25.2.19

“Le più crude invenzioni sono citazioni”. Karl Kraus e «Gli ultimi giorni dell'umanità» (Piero Violante)

Piero Violante
Dello Swinging Palermo di Piero Violante in questo blog c'è più di una traccia: libro assai bello, di cui raccomando la lettura e anche la rilettura, al fine di scoprire paesaggi e percorsi seminascosti, sfuggiti al primo sguardo. Biografia culturale” della capitale siciliana negli anni tra Sessanta e Ottanta del '900, ne racconta e ne interroga figure, momenti, musiche, teatri, prendendo partito per le battaglie di cultura e di civiltà (quasi tutte concluse con la sconfitta) condotte da una straordinaria “intelligenza” d'opposizione, la cui memoria va tenuta viva in questi tempi oscuri. Ma il libro è anche una “autobiografia intellettuale”, il racconto di come il suo autore – secondo me il più colto, poliedrico e curioso tra i miei magnifici compagni di Sessantotto – trovi il suo posto in una città complicata, inquieta ed inquietante. Accade così che nella sua trama possano rintracciarsi, brevi e sugosissimi, dei veri e propri saggi. 
Così quello che qui riprendo, su Karl Kraus e Gli ultimi giorni dell'umanità, lettura convincente dell'opera-mondo del “pontefice della verità” con “corazza da guerriero”, una delle figure più eminenti di quella Vienna prima e dopo la fine dell'impero, che tra i Settanta e gli Ottanta divenne oggetto di una diffusa nostalgia. Piero Violante, che in Swinging Palermo dà conto di un suo soggiorno viennese ricco di contatti ed esperienze, non deve essere sfuggito del tutto al contagio, ma la sicula ironia lo salvò e lo salva dalle sue fastidiose complicazioni, tra le quali giustamente egli stigmatizza il feticismo a buon mercato che dà valore di memoria anche alla paccottiglia. (S.L.L.)

Karl Kraus

Si dice che Kraus lavorasse di notte per non essere disturbato dalla stupidità che abitava il giorno. In effetti, lavorava di notte per annotare con puntiglio maniacale ciò che la stupidità aveva prodotto e aveva consegnato trionfalmente ai giornali. Il Grande Testimone, durante la guerra, non dormì mai: la macchina della stupidità lavorava troppo a pieno ritmo perché lui si potesse distrarre. Ed eccolo ad accumulare, notte per notte, a scrivere la sua Apocalisse, l’Apocalisse del Mondo di Ieri che altri avrebbero mitizzato e che lui aveva sempre fustigato. Gli stupidi erano stati sempre lì a due passi: tra la Kartnerstrasse e la Hofburg, e la stupidità si stendeva regolare sulle colonne della «Neue Freie Presse». Sino al 1914 gli era bastato sporgersi dalla finestra per sentire il rumore della chiacchiera, il cui spettro sonoro fissava, maligno, nella Fackel, la sua rivista rosso fiammeggiante. Era convinto, come altri viennesi: Schònberg, Loos, Wittgenstein, che tutto accadesse nella lingua e che la sua corruzione indicasse la corruzione dei valori. Un tic, un lapsus, un errore: Kraus li collezionava, li sbeffeggiava, il più delle volte si indignava, ma soprattutto li esibiva come prova della corruzione. Dopo il 1914 il rumore del bavardage fu raddoppiato dal rumore dei cannoni: ma Kraus lesse quest’ultimo come il prodotto del primo e ancora una volta gli bastò sbirciare sull’angolo di Sirk (tra Kartnerstrasse e l’Opera) per scorgere la barbarie, anzi per fare di quell’angolo elegante il centro della barbarie. In fondo per Kraus la Grande Guerra si svolge tutta lì, in quell’angolo di cartapesta, davanti a quella quinta, su una passerella sulla quale scivolavano gli orrori della guerra ma soprattutto quelli che Kraus accusa come i responsabili di quegli orrori: l’imperatore, la nobiltà, i ministri, i politici, i giornalisti (la journaille), gli ebrei. Da grande satirico, Kraus fissa i tratti fisici, i gesti sociali, e soprattutto la maschera sonora di questi personaggi d’operetta che si accalcano in quell’angolo o vagano nella stanza dei Palazzi o si disperdono negli scenari di guerra. Gli ultimi giorni dell’umanità che Kraus scrive e riscrive tra il 1915 e il 1922, tragedia in cinque atti con un prologo ed un epilogo, può essere letta come un protocollo linguistico, una grande partitura che contiene la stupidità imperial-regia esemplificata in tutti i suoi registri linguistici. E Kraus stesso ad affermare che nella sua tragedia «le più crude invenzioni sono citazioni», inchiodando i suoi personaggi ad una follia vissuta come sano eroismo. La natura documentaria della tragedia illustra una singolare fedeltà ai materiali citati attraverso la tecnica del collage che mira all’esasperazione dei materiali assemblati. Il «contatto raccapricciante», come scrive Edward Timms, è la tecnica combinatoria dei materiali che deve scatenare nell’ascoltatore l’indignazione. Nel fare scivolare i suoi personaggi d’operetta, nel sorprenderli nei loro tic linguistici che sono tutt’uno con le loro scelleratezze sociali, Kraus vuole che il lettore rida e s’indigni perché la guerra l’hanno voluta tutti. Non solo la guerra è ignobile e orrenda ma è la sua lingua che dal fronte si è disseminata dentro la società. Poco meno di venti anni dopo il grande filologo Victor Klemperer - cugino di Otto, il direttore d’orchestra - epurato dai nazisti inizierà ad annotare in un suo taccuino la disseminazione del nazismo dentro la lingua tedesca per forgiare la Lingua Tertii Imperi (Ltl).
Essendo per Kraus come poi per Klemperer gli agenti principali di questa disseminazione la journaille e la burocrazia.
Negli Ultimi giorni Kraus si accanisce impietosamente con la corrispondente di guerra Alice Schalek. Nei «pezzi» di Alice dal fronte, la guerra si fa racconto nobile, eroico, sentimentale, e questo racconto fa trasparire una fascinazione che altri, in modo più sottile della Schalek, esprimeranno coniugando sangue e acciaio e preparando l’avvento del nazismo. La lingua dei giornali si identifica con la lingua della guerra: i giornali sono il luogo del discorso della guerra e per questo Kraus attacca la Schalek. Per cinque atti, per quasi settecento pagine, per otto ore in teatro, Kraus attacca chi consapevolmente o no parla la lingua della guerra avendo sempre più chiaro negli anni di scrittura e riscrittura della tragedia che in gioco nella Grande Guerra non sono l’onore o il valore ma soltanto la merce e il suo modo di produzione. Questo sterminato protocollo linguistico è il solitario, beffardo atto d’accusa di chi la guerra non l’aveva voluta ma soprattutto non l’aveva veramente mai parlata. L’ultima battuta dell’epilogo che chiude la tragedia è di Dio: «Io non l’ho voluta». E un epilogo in cui Kraus prende a modello il Faust di Goetheper affermare la forte valenza morale della sua opera e per suggerirci che Gli ultimi giorni sono l’esito infernale del furore modernizzatore di Faust. La Grande Guerra se chiuse un’epoca di stupidità ne aprì un’altra in cui la lingua della guerra-merce farà tacere le altre. Il silenzio di Kraus di nuovo quando Hitler prese il potere è la prova di una profezia inascoltata.

da Swinging Palermo, Sellerio Editore, Palermo, pp.156-159

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