NEW YORK,10 gennaio
2016.
Non tanto per rispetto al
più grande scrittore vivente, quanto per il suo lucido parquet, a
casa di Philip Roth si entra senza scarpe. Non lo chiede in modo
esplicito, ma pare la cosa più indicata, in presenza del compìto
signore che viene ad aprire in calzerotti di lana, presumibilmente
antiscivolo. L'appartamento, nell'Upper West Side, è luminoso,
spoglio e quasi impersonale come quello di un giovane accademico.
Pochi mobili, un po' di design, nessun indizio di genio e
sregolatezza. Il genio, anzi, è molto ordinato. Il tappetino da
ginnastica davanti alla finestra del soggiorno non è lì per
sciatteria, ma perché è sempre a disposizione della malandata
schiena di Roth che, andando per i 77, da anni scrive un po' in
piedi, un po' seduto e un po' sdraiato per rabbonire le vertebre. La
cucina custodisce i suoi segreti, nel caso li abbia, dietro un
imperscrutabile nitore di legno chiaro. Ma questo è il pied-à-terre
dove lo scrittore viene a svernare, la sua vera casa è un un'antica
e isolata dimora nel Connecticut.
Roth si siede sulla sua
poltrona Eames, pezzo forte del Modernismo, e butta lì: «Di che
libro parliamo?».
Del trentesimo:
L'umiliazione.
«Me lo racconti un po',
ché ho finito di scrivere il trentunesimo e c'è rischio che faccia
confusione».
Di colpo, Simon,
grande attore teatrale, perde talento magia: a 65 anni, si ritira.
«Bell'idea. Vada
avanti».
Sprofonda nel dolore.
La moglie lo pianta: solo nella casa di campagna, non regge: va in
clinica a curarsi le tendenze suicide. Ne esce anche più depresso.
Ma poi incontra Pegeen, lesbica di quarant'anni che ha molto sofferto
perché la sua fidanzata l'ha lasciata per operarsi e diventare uomo.
Si innamora.
«La storia c'è».
Lei pare ricambiare. E
si rimette le gonne, che le regala lui.
«Ah, lui la
femminilizza».
Sì, ma poco dopo,
Pegeen, torna anche a infilarsi l'imbracatura che regge il dildo.
Verde.
«Mica male, come colpo
di scena».
Aspetti. Simon, per
compiacere i desideri birichini di Pegeen, rimorchia una donna al bar
e organizza un triangolo.
«Niente di più
sbagliato. La fa tornare agli antichi amori».
Infatti. Non le dico
come finisce. Simon e Pegeen sono ebrei?
«Perché dovrebbero
esserlo?».
I suoi personaggi, di
solito, lo sono.
«Questi sono definiti da
altre cose: tristezza, allegria, dubbi, desideri».
Lei legge le
recensioni?
«Cerco di non farlo: una
volta chiesi a Keith Hernandez, un famoso giocatore di baseball, se
dava un occhio alle cronache sportive il giorno dopo la partita. Mi
rispose: "Perché dovrei? So benissimo cosa è successo".
Così ho capito perché non devo leggere cosa scrivono dei miei
libri: anch'io so già cosa è successo».
Molti
critici americani e inglesi si sono scandalizzati per le scene di
sesso del romanzo. Uno s'è scusato con i lettori per aver citato la
parola triangolo.
«Puritanesimo. Con
quello che si vede nei film, si sente nelle canzoni o si trova su
internet, ci si può scandalizzare per i miei libri? Un libro fa
scandalo solo se è scritto male».
Forse, soprattutto
alle donne, dà fastidio leggere che un vecchio, con il morale e la
schiena a pezzi fino a qualche pagina prima, fa le acrobazie a letto
con una che potrebbe essere sua figlia (e infatti è la figlia di due
suoi amici). Le pari opportunità non arrivano a tanto.
«Interessante. Ma credo
che sotto ci sia dell'altro: non è politicamente corretto descrivere
una lesbica che vuole far sesso con un uomo. Non è politicamente
corretto che un uomo cambi l'orientamento di una lesbica. Simon le
offre un buon taglio di capelli, le compra dei bei vestiti: è un
gioco per vedere come sta, e lei sta al gioco. Ma è un gioco che non
rientra nel politically correct».
Categoria dello
spirito che si infila anche sotto le lenzuola?
«Questo non lo so, ma
nella percezione dei recensori di certo. Applicano questo punto di
vista e qualcosa non torna: una lesbica dev'essere lesbica, è
sbagliato volerla cambiare. Avessi usato la parola bisessuale sarebbe
filato tutto liscio. Non l'ho usata apposta: conosco un buon numero
di lesbiche tornate femminili ed etero».
Quante?
«Tre. Non è questo gran
numero, ma una si è anche sposata».
C'è anche che le sue
descrizioni del sesso sono spietate.
«Spietate?»
Lo raccontano per
quello che è, nudo e crudo.
«Mi soddisfa l'idea di
poter ancora scandalizzare, pensavo di aver perso la magia, in questo
campo».
E, in generale, ha mai
sentito che la stava perdendo?
«Agli scrittori succede
sempre. A me, di solito, capita all'inizio di un libro o fra un libro
e l'altro. E anche se non senti di perderla, ne hai comunque paura. È
la paura dello scrittore, ma ce l'hanno anche i grandi attori».
Chi è Michiko
Kakutani e perché parla male di lei?
«Non è una mia
ammiratrice».
Infatti scrive che
ormai i suoi personaggi sono solo vecchi sporcaccioni. Giudizio che,
per osmosi, pare estenda a lei.
«Non è molto
importante».
Ma se è la critica
del New York Times...
«È una giornalista che
pubblica recensioni. I critici non si occupano di recensioni, ma
pensano ai libri e ci scrivono i saggi».
Per le sue leggendarie
pagine sul tumore che più affligge la popolazione maschile, Roth è
stato malevolmente definito una sorta di Proust della prostata, ma è
un fatto che, da un po' di anni a questa parte, si concentri sulla
decadenza, la morte e la lancinante persistenza del desiderio. Non è
proprio roba da vecchi sporcaccioni. In Patrimonio, il libro sulla
morte di suo padre, scrive che la vecchiaia non è un picnic...
«...E in Everyman
dico che non è una battaglia: è un massacro».
Appunto, e il sesso
che ruolo ha in questo massacro?
«Nel caso di Umiliazione
la rende migliore e peggiore. Migliore quando cambia la vita del
protagonista riempendola di progetti e illusioni. Devastante quando
lo perde. Tutto quello che so è quello che descrivo, non so niente
oltre a questo. In Il fantasma esce di scena, il mio vecchio
Zuckerman è ormai fuori dal sesso, ma una giovane donna riesce a
eccitarlo: il desiderio inappagato è qualcosa di bruciante e molto
triste».
Dall'onanismo del
giovane Portnoy alla prostata del suo ultratrentennale alter ego
letterario Zuckerman, ai sogni perduti di Simon, come si è evoluto
il suo racconto del sesso?
«Ci vorrebbe una
settimana. Ma non è che ora parlo solo di sesso della terza età: in
Indignazione, recentissimo, c'è la ragazza che fa...».
L'intermezzo
angloitaliano per definire la pratica esercitata dalla ragazza sul
giovane protagonista del romanzo richiama antichi ricordi.
«Nel 1972 andai a Praga
e, già che c'ero, mi misi a cercare dei traduttori per Il lamento
di Portnoy. Passammo una notte divertente: loro traducevano in
ceco e ogni tanto pescavano parole inglesi che non conoscevano, tutte
oscenità. Io cercavo di spiegarle, per lo più a gesti, davanti a
gente che avevo mai visto prima».
Provi a spiegare a
Michiko Kakutani perché parla di sesso.
«Perché è un grande
tema. Lo era in Madame Bovary e in Anna Karenina: molti
libri alla fine dell'800 parlano di adulterio. Nel 900, Joyce
comincia a descriverlo – basta pensare a Molly nell'Ulisse – e
Lawrence a celebrarlo. Poi a metà 900 gli scrittori si prendono la
libertà di descriverlo. Come scrittore, sono nato in quella fase:
allora, la descrizione grafica era consentita».
La psicoanalisi
concede libertà di parola alle fantasie più inconfessabili. Andare
in analisi ha liberato la sua scrittura?
«Poco o niente. Sono
stato in analisi dal '63 al '68 e quello da cui mi ha liberato sono
le conseguenze del mio terribile primo matrimonio».
E che era successo?
«La mia prima moglie non
era una buona moglie. Disonesta, bugiarda, fredda di cuore. Le pare
abbastanza? Non credo che la psicoanalisi abbia qualcosa a che vedere
con il mio scrivere sul sesso. Il sesso c'è anche nel mio primo
libro, Addio Columbus, del 1959. Freud fu un grande
liberatore, ma non devi certo andare in analisi per subirne
l'influenza. Ogni scrittore del 900 l'ha subita».
Non è che il secondo
matrimonio, con l'attrice Claire Bloom, sia finito tanto meglio: lei,
in un libro di memorie va giù pesantissima e la solita Kakutani
insinua che lui, in Ho sposato un comunista, si
ispiri a lei per lo sgradevole personaggio femminile. Come vanno i
rapporti col movimento femminista?
«Non ho problemi con
loro».
Li ha avuti.
«Ma esistono ancora?»
Chiaro che la
detestassero.
«Non credo che mi
detestino».
Viene accusato di
misoginia.
«Insensato. Basta
leggere bene i miei libri. Dai primi, come Lasciarsi andare o
Quando Lucy era buona a La controvita o Pastorale
americana».
In Pastorale,
la figlia del protagonista, passata dal terrorismo al misticismo più
astruso, gira con una mascherina per evitare di danneggiare col
respiro i moscerini. È il ritratto straziante di una deriva
generazionale: ma come le è venuto?
«È il mio lavoro. Avevo
letto di questa filosofia indiana, il jain: scrivendo il libro mi è
venuto di riusarla».
E il giovane Zuckerman
convinto che la bella ragazza che ha davanti sia Anna Frank scampata
ai lager, ma decisa a restare in incognito per non danneggiare il
potenziale del suo diario ormai famoso?
«Su Anna Frank avevo
lavorato per un libro incompiuto. Comincia a vedersi con un ragazzo e
dopo un po' gli fa: "Devo dirti una cosa, sono Anna Frank".
Lui pensa che sia matta, poi si chiede: " E se fosse vero?"
Come il Pirandello di Come tu mi vuoi».
Anche lei ha una
doppia identità: scrittore ascetico e inguaribile donnaiolo.
«Mi sarebbe piaciuto
essere un grande donnaiolo, ma sono fantasie. In Connecticut, dove
vivo gran parte del tempo, ci sono cervi, orsi, tacchini selvatici,
ma niente donne».
Ho letto che è andato
a ritirare un premio con una nuova fiamma di trentacinque anni.
«Non ricordo».
Aveva un fiocco in
testa.
«Ah, sì. Una ragazza
molto chic».
Tanto sesso, nei suoi
libri, e non nasce mai un bambino.
«Non mi pare: Pastorale
americana ruota tutto intorno a questa figlia diventata
terrorista, il professore di La macchia umana ha tre figli».
Ma sono tutti grandi.
«Sì, ma chi scrive di
bambini?».
Ian McEwan.
«Ha scritto di bambini?»
Bambini nel tempo.
«Ian, brava persona. Si
rivolga a Ian se vuole leggere di bambini, a me se vuole leggere di
figa».
Da che parte si mette
quando descrive le esperienze limite dei suoi personaggi?
«Io capisco che uno
possa fare le scelte più disastrose e dolorose per sé e per gli
altri. Liberissimo. Faccio solo succedere cose che non so perché
accadono senza il bisogno di approvare e disapprovare. Poi racconto
le conseguenze».
Scrivere delle
conseguenze è un'azione morale.
«Ha già più senso del
cliché di misogino, misantropo, antisemita».
La produzione è un
surrogato della riproduzione?
«Ma lei è fissata con i
bambini! No, John Updike ha avuto quattro o cinque figli e ha scritto
sessanta libri».
Al Pacino ha
acquistato i diritti per L'umiliazione. Si può
rendere al cinema la cattiva recitazione di un attore in crisi?
«Un bravo attore ci può
riuscire».
Anche con il sesso
sarà dura.
«Kurosawa tratterebbe il
dildo come un coltello. E anche Bergman se la caverebbe
egregiamente».
Qui il regista è
Barry Levison.
«Non è un mio
problema».
Invece, Phillip Noyce,
il regista di Il collezionista d'ossa, vuole
fare Pastorale. Che ne dice?
«Con Noyce ho preso un
caffè cinque anni fa per parlare del progetto: non se ne farà
niente».
Ma è soddisfatto dei
suoi romanzi al cinema?
«Per niente. Lezioni
d'amore, tratto da L'animale morente è un disastro. Ben
Kingsley è affabile, il mio professor Kepesh no. E Penelope Cruz
mostra il seno come un'odalisca, non come una a che ha paura di
vederlo mutilato dal cancro».
Per caso, è
insoddisfatto anche da Barack Obama? Da un'intervista a un quotidiano
italiano, “Libero”, risulta che lo trova persino antipatico,
oltre che inconcludente e assopito nei meccanismi del potere.
«Ma io non ho mai detto
una cosa del genere. È grottesco. Scandaloso. È tutto il contrario
di quello che penso. Considero Obama fantastico. E trovo che
l'attacco che gli stanno sferrando i repubblicani è molto simile a
quello subito da Roosevelt al suo primo mandato. È la destra più
stupida mobilitata da Sarah Palin. Agitano la bufala dell'atto di
nascita che dimostrerebbe che è nato in Kenya. E trovano ascolto.
Sotto c'è il problema della razza, della pelle. Sono molto seccato
per queste dichiarazioni che mi vengono attribuite: non ho mai
parlato con questo “Libero”. Smentisca tutto. Ora chiamo il mio
agente».
Chiama il suo agente, che
gli filtra tutti i contatti: nell'agenda delle interviste passate e
future non risulta né "Libero" né il nome dell'intervistatore. Roth
attacca e poi chiede cosa vuol dire “Libero” in inglese. Traduco.
«Vuol dire che questi sono liberi di fare tutto quello che gli
pare?».
"Il Venerdì di Repubblica", 26 febbraio 2016