La Ginevra del XVIII secolo in una stampa d'epoca |
Sono nato a Ginevra nel
1712, da Isaac Rousseau, cittadino, e da Suzanne Bernard, cittadina.
La divisione fra quindici figli d’un patrimonio men che mediocre
avendo ridotto a nulla o quasi la parte di mio padre, questi non
aveva per vivere che il suo mestiere di orologiaio, nel quale per la
verità eccelleva. Mia madre, figlia del ministro Bernard, era più
ricca: aveva onestà e bellezza, e mio padre non l’aveva ottenuta
senza difficoltà.
I loro amori avevano
avuto inizio quasi con le loro esistenze: già fra gli otto e i nove
anni andavano insieme ogni sera sulla Treille, a dieci anni non
potevano più staccarsi. La simpatia, l’armonia delle anime
approfondi il sentimento nato dall’abitudine. Entrambi, nati teneri
e sensibili, non aspettavano che il momento di scoprire in un altro
le stesse disposizioni o, meglio, quel momento attendeva loro; e
ciascuno dei due riversò il suo cuore nel primo che si aprì a
riceverlo. La sorte, che pareva opporsi alla loro passione, non fece
che ravvivarla.
Il giovane innamorato,
non potendo ottenere la sua donna, si struggeva di dolore: lei gli
consigliò di dimenticarla viaggiando. Egli viaggiò senza frutto, e
tornò più innamorato di prima. Ritrovò tenera e fedele la ragazza
che amava. Dopo simile prova, non restava che amarsi per la vita. Lo
giurarono, e il cielo benedì il loro giuramento.
Gabriel Bernard, fratello
di mia madre, s’innamorò di una sorella di mio padre. Ma la
condizione posta da lei fu che avrebbe sposato il fratello solo se
suo fratello ne avesse sposata la sorella. L’amore pose rimedio a
tutto, e i due matrimoni si celebrarono nello stesso giorno. Mio zio
materno era perciò marito di mia zia paterna, e i loro figli furono
doppiamente miei cugini germani. Ne nacque uno a entrambe le coppie
in capo a un anno. Poi bisognò ancora separarsi.
Mio zio Bernard era
ingegnere: andò a servire nell’Impero e in Ungheria agli ordini
del principe Eugenio. Si distinse nell’assedio e alla battaglia di
Belgrado. Mio padre, dopo la nascita del mio unico fratello, partì
per Costantinopoli, dov’era chiamato, e divenne orologiaio del
Serraglio. Mentre era lontano, la bellezza di mia madre, la sua
intelligenza, i suoi doni le attirarono vari omaggi. Il signor de La
Closure, residente di Francia, fu tra i più premurosi a
offrirgliene. La sua passione doveva essere ardente davvero, se
ancora trent’anni dopo l’ho visto commuoversi parlandomi di lei.
Per difendersi, mia madre aveva uno scudo più sicuro della virtù:
il suo tenero amore per il marito. Lo pregò di tornare: lui lasciò
tutto e rimpatriò. Fui io il triste frutto di quel ritorno. Nacqui,
dieci mesi dopo, debole e malaticcio; costai la vita a mia madre, e
la mia nascita fu la prima delle mie sventure.
Non ho mai saputo come
mio padre sopportò quella perdita, ma so che non se ne consolò mai.
Credeva di rivederla in me, senza poter dimenticare che gliel’avevo
tolta io: non mi abbracciò mai senza ch’io non sentissi dai suoi
sospiri, dai suoi abbracci convulsi, che un rimpianto amaro
s’insinuava nelle sue carezze: erano perciò anche più tenere.
Quando mi diceva: «Jean-Jacques, parliamo di tua madre», io gli
dicevo: «Ebbene, babbo, dunque ora piangeremo»; e bastava questa
parola a strappargli le lagrime. «Oh! - gemeva, - ridammela,
consolami di lei, colma il vuoto che mi ha lasciato nell’animo. Ti
amerei cosi se tu non fossi che mio figlio?» Quarant’anni dopo che
l’aveva perduta, egli mori fra le braccia di una seconda moglie, ma
col nome della prima sulle labbra e la sua immagine nel profondo del
cuore.
Tali furono gli autori
della mia vita. Di tutti i doni che il cielo aveva accordato loro, un
cuore sensibile è l’unico che essi mi trasmisero: ma esso aveva
fatto la loro felicità, e fu la fonte di tutte le mie sventure.
Da Le confessioni in
Scritti autobiografici,
a cura di Lionello Sozzi, Einaudi – Gallimard, Torino, 1997
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