11.7.18

Parola di luogo: la casa stregata. Horror nel salotto (Andrea Colombo)


I fantasmi amano le case. In virtù della loro immateriale struttura, forti di una gamma variegata e mutevole di notturni poteri, potrebbero tranquillamente scorrazzare per strade e vicoli, infestare piazze, parchi e musei. Invece, senza alcun dubbio, preferiscono l’anonimato ingannevole delle comuni dimore, occultano volentieri le loro micidiali trappole nelle ombre dei solai e delle cantine, sdegnando l’aria aperta.
Il timore superstizioso che circonda le tenebre del cimitero è privo di fondamento. La minaccia si annida astutamente dove meno la si aspetta, in quella casa che sappiamo rappresentare una chiara proiezione dell’Io, fra le mura che dovrebbero marcare confini invalicabili e dividere il regno dell’incertezza e del pericolo sempre in agguato da quello della rassicurazione e del controllo sull’ambiente circostante. Sincerarsene non è difficile. Basta accendere la televisione, preferibilmente in ora tarda, per imbattersi con eloquente frequenza in villette suburbane che celano dietro una facciata ridente la propria sinistra realtà, o, al contrario, in architetture gotiche che dichiarano subito quanto sconsigliabile sia il frequentarle.
Non è tutto: la haunted house, la casa stregata o maledetta, è forse il luogo dell’horror meno toccato dal sovvertimento introdotto venti anni fa da George Romero con la sua Notte dei morti viventi e portato poi alle sue estreme conseguenze nei romanzi di Stephen King e Peter Straub. A prima vista, la casa infestata segna un’inconsueta linea di continuità attraverso l’immaginario maledetto.
Se prendiamo una delle prime grandi ghost stories moderne, Il giro di vite di Henry James, troviamo tutti i tratti principali poi puntualmente ripresi e rielaborati nella letteratura spettrale centrata intorno alla casa. Una quasi idillica apparenza scossa in crescendo da segni, prima impercettibili poi sempre più invadenti, di una presenza estranea, disomogenea e distruttiva. Il radicamento della maledizione in un avvenimento passato, il suo carattere di proiezione cronologica: passioni, delitti e orrori, proprio per la loro forza emotiva, non si lasciano cancellare dal trascorrere del tempo, sfidano le barriere della morte e degli anni, si ostinano a condizionare la vita di chi si imbatte nelle loro invisibili tracce.
L’ambiguità, infine, tra orrori naturali e sovrannaturali: se a provocare la tragedia, nel Giro di vite, siano davvero i fantasmi dei due tragici amanti morti poco prima dell’inizio del libro o se, invece, sia solo la follia della benintenzionata istitutrice a dare presenza agli spettri fino a provocare il disastro, resta incerto. James non si preoccupa di sciogliere l'enigma, ma in ogni caso è certo che fuori da quella casa, senza i ricordi di cui sono piene quelle stanze e quei corridoi, niente succederebbe.
Non diversamente, un secolo più tardi, in Shining, variante sul tema di Stephen King (qui si tratta infatti un albergo maledetto, abitato però da una sola famiglia, in modo da ripristinare il modello originale), il passato proietterà la sua ombra sulla vicenda in due modi distinti e complementari. Da un lato la biografia del protagonista Jack, l’infanzia rimossa e passata con un padre pazzo e violento, condizionerà, una volta eliminata la rimozione, ogni suo gesto. Dall’altro l’albergo stesso, dove ogni stanza è stata testimone di atrocità, è marchiato dalla sua stessa storia. L’orrore - il tentativo di Jack di assassinare moglie e figlio, forse ancora di più il progressivo sostituirsi della personalità del padre alla sua - conseguono direttamente dal corto circuito tra il passato del protagonista e quello dell’albergo che lo ospita.
King, come James prima di lui, sa perfettamente che il vero orrore non va cercato oltre le dimensioni del terreno, perché è ben radicato nella realtà di ogni giorno: nelle fobie e nelle frustrazioni della istitutrice vittoriana di James, nella brutalità ottusa di un padre folle, che peserà inevitabilmente ma ingiustamente sulla vita del figlio, in King. Diversa è solo la formula con cui i due arrivano al medesimo risultato.
Per James la chiave è l’ambiguità, facilitata dalle sue ricerche stilistiche sul «punto di vista», il lasciare aperte varie interpretazioni. Per King, che a prima vista sembra voler esplicitare tutto, compiacendosi anzi negli effetti granguignoleschi, il trucco consiste invece nel far derivare il sovrannaturale direttamente dalla normalità, in modo che il primo sia insieme conseguenza e proiezione macroscopica della seconda.
E il modello non è dissimile, anche se mefio studiato e perfezionato, in decine di altri esempi possibili.
Nel film di Spielberg e Hooper Poltergeist, dove è la profanazione di un cimitero indiano l’antica colpa da cui deriverà l’incantesimo maligno che grava sulla linda casetta middle-class della famiglia protagonista. Nel romanzo di Peter Straub La casa dei fantasmi, un omicidio commesso in gioventù da tre dignitosi e ormai attempati signori, è la porta per cui passa una vera e propria invasione di fantasmi. La casa è qui quasi un fortilizio avanzato, una testa di ponte, come già nel caso del primo Dracula, quello di Bram Stoker, in cui il trapasso dal gotico al moderno è illustrato con lo spostarsi del conte e delle sue bare-letto dal castello transilvano della prima parte alle case di Londra.
Ma se il modello inaugurato da James è di gran lunga il più frequentato e il più fertile, proprio in virtù della sua inesauribile capacità di rendere conto della quotidianità, un altro percorso, visionario e puramente delirante, corre al suo fianco.
Lo si può fare risalire a Poe, o più specificamente a Lovecraft. Nei lugubri racconti del solitario di Providence di case dannate ce ne sono alcune: da quella di La casa delle streghe allo studio-abitazione di Il modello di Pickman, in cui il geniale e maledetto pittore Pickmam trova nei mostri inimmaginabili che ne popolano le cantine i modelli adatti alla sua arte splendida e raccapricciante. Ma anche le streghe del primo racconto, così familiari nel New England che fa da sfondo a tutta l’opera di Lovecraft, sono in realtà la facciata paradossalmente rassicurante che copre ben altre nefandezze: quelle degli «altri dei», degli alieni dalle forme orride al di là di ogni immaginazione, del male assoluto rappresentato dalle varie divinità di provenienza ignota a cui è dedicata l’intera produzione matura dello scrittore di Providence.
Anche in questo caso, la formula ha subito poche variazioni negli ultimi deenni. Il modello di Pickman è una confessione, una chiave di lettura valida per l’intera opera di Lovecraft come per quella di tutti suoi epigoni: dal Sam Kaimi del ciclo cinematografico La casa allo Stuart Gordon di Reanimator e di From Beyond, per citare due autori recenti. In tutti questi casi, come per Pickman, la ricerca è puramente artistica, surreale e visionaria.
I mostri che escono a frotte dalla baracca di campagna della Casa 1 e 2 non possono spaventare, proprio perché sono eccessivi, proprio come i fantasmagorici mostri di Lovecraft, nel loro rutilante disgusto, non potrebbero mai inquietare e turbare con la stessa forza dell’allusivo James o del sociologico King. L’horror e qui puro espediente, e per questo la casa, anche quando sia posta al centro della narrazione, non arriva mai ad acquistare una sua identità forte, a farsi inanimata protagonista, come nello Shining di King o nelle infinite versioni letterarie e cinematografiche della mitica Hill House.
E, del resto, come evitare il parallelismo tra le tante case dove alligna una magica dannazione, e quelle in cui una disperazione non minore viene prodotta ogni giorno dai meccanismi patogeni della vita familiare: la casa del Family Life di Ken Loach, o quella agghiacciante del Diario di Edith nel bellissimo libro di Patricia Highsmith. Senza cercare troppo lontano, l’horror moderno continua a imbattersi nelle case, perché, anche nella realtà, esse rendono ancora conto dei massimi orrori della vita quotidiana.
Nello sconvolgimento che ha riscritto negli ultimi decenni i codici dell’horror, la casa ha dunque rappresentato un’area di persistenza e conservazione. La spiegazione va forse cercata nel suo aver costituito, fin dal secolo scorso, un luogo quanto mai moderno, nel suo aver segnato un momento di anticipazione rispetto al resto della topografia Spettrale
Fin dall’inizio, già con il gotico Dracula la collocazione delle forze del male nella borghesissima «abitazione» rompe con le regole imperanti dell'horror esotico e immaginifico. La rivoluzione di Romero e King, lo spiazzamento del mostruoso da una dimensione lontana ai percorsi della vita a ogni giorno, la sua ibridazione con l'analisi della contemporaneità e con l’abbraccio di vere e proprie istanze politiche, spesso molto radicali, è già tutta contenuta in potenza nell'emergere della dimora urbana o suburbana come sede propizia allo scatenarsi di forze e pulsioni segrete, quanto mai opposte rispetto a quella sbandierata e rispettabile tranquillità.

“il manifesto”, 31 agosto 1989

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