Piero Violante |
Dello
Swinging Palermo di Piero
Violante in questo blog c'è più di una traccia: libro assai bello,
di cui raccomando la lettura e anche la rilettura, al fine di
scoprire paesaggi e percorsi seminascosti, sfuggiti al primo sguardo. “Biografia
culturale” della capitale siciliana negli anni tra Sessanta e
Ottanta del '900, ne racconta e ne interroga figure, momenti, musiche, teatri,
prendendo partito per le battaglie di cultura e di civiltà (quasi
tutte concluse con la sconfitta) condotte da una straordinaria
“intelligenza” d'opposizione, la cui memoria va tenuta viva in
questi tempi oscuri. Ma il libro è anche una “autobiografia
intellettuale”, il racconto di come il suo autore – secondo me
il più colto, poliedrico e curioso tra i miei magnifici compagni di
Sessantotto – trovi il suo posto in una città complicata, inquieta
ed inquietante. Accade
così che nella sua trama possano rintracciarsi, brevi e sugosissimi,
dei veri e propri saggi.
Così quello che qui riprendo, su Karl Kraus
e Gli ultimi giorni dell'umanità,
lettura convincente dell'opera-mondo del “pontefice della
verità” con “corazza da guerriero”, una delle figure più
eminenti di quella Vienna prima e dopo la fine dell'impero, che tra i
Settanta e gli Ottanta divenne oggetto di una diffusa nostalgia.
Piero Violante, che in Swinging Palermo
dà conto di un suo soggiorno viennese ricco di contatti ed
esperienze, non deve essere sfuggito del tutto al contagio, ma la
sicula ironia lo salvò e lo salva dalle sue fastidiose
complicazioni, tra le quali giustamente egli stigmatizza il feticismo a
buon mercato che dà valore di memoria anche alla paccottiglia.
(S.L.L.)
Karl Kraus |
Si dice che
Kraus lavorasse di notte per non essere disturbato dalla stupidità
che abitava il giorno. In effetti, lavorava di notte per annotare con
puntiglio maniacale ciò che la stupidità aveva prodotto e aveva
consegnato trionfalmente ai giornali. Il Grande Testimone, durante la
guerra, non dormì mai: la macchina della stupidità lavorava troppo
a pieno ritmo perché lui si potesse distrarre. Ed eccolo ad
accumulare, notte per notte, a scrivere la sua Apocalisse,
l’Apocalisse del Mondo di Ieri che altri avrebbero mitizzato e che
lui aveva sempre fustigato. Gli stupidi erano stati sempre lì a due
passi: tra la Kartnerstrasse e la Hofburg, e la stupidità si
stendeva regolare sulle colonne della «Neue Freie Presse». Sino al
1914 gli era bastato sporgersi dalla finestra per sentire il rumore
della chiacchiera, il cui spettro sonoro fissava, maligno, nella
Fackel, la sua rivista rosso fiammeggiante. Era convinto, come
altri viennesi: Schònberg, Loos, Wittgenstein, che tutto accadesse
nella lingua e che la sua corruzione indicasse la corruzione dei
valori. Un tic, un lapsus, un errore: Kraus li collezionava, li
sbeffeggiava, il più delle volte si indignava, ma soprattutto li
esibiva come prova della corruzione. Dopo il 1914 il rumore del
bavardage fu raddoppiato dal rumore dei cannoni: ma Kraus lesse
quest’ultimo come il prodotto del primo e ancora una volta gli
bastò sbirciare sull’angolo di Sirk (tra Kartnerstrasse e l’Opera)
per scorgere la barbarie, anzi per fare di quell’angolo elegante il
centro della barbarie. In fondo per Kraus la Grande Guerra si svolge
tutta lì, in quell’angolo di cartapesta, davanti a quella quinta,
su una passerella sulla quale scivolavano gli orrori della guerra ma
soprattutto quelli che Kraus accusa come i responsabili di quegli
orrori: l’imperatore, la nobiltà, i ministri, i politici, i
giornalisti (la journaille), gli ebrei. Da grande satirico, Kraus
fissa i tratti fisici, i gesti sociali, e soprattutto la maschera
sonora di questi personaggi d’operetta che si accalcano in
quell’angolo o vagano nella stanza dei Palazzi o si disperdono
negli scenari di guerra. Gli ultimi giorni dell’umanità che
Kraus scrive e riscrive tra il 1915 e il 1922, tragedia in cinque
atti con un prologo ed un epilogo, può essere letta come un
protocollo linguistico, una grande partitura che contiene la
stupidità imperial-regia esemplificata in tutti i suoi registri
linguistici. E Kraus stesso ad affermare che nella sua tragedia «le
più crude invenzioni sono citazioni», inchiodando i suoi personaggi
ad una follia vissuta come sano eroismo. La natura documentaria della
tragedia illustra una singolare fedeltà ai materiali citati
attraverso la tecnica del collage che mira all’esasperazione dei
materiali assemblati. Il «contatto raccapricciante», come scrive
Edward Timms, è la tecnica combinatoria dei materiali che deve
scatenare nell’ascoltatore l’indignazione. Nel fare scivolare i
suoi personaggi d’operetta, nel sorprenderli nei loro tic
linguistici che sono tutt’uno con le loro scelleratezze sociali,
Kraus vuole che il lettore rida e s’indigni perché la guerra
l’hanno voluta tutti. Non solo la guerra è ignobile e orrenda ma è
la sua lingua che dal fronte si è disseminata dentro la società.
Poco meno di venti anni dopo il grande filologo Victor Klemperer -
cugino di Otto, il direttore d’orchestra - epurato dai nazisti
inizierà ad annotare in un suo taccuino la disseminazione del
nazismo dentro la lingua tedesca per forgiare la Lingua Tertii Imperi
(Ltl).
Essendo per
Kraus come poi per Klemperer gli agenti principali di questa
disseminazione la journaille e la burocrazia.
Negli Ultimi
giorni Kraus si accanisce impietosamente con la corrispondente di
guerra Alice Schalek. Nei «pezzi» di Alice dal fronte, la guerra si
fa racconto nobile, eroico, sentimentale, e questo racconto fa
trasparire una fascinazione che altri, in modo più sottile della
Schalek, esprimeranno coniugando sangue e acciaio e preparando
l’avvento del nazismo. La lingua dei giornali si identifica con la
lingua della guerra: i giornali sono il luogo del discorso della
guerra e per questo Kraus attacca la Schalek. Per cinque atti, per
quasi settecento pagine, per otto ore in teatro, Kraus attacca chi
consapevolmente o no parla la lingua della guerra avendo sempre più
chiaro negli anni di scrittura e riscrittura della tragedia che in
gioco nella Grande Guerra non sono l’onore o il valore ma soltanto
la merce e il suo modo di produzione. Questo sterminato protocollo
linguistico è il solitario, beffardo atto d’accusa di chi la
guerra non l’aveva voluta ma soprattutto non l’aveva veramente
mai parlata. L’ultima battuta dell’epilogo che chiude la tragedia
è di Dio: «Io non l’ho voluta». E un epilogo in cui Kraus prende
a modello il Faust di Goetheper
affermare la forte valenza morale della sua opera e per suggerirci
che Gli ultimi giorni sono l’esito infernale del furore
modernizzatore di Faust. La Grande Guerra se chiuse un’epoca di
stupidità ne aprì un’altra in cui la lingua della guerra-merce
farà tacere le altre. Il silenzio di Kraus di nuovo quando Hitler
prese il potere è la prova di una profezia inascoltata.
da
Swinging Palermo,
Sellerio Editore, Palermo, pp.156-159
sei veramente gentile. grazie piero
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