10.7.18

In ricordo di un indisciplinato. Dido Sacchettoni e “quel ristorante del Ghetto col profumo della tolleranza” .


Su fb Vincenzo Vasile, di Dido Sacchettoni, il giornalista e scrittore anconetano che se ne è andato ieri, ha tracciato un ritratto breve, ma pieno di ammirazione, affetto e tristezza. Ne rammenta, insieme all'ironia, la coltivazione del dubbio. 
Cercando in rete mi sono imbattuto in questo pezzo che racconta luoghi e persone di Roma, un apologo tollerante e indisciplinato come il suo autore. Lo “posto” qui a memoria mia e di qualche altro. (S.L.L.)

In un ristorante chiamato "Yotvata", in piazza Cenci, c'è la cosa migliore del Ghetto, non è commestibile ma ha il profumo inestimabile della tolleranza tra fedi ed etnie diverse, ed è straordinario percepirlo proprio nel quartiere ebraico oppresso per secoli da sadici poteri, e poi proprio ora che religione e politica, stanno appiccando il fuoco al mondo. Càpito spesso al "Yotvata", che poi è il nome di un kibbutz e di una catena di ristoranti giù in Israele, dove la cucina è soltanto a base di pesce e latticini, spaghetti di magro, per esempio alla bottarga, e niente carne, tassativamente, neanche quella macellata kasher, cioè secondo le regole ebraiche. Il proprietario è un giovane corpulento, una faccia chiara e gentile, la kippah d'ordinanza degli ebrei ortodossi (mai capito come fanno a tenersi quella piccola cupola di panno sulla sommità del capo). Si chiama Marco Sedi. Il direttore, o piuttosto il factotum, avrà qualche anno di più, è magro come una carruba e d' un bruno olivastro, i suoi occhi color caffè sempre in movimento. Si chiama Raman Waheed, è egiziano del Cairo e musulmano praticante, vale a dire che crede in un Dio molto diverso da quello di Marco, anche se poi è forse lo stesso Dio e loro due più o meno lo sanno. In cucina, il cuoco e il suo aiuto sono cristiani di rito copto, egiziani anche loro e adesso aspettano un altro aiutante. «Che è un buddista» sorride Marco.
Quando ho saputo tutto questo mi sono detto: un giorno li metto insieme e li faccio parlare di Sharon, Arafat, missili su Gaza e kamikaze e Iraq, e vediamo cosa succede. L'ho fatto, ma ho soltanto sentito quel profumo che dicevo e non è volatile come quello d'un dopobarba. Oggi è venerdì, Yom shishì, il sesto giorno della settimana del mese di Ijàr, cioè maggio, dell'anno ebraico 5764. In via del Portico d'Ottavia i negozi stanno aprendo. La strada è lavata di fresco. È un mattino chiaro e pare che adesso il quartiere si meriti tutto l'azzurro opalescente del cielo romano dopo tutti quei secoli di interminabile tenebra. Decido di camminare un po' intorno, piazza Mattei, con la fontana delle Tartarughe, via della Reginella, il Portico d'Ottavia, il Foro Piscario coi suoi archi e le colonne mozze, ornamento archeologico del Ghetto perché gli ebrei cominciarono a stabilirsi a Roma ben 160 anni prima di Cristo. Ma anche ad aggirarsi tra i vicoli sembra sempre di imbatterti in fantasmi senza quiete. E infatti eccoli, me li ritrovo alle lapidi. "Largo 16 ottobre 1943", l' inizio dell'Olocausto per gli ebrei romani, 2091 deportati, sopravvissero soltanto 16 uomini e una donna, nessun bambino, e poi un'altra: "Non cominciarono neppure a vivere", in memoria dei neonati morti nei campi nazisti. Intorno c'è una gran quiete perché il traffico qui non arriva più, deviato per motivi di sicurezza. Il Ghetto s' è conquistato la sua pace, ma in Palestina il terrorismo e Sharon non si danno tregua, e il passato può sempre tornare sotto forma di attentati dalle tecniche imprevedibili.
I gabbiani risalgono dal Tevere e stridono e volano smemorati. In Sinagoga è cominciata la celebrazione del centenario dell'edificazione (1904). Adesso arrivo al museo ebraico annesso al Tempio, sul lungotevere de' Cenci, dove il traffico ti dimostra una volta di più che l'umanità anziché il senso del progresso nutre quello oscuro della regressione, a meno di voler chiamare progresso un inferno metallico del genere. Anna Bailer che raggiungo dopo cortesi, ma inesorabili controlli, dirige il museo storico dell'ebraismo. Mi guarda con diffidenza come temesse un travisamento indelicato della sue ortodossia nella futura stesura del mio racconto, o forse è la stessa diffidenza destinata ai goim cioè ai non ebrei. Ha capelli grigi, e molti nipoti, sorride, gli occhi d'un azzurro limpido ma coi bagliori del ghiaccio. Mi racconta subito molte cose. Per esempio delle Cinque Scòle, che erano un tempo nella piazza omonima poco distante, con la fontana di Giacomo della Porta, vale a dire le cinque Sinagoghe: tre serfardite (da Sefard, Spagna in ebraico) e due ashkenazite (da Ashkenaz, Germania) coi loro diversi riti religiosi. Sicché mi viene in mente un mio amico ebreo (credente per la verità) che una volta mi disse: da tre ebrei che discutono, saltano fuori almeno cinque o sei opinioni diverse e tutte attendibili. È la loro irrequietezza, disse lui. O la loro intelligenza, io dissi. Riferisco alla Bailer e lei mi fulmina: «Bisogna piantarla con questa storia dell'intelligenza ebraica. Noi siamo uguali a chiunque altro». «Be', d' accordo» le faccio, «ma per esempio c'è una sfilza di vostri musicisti, Rubinstein, Horowitz, Ashkenazi, Richter, Bernstein~» «Allora ci metta anche Mendelssohn, se è per questo» dice, forse in un involontario compiacimento, ma sempre con quegli occhi da laghi gelati. «Bene, e poi tutti quei vostri scrittori tipo Kafka e Proust, e Roth vari, e gli scienziati e tutta quella vostra lista di Nobel». «Questo è razzismo alla rovescia. La verità è che noi per vivere non potevamo far altro che commerciare e studiare». Taglia e mi descrive i confini del quartiere, da ponte Fabricio che immette sull' isola Tiberina, a via Arenula e le Botteghe Oscure, e i vicoli e le stradine in questo perimetro che il Tevere a volte inondava perché non c' erano argini. Mi dice di Papa Paolo IV Carafa, cioè il creatore del Ghetto, nel 1555, spietato inquisitore di menti in cui cercava instancabilmente il virus dell'eresia. Mi guida per il museo, mi mostra i simboli della complicata ritualità ebraica, i rotoli della Torà, gli scritti sacri consegnati dal Padreterno a Mosé. Sono avvolti in una specie di mattarello legno e vengono poi sistemati per le funzioni in addobbi sontuosi di damasco ("la regalità della legge", mi precisa), suddivisi in 54 sezioni che vengono lette una a settimana, per la lettura completa occorre un anno. Mi parla della Genesi, dell' Esodo, del Levitico e la mia limitata mente laica comincia ronzarmi stordita.
Fortuna che in quel momento entra una bionda bellezza americana, e comincia ad aggirarsi tra le teche in cui sono esposti libri, documenti, memorie. All'improvviso s'avvicina alla signora Bailer e le chiede di un libro tutto sforacchiato. Conversazione in un inglese eccellente. «Chi è il signor Musante?» fa la ragazza, «e cos'è quel libro?» «Be', ha salvato la vita al signor Musante». «Come può un libro salvare la vita a un uomo?» la ragazza chiede «Lo aveva nella tasca interna, proprio sul cuore. È un libro di precetti religiosi. Lui usciva dalla sinagoga. Era il primo ottobre dell' 82, quando quelli dell'Olp cominciarono con le raffiche». La Bailer si rivolge a me: «Lei ricorderà». Certo che ricordavo, un bambino di due anni ucciso e una trentina di feriti, poteva essere una strage. «E cosa sono quei fori sul libro?» di nuovo chiede la ragazza. «Pallottole» dice la Bailer. «Quattro, come vede». «Ma questo è un miracolo». «No, miss, è solo un libro con la copertina di pelle molto spessa». Nella signora Bailer una specie di ironia laica che non le sospettavo. La bionda bellezza se ne va.
La Bailer ricomincia ad erudirmi. M'informa che adesso la comunità ebraica romana è piuttosto prospera, 16 mila aderenti, e il buio sembra passato. Un giorno di quelli, pranzo al Yotvata, e con Marco e Waheed e gli altri porto il discorso sul medioriente, il muro di Sharon, i kamikaze e il resto. Waheed dice che lui frullerebbe tutti in un tritacarne fino a quando non uscissero polpette inoffensive. L'ebreo Marco annuisce senza fiatare. Al tavolo accanto c'è un giovane rabbino, si chiama Goldstein, e gli ho chiesto cosa ne pensasse. Sorride ed elude. Allora, tanto per dire, gli chiedo perché per gli ebrei corresse l'anno 5764. «Ma è l'anno della creazione del mondo» di nuovo sorride. «E il vecchio Darwin? Non discendiamo da rispettabili scimmie?» Lui allarga le braccia come a dirmi che sarebbe troppo lungo spiegare.
Ma quel giorno avevo un'ultima curiosità, e gli chiedo perché gli ebrei depongano sassi sulle tombe dei loro morti. La pietra, dice, dà il senso dell' indistruttibilità, è il segno del ricordo perpetuo per i defunti. Finalmente sapevo, gli faccio, perché qualcuno m'ha detto una volta che andando da mia madre, nel cimitero israelitico di Ancona dove lei aveva voluto essere sepolta, accanto ai suoi, dovevo lasciare qualche sasso sulla sua tomba. Lui mi guarda in uno strano stupore. «Allora lei è ebreo». «Si, ma teologicamente molto indisciplinato». E gli dico anche che Dio, durante l'Olocausto e gli orrori di ogni tempo, si è ritirato, come ha scritto George Steiner, grande intellettuale ebreo, in qualche abisso insondabile del suo creato.

“la Repubblica, 29 maggio 2004

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