21.8.18

Milano. Addio Chinatown: l'ascesa della classe media cinese (Antonio Talia)


Reportage di un anno e mezzo fa, ma tuttora utile a capire i processi in atto sotto i nostri occhi, ormai non solo nelle grandi città ma anche in nelle piccole e medie. (S.L.L.)
Milano
Nelle pause tra i compiti, gli adolescenti che dalle tre alle sei di ogni pomeriggio affollano il Bubble Tea Bar di via Messina si lanciano in brevi partite di giochi da tavolo, oppure flirtano scattandosi selfie formato polaroid da appendere alle bacheche del locale con timidi messaggi di corteggiamento: cresciuti tra le vie del quartiere e la scuola italiana, le ambizioni dei genitori e l’ascesa di Pechino, sono tutti cinesi, sono tutti nati negli anni Zero, e sono in bilico tra identità multiformi.
«Prima di aprire il Bubble Tea Bar ho cambiato molti lavori, ho fatto il garzone nel negozio di casalinghi dei miei genitori, ho aperto un internet point, poi ho studiato da pasticcere. Cerco di tornare in Cina ogni anno e visitare sempre città diverse, così ho notato la moda del bubble tea e ho imparato a prepararlo», racconta Jack Zhao, proprietario del bar insieme alla moglie Susanna Yu. La Cina e Taiwan si contendono la paternità dell’invenzione del bubble tea, boba naicha, ma chiunque abbia ideato questa bibita a base di tè frullato con latte, frutta e palline di tapioca, ha lanciato un prodotto capace di trasformarsi in un frammento dell’identità di milioni di ragazzi asiatici, che lo consumano da Shanghai a San Francisco, non importa che parlino inglese, italiano o perfetto mandarino.
Jack, che vive a Milano da 20 anni e oggi ne ha 31, ha sfruttato l’opportunità: «Abbiamo aperto da un anno e per il momento le cose vanno bene», dice, «ma quando ci sarà troppa concorrenza cambieremo ancora». «Di sicuro le mie condizioni sono molto migliorate rispetto a quelle dei miei genitori» – aggiunge Jack, cittadino italiano da qualche mese – «e questo si vede anche da come spendo il mio tempo libero. Mi piace uscire con gli amici e giocare a basket, con Susanna viaggiamo un po’, mentre per la generazione di mio padre era impensabile anche solo avere un passatempo». Nonostante i suoi periodici viaggi in Cina, quando si è trattato di investire su una nuova attività Jack Zhao non ha avuto dubbi, e lo ha fatto in Italia: troppo saturo il mercato cinese, meglio puntare su una piazza che conosce già, anche se si trova a diecimila chilometri dalla città in cui è nato. «Vorrei che mio figlio tornasse in Cina, magari non per lavorare ma per conoscere le sue origini. Quando compirà 18 anni sceglierà lui se rimanere cittadino cinese o diventare italiano».

Dieci anni dopo
Via Messina è una traversa di via Paolo Sarpi e si trova a pochi passi da via Bramante, nel cuore di quella che anche Google Maps indica come la Chinatown di Milano, ma nel percorrerle entrambe la distanza che le separa diventa soprattutto temporale: di là, in via Bramante, una lunga fila di “affittasi” in caratteri cinesi piazzati sulle saracinesche abbassate segnala il declino del modello dei primi anni Duemila, rappresentato da import-export e negozietti di abbigliamento a basso costo; di qua, in via Messina, tra agenzie di comunicazione italo-cinesi, pasticcerie, fotografi specializzati in matrimoni, bubble tea bar e agenzie immobiliari e di viaggio per concedersi fine settimana in Provenza e vacanze sulle spiagge di Santorini, si assiste allo sviluppo di attività e idee nuove dirette a generazioni che hanno incrementato enormemente il loro potere d’acquisto, maturando consumi e codici a cavallo tra Asia, Europa e gusti globalizzati.
Sono passati 10 anni dalla cosiddetta “rivolta di Paolo Sarpi”, quando nell’aprile del 2007 oltre trecento cinesi affrontarono a muso duro la polizia municipale milanese per protestare contro multe e contravvenzioni, e se in mezzo c’è stata una pedonalizzazione che ha reso più difficile il continuo carico e scarico di merci, il fattore decisivo che ha cambiato il paesaggio urbano è di carattere puramente economico: l’ascesa di una vera classe media, che non ha più neanche timori a definirsi tale.
Chi è uscito dal quartiere e dai solchi tracciati da nonni, genitori e società italiana intorno, oggi sono i trenta-quarantenni capaci di inventarsi iniziative inedite come bar alla moda, una app per ordinare sushi e noodles on demand – con tempi di consegna fulminei come sashimi.com – saloni di bellezza à la page e persino una compagnia energetica. Gli uffici di China Power si trovano al settimo piano di un palazzo in zona Stazione Centrale, stretti tra il Pirellone e la Regione Lombardia: la società si è inserita nella liberalizzazione delle concessioni elettriche e oggi fornisce energia a centinaia di imprese cinesi presenti sul territorio italiano. Luca Sheng Sheng Song e Marco Jin, i due fondatori, descrivono la società come un’utility che in qualche modo fornisce anche un servizio di consulenza: sei un imprenditore cinese e non capisci nulla della tua bolletta? China Power ti fornisce una consulenza in mandarino per scegliere il profilo più adatto.

Management alla Bocconi
«Il mio percorso è abbastanza atipico rispetto a quello di altri cinesi», dice Luca Sheng Song, «perché sono arrivato in Italia a quattro anni, ho vissuto in diverse città toscane prima di arrivare a Milano, ho frequentato tutte le scuole italiane e mi sono laureato alla Bocconi in Management. Ho lavorato come consulente strategico presso la Value Partners e poi mi sono trovato con Marco per creare qualcosa che nasceva sia dalle competenze manageriali in grandi aziende che dal network che avevamo maturato nella nostra comunità. Alla fine ci siamo trovati a creare qualcosa che non esisteva, una società di energia “etnica”, la prima in Europa».
Marco Jin, invece, ha avuto una storia più tradizionale: «Anche io ho studiato in Italia ma prima mi sono dedicato ad attività come il confezionamento di maglioni o la stireria, poi ho avuto un negozio di scarpe e ho fatto un paio di anni di import-export classico. Poi ho lavorato nel settore delle sigarette elettroniche e alla fine con Sheng ci siamo trovati a pensare a qualcosa che mancava alla comunità. Ci riteniamo una società che favorisce l’integrazione: l’imprenditore che capisce meglio la sua bolletta è più portato a rimanere in Italia, e magari a reinvestire», spiega Luca Sheng Song, raccontando di operatori che passano anche ore a spiegare tariffe e conguagli.

Usano tutti WeChat
Tutti i servizi, inclusa la documentazione e perfino i pagamenti, passano attraverso WeChat, un’app cinese simile a un WhatsApp superpotenziato che è diventata l’assistente personale di centinaia e centinaia di milioni di persone, in Cina e all’estero. Secondo Marco Jin, il percorso della classe media cinese in Italia è quasi classico; la prima generazione vive solo per lavorare, la seconda inizia a concedersi maggiori piaceri e consumi, ma tra le due si sta anche inserendo un fenomeno nuovo: «C’è un enorme afflusso di studenti cinesi che sono già economicamente solidi, vengono a studiare in Italia e hanno notevoli capacità di spesa. Sono ventenni, ma entrano anche loro nella comunità e siamo tutti figli della Cina del benessere. Secondo me il potere d’acquisto si è almeno quadruplicato negli ultimi dieci, quindici anni».
Dopo un apprendistato nella bottega di pellame del padre e vari altri mestieri, Luca Hu ha scelto di ridefinire l’attività che aveva intrapreso: insieme al fratello gemello ha aperto in corso Garibaldi Chinese Box, ieri un classico baretto milanese, oggi un cocktail bar su due piani con pareti scure e lampadine art nouveau: «Ho riflettuto per anni sulla mia identità, poi mi sono detto: sono pragmatico, concreto, allora sono di destra. Poi è arrivato un mio dipendente, un barman italiano, e mi ha detto: “Tu sei il datore di lavoro più di sinistra che abbia mai avuto”. Sarà che non mi sono dimenticato come si confeziona una borsa», scherza.

Far meglio del padre
Secondo Luca l’ascesa dei cinesi di seconda o terza generazione non è solo una questione economica, ma di prestigio: «Noi non lavoriamo solo per i soldi, ma per l’immagine. Vogliamo far capire che siamo parte integrante di questo tessuto urbano che abitiamo da trent’anni. È inutile nascondersi dietro le quinte come hanno fatto i nostri genitori, perché poi non riesci ad approcciarti alla società. Un proverbio cinese dice “la casa è sempre più bassa della montagna”; significa che io sono tenuto a fare meglio di mio padre».
Francesco Zhou Fei invece vanta una storia a zig-zag, che può sembrare inusuale ma si inserisce pienamente nel flusso continuo di scambi interni alla comunità cinese tra Asia ed Europa: arrivato in Italia da bambino, si è laureato alla Bocconi e dopo un’esperienza lavorativa a Milano è sbarcato a Pechino con una specializzazione nella gestione del rischio crediti. «Lì sono diventato davvero biculturale, non solo sul piano della lingua o della vita di ogni giorno, ma soprattutto su quello del business. Adesso, dopo nove anni in Cina sono tornato a Milano: in un’epoca di acquisizioni cinesi in Italia voglio mettere a frutto questa mia doppia identità».
Zhou Lei è laureata in economia alla Cattolica e non esita un istante a definirsi classe media: «Tra me e i miei genitori non c’è una generazione di mezzo, ce ne sono almeno tre. Loro hanno vissuto la Cina della Rivoluzione Culturale e poi sono arrivati a Milano, è come passare direttamente dall’Italia fascista all’Italia del Duemila senza vivere quello che c’è stato nel mezzo. Io oggi ho una mia attività, ma faccio anche palestra, vado in piscina, pratico yoga e guido un’utilitaria». Dopo qualche anno come contabile, Lei ha aperto insieme alla cognata Chicchi un nail saloon dedicato a clientela ad alto reddito nella centralissima via Ariosto: «La cura delle mani è una pratica asiatica. Volevamo fare qualcosa di nuovo, diffondere una nostra tradizione ma attualizzandola, continuando a vivere e investire in Italia. Investire in Cina è ormai impossibile, ci vogliono cifre enormi, mentre il cambio yuan-euro ci ha avvantaggiato».
Come Lei sta adattando l’estetica cinese ai canoni occidentali, il marito Agie ha proiettato l’antica arte culinaria dei jiaozi, i ravioli, su uno scenario italiano. Dall’amicizia con Walter, macellaio milanese da due generazioni e pioniere dell’allevamento biodinamico, è nato un piccolo spazio di enorme successo: da due anni Ravioleria Sarpi ha cancellato l’immagine di unto così anni ’80 legata alla gastronomia da strada cinese, con cuochi e cuoche che cucinano il prodotto in vetrina direttamente davanti agli occhi dei clienti: «Sono arrivato in Italia da bambino e ho fatto varie cose, nell’informatica e nell’abbigliamento, lavorando da Canton. Ma l’idea di portare i veri jiaozi l’avevo in testa da sempre», racconta Agie. «È un alimento popolare, in Cina lo cucinano le nonne o lo gusti nei locali fatto al momento. Bisognava solo riportarlo agli ingredienti più genuini e farlo conoscere agli italiani, che sono così esigenti. Adesso abbiamo in testa altri investimenti».

Sogni globalizzati
Secondo la definizione classica del geografo americano Carl Sauer quello che chiamiamo “paesaggio culturale” è modellato da un gruppo culturale a partire dal paesaggio naturale: «La natura è il mezzo, la cultura è l’agente, il paesaggio culturale è il risultato finale». Seguendo questa definizione, pochi paesaggi culturali si sono mostrati plastici e innovativi come alcune Chinatown: da quel 12 aprile 2007 della “rivolta di Paolo Sarpi”, mentre una politica polverosa si accaniva intorno a definizioni obsolete come “seconda generazione” e dibattiti sulla cittadinanza, in quelle vie stava succedendo qualcosa il cui precipitato si è diffuso molto al di là del quartiere.
Identità ibride definite da tempi individuali iperaccelerati, capacità di adattamento: gli adolescenti del Bubble Tea Bar continuano a studiare in italiano e flirtare su WeChat in cinese, ammirano la moda coreana e inseguono sogni globali: non lo sanno ancora, ma tutti insieme sono già avanguardia e alcuni di loro diventeranno élite.

Pagina 99, 21 gennaio 2017

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