporandosi tutta la forza
dell'«altro», del lavoro morto trattenuto in quelle macchine ora
ferme per loro volontà. Da allora, ogni volta che ascolto le parole
dell'Internazionale, «Nous ne sommes rien, nous serons tout»
non posso non pensare a loro in quel momento, in bilico tra le
promesse degli anni sessanta e la durezza del decennio successivo.
Fiat Mirafiori -
autunno 1980
Il pomeriggio del 16
ottobre dell'80 il primo che mi si fece incontro alla porta 3 di
Mirafiori - la stessa da cui avevo sbirciato poco più di dieci anni
prima - fu uno di essi, Angelo: «Noi siamo come i dinosauri - mi
disse -, una razza in estinzione». E intendeva «noi operai».
Quegli operai lì, come li avevamo conosciuti al colmo della loro
parabola sociale. Dentro si era appena conclusa un'assemblea
travagliata, sull'ipotesi d'accordo che avrebbe chiuso l'epica
vicenda dei «35 giorni della Fiat». Il No aveva prevalso
plebiscitariamente. Come d'altra parte al mattino, quando in
un'affollatissima assemblea del primo turno, nello spiazzo delle
Meccaniche, in migliaia avevano alzato la mano alla richiesta «Chi è
contrario?», ma il funzionario sindacale che gestiva le cose aveva
proclamato: «Approvato a grande maggioranza». E già al
telegiornale dell'una le Segreterie nazionali sindacali, Lama,
Carniti, Benvenuto in coro unanime, avevano fatto sapere che
l'accordo era cosa fatta.
Per trentacinque giorni,
dall'inizio di settembre quando era arrivato l'annuncio dei
licenziamenti, avevano circondato Mirafiori, in tutti gli 11
chilometri del suo infinito perimetro, con i propri presidii. Per
ognuna delle 33 porte un gruppo, con i suoi simboli, le sue bandiere,
i grandi banner con il faccione di Marx disegnato da Pietro Perotti
in simbolica simmetria con le madonne degli operai polacchi ai
cantieri Lenin, e poi, a poco a poco, le baracchette in legno, il
falò notturno, i turni di guardia: un grande anello multicolore, a
segnare un confine, e un residuo tentativo di possesso.
Da fuori, la fabbrica a
cui si erano abbarbicati, sembrava sempre la stessa: immensa,
possente, ingovernabile. Ma dentro - loro lo sapevano - era già
cambiata. Alla lastroferratu-ra erano arrivati in forza i robot, a
sostituire il lavoro bestiale alle saldatrici, ma anche a fiaccare il
potere contrattuale dei «terzo livello». Alle meccaniche, i
robo-carrier fruscianti del Lam (Lavorazione Asincrona Motori)
avevano reso fluida la produzione prima costretta dalle rigide
sequenze fisse delle vecchie linee di montaggio, mettendo fuori gioco
le sperimentate forme di lotta operaia. Al posto della mitica
Officina 32, infine, alla confluenza tra il flusso delle Meccaniche e
quello della Carrozzeria, ora c'era il Digitron, monumento
tecnologico informatizzato che cancellava d'un colpo fatica e potere
delle squadre che prima, alle «fosse», lavorando a braccia alzate
otto ore al giorno, controllavano ben due sezioni su tre di
Mirafiori. La rivoluzione tecnico-organizzativa che stava ponendo
fine al «fordismo» lavorava contro di loro. Dissolveva la loro
«centralità». Annientava il loro potere di controllo e di
contrasto. Separava, impietosamente, le loro vite individuali e la
vicenda collettiva. Il «Lavoro» e la «Storia».
Ora, in quel tardo
pomeriggio del 16 ottobre, sotto una pioggia sottile che per la prima
volta da 35 giorni aveva incominciato a cadere, i protagonisti di
quella lotta se ne uscivano dalla porta tre: Giovanni Falcone,
Norcia, Canu, Luciano. Spaesati, incerti come mai prima. Avevano
vinto l'assemblea, ma non sapevano più come mettere a frutto quella
loro espressa volontà, con chi condividerla, anche solo come farla
conoscere, in una cronaca che già procedeva oltre. Un piccolo corteo
rabbioso, sfrangiato, velleitario, marcia sulla V Lega FLM, l'ultimo
residuo della grande stagione operaia alla Fiat, ma su corso Unione
sovietica si perde, ingoiato dal traffico sparisce in una città già
fattasi anonima. Gli eroi del domani, sono gli altri: i
«quarantamila» che due giorni prima si sono ripresi Torino. I capi,
i quadri intermedi, gli impiegati e i rispettivi «clientes» che in
un giorno hanno cancellato la memoria di un decennio. Saranno loro,
il simbolo del lavoro senza soggettività - del lavoro assoggettato e
sciolto senza residui nella logica d'impresa - i portatori del nuovo
«spirito del tempo», che dominerà il decennio successivo.
Fiat Lingotto -
gennaio 2003
Giovanni Agnelli, il fondatore |
Il 25 gennaio del 2003
una folla scura, informe, riempie gli spazi ormai privi di funzioni
produttive del Lingotto. Occupa le volute della rampa elicoidale Nord
progettata tra il 1915 e il 1922 da Giacomo Matté Trucco come
esempio di modernismo architettonico razionalistico. Sbocca in cima,
di fianco all'anello soprelevato della pista di prova, dove un tempo
sfrecciavano, a venti metri da terra, le auto sfornate dalle catene
di montaggio sottostanti. Si ferma in umile attesa davanti al
cenotafio che su quel tetto del mondo l'ultimo capo di quella
dinastia industriale aveva voluto per ospitare la propria pinacoteca
e che ospitava ora le sue spoglie. E' forse l'ultima occasione
pubblica, quel funerale di Agnelli, per le varie generazioni di
lavoratori che si sono succedute in Fiat, per ritrovarsi nel saluto a
«lui», il padrone che se ne va dopo aver fatto in tempo a
intravvedere la fine della propria epoca.
La gente sale lenta,
silenziosa, con un rumore sordo di passi strascicati, e sembra una
cerimonia di altri tempi, da corte sabauda settecentesca, quando il
Piemonte era una marca di confine militare e bigotta, o da borgo
meridionale negli anni cinquanta o sessanta, quando ancora il
notabilato locale non era stato sfidato dal potere mediatico della
televisione, e comandava sui corpi e sulle anime. Non ci sono i
simboli del lavoro, né le insegne degli stabilimenti, che appena
quindici anni prima avrebbero dominato la scena. Non ci sono neppure
reparti produttivi schierati né rappresentanze aziendali, e
tantomeno gente in tuta (quelle tute che, come il camice per i
medici, erano state per un'intera epoca il segno di distinzione per
eccellenza nella metropoli di produzione). Solo un'unica,
indifferenziata, folla in cui l'operaio si confonde con il
pensionato, il bottegaio, l'impiegato pubblico, la casalinga. E un
unico stato d'animo condiviso: la sensazione di spaesamento di chi,
in una cerimonia pubblica, avverte di celebrare, nel contempo, anche
un po' la propria estinzione. E a che, nel vuoto del «potere» che
fino a ieri l'aveva dominato e costretto, finisce per dissolversi
anche il residuo della propria identità. Il senso del proprio essere
collettivo.
Sto a guardarla per
l'intera mattinata, quella sfilata di volti e abiti indifferenziati,
senza appartenenza sociale, cercando invano di ritrovare almeno un
segno delle passioni pur spente, la traccia della forza e delle
distinzioni di ieri. E mi chiedo se questo sia il prodotto della
lunga parentesi industriale torinese: questo corpo sociale disossato,
informe, nel momento in cui i contenitori metallici di quella
forza-lavoro massificata si sono aperti, trasformati rapidamente in
rugginosi «vuoti industriali», e hanno sversato fuori il proprio
contenuto umano, senza più forma e tenuta. Questo mondo afono. Privo
di racconto autonomo. Senza una storia propria, che non si confonda e
assimili a quella del «potere» aziendale che ha usato le vite di
tutti, e se le è portate con sé. Che non si esprima nel motto
monotono e monocorde che diede il titolo a tanti articoli di
quotidiani: «Grazie Avvocato». Questo «tutto» che torna ad essere
«nulla», nella sfera pubblica de-socializzata del nuovo secolo.
Se lo si guarda con
freddezza, resistendo alla tentazione degli affetti, questo popolo
sbandato - questi operai senza fabbrica - si ha la misura di quanto
sia stato breve, compresso ed esasperato, il ciclo del fordismo
italiano - finito, in pratica, quando nella coscienza dei suoi
protagonisti stava appena incominciando -, troppo rapido e violento
per poter sedimentare coscienza e organizzazione. Per poter diventare
«forma sociale». E d'altra parte quanto sia stato devastante, e
sconsiderato, il vuoto di memoria che tutti i «responsabili» di
quella vicenda - dalle organizzazioni sindacali ai cosiddetti
«partiti operai», a noi stessi, che in quell'esperienza sociale
eravamo nati alla politica - hanno lasciato crescere, per
opportunismo, per stanchezza, per disattenzione, o soltanto perché
il tempo è corso veloce, fino a lasciargli ingoiare quella storia e
a sommergerla del tutto.
Allora, subito dopo la
sconfitta dell'autunno Ottanta, in molti pensarono di potersi
liberare tranquillamente di quell'esperienza, come fosse una zavorra
che minacciava di tirare a fondo le strutture organizzative residue
del Sindacato e del Partito comunista. Per lungo tempo, quella di
quella lotta fu considerata una «memoria maledetta», i suoi
protagonisti guardati come malati contagiosi, i valori «ribelli» di
quella generazione che aveva osato rompere cosi frontalmente l'ordine
produttivo messi fuori corso come se da essi fosse dipesa la
catastrofe che ne segui. Oggi, ci si accorge che nessuno si è
salvato da quella damnatio memoriae. E che l'angolo cieco in cui è
finita la sinistra - tutte le sinistre del nuovo secolo - è anche in
buona misura il frutto avvelenato di quella deliberata amnesia. Della
rimozione, per via burocratica, di quello che resta uno dei pochi
esempi di liberazione sociale di massa - di riconquista della propria
autonomia individuale e collettiva da parte del lavoro della
modernità compiuta -, capace di parlare, se avesse voce, al disagio
esistenziale e politico del nostro cattivo presente.
autunno caldo
Supplemento al quotidiano “il manifesto” - Novembre 2009
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