27.4.19

Bohumil Hrabal. Le stagioni letterarie di un geniale “stramparlone” (Valentina Parisi)



“Non mi è mai saltato in mente di voler cambiare le condizioni politiche in cui mi sono trovato a vivere. Non ho mai voluto cambiare la lingua o il mondo e, se citavo Marx, Rimbaud o Mallarmé, era sempre me stesso quel che volevo cambiare, me stesso, ovvero quell’individuo che si trovava nelle mie immediate vicinanze». Così Bohumil Hrabal - nello scritto autobiografico del 1985 titolato Chi sono - sintetizzava, con la consueta irruenza, il proprio atteggiamento nei confronti del mondo e della letteratura. Dopo essere stato costretto al silenzio durante la «normalizzazione» della società ceca nei primi anni 70, lo scrittore era tornato a pubblicare le proprie opere solo grazie all'«autocritica» apparsa nel 1975 sulle pagine del settimanale - «Tvorba» («Creazione»). Nella travolgente dichiarazione di poetica titolata Manuale di un apprendista stramparlone (scritta nel 1970, ma uscita in forma censurata soltanto cinque anni più tardi, in calce al «ripensamento» che gli attirò le ire di vari intellettuali cechi) affiorano indirettamente le ragioni che avevano spinto Hrabal a un passo così difficile.

La sua accettazione del presente
Alla base della sua autocritica c’era senz’altro l’esigenza di riallacciare il rapporto con i lettori, raggiungendo un pubblico più ampio di quello che i canali alternativi della stampa samizdat potevano assicurargli; ma c’era anche il bisogno istintivo di uscire allo scoperto, di partecipare di nuovo alla vita della nazione, sguinzagliando all’intorno quei manoscritti inediti che incombevano su di lui, come le cataste di libri nell’appartamento di Hant’a, l’eroe di Una solitudine troppo rumorosa.
Indifferente a ogni forma di dissidenza politica non certo per opportunismo bensì per una sorta di trepida concentrazione sul «già esistente» piuttosto che sul «possibile», Hrabal centellinò la cicuta che il regime gli somministrava, pur di poter continuare a descrivere quel mondo che lo riempiva di uno stupore quasi fanciullesco: «Fin dall’infanzia ho sempre nutrito la più grande ammirazione per la realtà che non ho creato io, che era lì già prima che esistessi; io, che non desidero altro che rifletterla, poiché perfino gli eventi più terribili per me sono colmi di bellezza». Da questa accettazione forzata del presente - degna del suo filosofo prediletto, il cinese Laozi - derivava per Hrabal anche il rifiuto dell’emigrazione. Abbandonare la capitale boema avrebbe significato allontanarsi dagli infiniti reali e topografici trasfigurati nelle sue opere (dalle acciaierie Poldi al deposito della carta da macero di Una solitudine, passando per tutte le osterie-birrerie elencate da Hant’a in una sorta di slalom gigante dell’ebbrezza), nonché rinunciare alla consolante ripetitività dei riti legati alla dimensione collettiva e conviviale di Praga (cui lo scrittore era così affezionato da intitolare nel 1966 la prima antologia dei suoi scritti col nome della sua mensa preferita, Auto-matSvet).

Come un albero fronzuto
Hrabal dunque rimase in Cecoslovacchia e continuò a «trascrivere» la realtà nei suoi testi e a «cambiare se stesso» attraverso la letteratura, in un duplice processo mitopoietico indubbiamente fortunato, se ancora oggi, a dieci anni dalla sua morte, molti continuano a domandarsi chi egli fosse «davvero». Tra i suoi recenti esegeti, il polacco Aleksander Kaczorowski gli ha dedicato Il gioco della vita, da poco tradotto in italiano dalle edizioni e/o. Se nei capitoli sull’infanzia e l’adolescenza dello scrittore il libro inclina a un biografismo minuzioso e un po’ sterile, le pagine sugli anni 70 e ’80 ricostruiscono invece con efficacia in quale caos di accuse, sensi di colpa, autocensure e «paure totali» si svolse l’elaborazione delle ultime opere, fino al 1989...
Tra i molti paradossi che segnarono 1’esistenza dello scrittore ceco, nato in un sobborgo di Brno nel 1914, ve n’è uno che dovette risultare particolarmente gravoso alla sua indole esuberante, quella indole che lo induceva a paragonarsi a un «albero fronzuto, pieno di occhi attenti e sorridenti». Come osserva Josef Zumr, l’uscita dei suoi libri di rado coincise con l’epoca della loro effettiva stesura: l’aspirazione di Hrabal a «riflettere la realtà» dovette dunque scontrarsi con imprevedibili strategie editoriali - Ho servito il re d’Inghilterra apparve, per esempio, con undici anni di ritardo per i tipi di un’associazione musicale jazz nonché con l'esigenza di adattare le proprie opere alle circostanze della contingenza letteraria.
È difficile, tuttavia, distinguere ciò che dipese dalla necessità e ciò che è attribuibile alla sua volontà autoriale, dal momento che fin dagli esordi Hrabal manifestò una istintiva predisposizione a tornare su quanto già scritto, ad assemblare testi propri e altrui secondo una logica paragonabile al montaggio cinematografico. E se nel 1981 la giustapposizione alternata di Una solitudine e Un tenero barbaro nel volume Club di poesia finì col generare un vero e proprio monstrum, in altri casi le rielaborazioni di Hrabal sfociarono in capolavori come Treni strettamente sorvegliati (1965), originatosi alla confluenza di due testi preesistenti e di frammenti tratti da racconti conviviali. Tra quelle pagine, lo sfilare dei convogli bellici per la Moravia occupata dalle truppe tedesche si sovrappone al flusso di coscienza del giovane ferroviere Milos, in una successione di immagini «la cui prospettiva - ha scritto Jiri Pelan, nel suo Tentativo di ritratto premesso all’edizione delle Opere scelte nei Meridiani Mondadori - non viene definita univocamente dal soggetto ordinatore».

Armato di forbici e colla
Una simile composizione paratattica del testo letterario trova il suo equivalente visuale nella tecnica del collage, genere coltivato in tutte le sue eterogenee varianti (rollage, froissage, chiasmagè) dall’amico di Hrabal, Jiri Kolar. Anche lo scrittore, peraltro, amava cimentarsi con forbici e colla, come testimonia la mostra a cura di Annalisa Cosentino allestita in questi giorni a Roma. La logica surreale del collage riaffiora in tutti i suoi testi più sperimentali come, ad esempio Questa città è affidata alla comune cura dei suoi abitanti (1967), reportage su Praga realizzato insieme al fotografo Miroslav Peterka e ora ripubblicato dall’editore ceco Paseka.
Questa opera singolare - che ha tra le sue fonti un manuale scacchistico tedesco, una raccolta di leggende praghesi, un repertorio di attributi dei santi, verbali giudiziari e brandelli di conversazioni udite per la strada - dimostra la passione di Hrabal per il ciarpame verbale più inverosimile, per il bric-à-brac linguistico più kitsch, che egli tentava di resuscitare, accostandolo ironicamente alle chiacchiere da crocicchio o da osteria. D’altro canto, questo orientamento alla lingua orale, o a quel che Ripellino chiamava il «brulichio del parlato», accompagnava lo scrittore fin dalle sue prime prove: non a caso, la raccolta narrativa uscita nel 1956 proprio grazie a Kolar si intitolava I discorsi della gente.
Da Stramparloni (1964) a Sanguinose ballate e miracolose leggende (1968), passando per i racconti di Inserzione per una casa in cui non voglio più abitare (1965), l’attenzione di Hrabal si concentrò dunque intorno alla figura eminentemente ceco-slovacca del pabitel, neologismo coniato da Kolar e subito fagocitato dall’amico letterato. In un primo tempo pabitel verme tradotto in italiano con «sbruffone»; in realtà, la definizione che ne fornì lo scrittore stesso rettifica il significato del termine, proiettandolo in una dimensione quasi metafisica.
Il pabitel sarebbe, infatti, «colui che è capace di esagerare, poiché fa tutto con eccessiva passione e rischia dunque di sembrare ridicolo», «il contrappeso dell’uomo civilizzato», «uno strumento del linguaggio che vede la realtà attraverso il prisma dell'ispirazione». Sorta di personaggio donchisciottesco a metà tra l’insipiente e il profeta, il pabitel vive nella sfera immateriale della parola che non diventerà mai logos, perché persa nei meandri irrazionali della ciarla, della fanfaronata, dell’aneddoto strampalato (da qui il termine «stramparlone», adottato di recente nelle Opere scelte). Le due linee del trascrivere e dello stramparlare si sarebbero poi sovrapposte nella Ballata scritta dai lettori, composta da brani prelevati dalle missive spesso ingiuriose che lo scrittore, accusato di pervertire la gioventù socialista, riceveva pressoché ogni giorno. Accostando tra loro questi frammenti di grottesca logorrea, perbenismo forcaiolo e grafomania ingenua, Hrabal celebra se stesso come idolo del pabitel e sua vittima a un tempo, e decide di accantonare temporaneamente questa fonte di ispirazione.
Nel 1970, infatti, Hrabal cessò di andare «a zonzo con l’orecchio teso a un’istantanea di parlato» e con La tonsura ritornò al mondo dell’infanzia, ovvero a quella Boemia dall’atmosfera sospesa, un po' biedermeier, che lo avrebbe reso celebre, complici anche le fortunate trasposizioni cinematografiche di Jiri Menzel. Questa cesura viene ridefinita in forma di parabola evangelica nel saggio L’ala dell’imbecillità: «Io ti dico, figliolo, che non hai più bisogno di immischiarti nei discorsi della gente, perché qualcuno ti confidi la sua sofferenza... non hai più bisogno di cercare il denominatore comune con chi ti è vicino, meglio, figliolo, che tu finga di essere sordo, di non voler più sentire... Meglio che, circondato da ogni parte dal brusio delle parole, tu porga l’orecchio al monologo interiore della giovinezza».
Nella Tonsura e poi nella Cittadina dove il tempo si è fermato, l'età mitica della fanciullezza si condensa in immagini di abbagliante splendore, attorno alle quali si snodano interminabili narrazioni orali, autocitazioni dalle opere del passato e anticipazioni di quelle future. Così è, ad esempio, per la barchetta tatuata che il giovane protagonista della Cittadina osserva rapito sul torace nudo di un renaiolo, oppure per il lampadario di porcellana carico di pendagli colorati sotto al quale la madre celebra insieme al patrigno riti tanto teneri quanto misteriosi. Nel cosiddetto ciclo di Nymburk (dal nome della località boema dove lo scrittore visse dal 1919 al 1949), la parola acquista una evidenza quasi tangibile, sottraendosi all’effimero cicaleccio dello «stramparlare».

Profanatore di tombe eccellenti
Ma il testo in cui il carattere della scrittura hrabaliana, che Sergio Corduas ha definito «fisiologico e musicale insieme», emerge con maggior chiarezza è Una solitudine troppo rumorosa, lungamente elaborato dal 1972 al 1976. Nella vicenda di Hant’a, operaio che crea «genialmente» blocchi di libri pressati per mandarli poi al macero, Hrabal adombra le proprie riflessioni sulla cultura e sulla sua contiguità col caos. Il protagonista non può fare a meno di abbandonarsi all’estasi indotta dalla distruzione di migliaia di volumi, ma nel contempo ama salvare quei testi da cui crede di poter apprendere qualcosa su se stesso e quindi, alla fin dei conti, è «istruito contro la sua volontà».
Sorta di archivista-becchino, Hant’a compone dunque, come in una bara, i pensatori più illustri, in un processo speculare a quello di Hrabal che, alludendo alle sue tendenze citazionistiche, si definiva un «profanatore di tombe eccellenti». Grazie a quella pressa che l'alter ego dell’autore vorrebbe acquistare per proseguire anche in pensione la sua opera, avviene la transustanziazione della parola in carne, simboleggiata nella scena grandiosa in cui Hant’a, avvolto da un nugolo di mosche impazzite, assembla volumi di filosofia con i fogli di carta sanguinolenta provenienti da una macelleria.
La fine della cultura è quindi regressus ad originem, ritorno a un sostrato fisiologico che per Hrabal era evidentemente indivisibile dall’atto stesso della creazione, se nella pagina conclusiva di Ho servito il re d’Inghilterra teneva a precisare di aver scritto quel testo nel sole rovente dell’estate, con i fogli già battuti a macchina che scottavano tra le dita.

Da un presente perduto
D’altronde, la dialettica morte-resurrezione si era già affacciata nel ritratto dell’amico Vladimir Boudnik, delineato nel 1973 in Un tenero barbaro: «Vladimir, maestro dell’immaginazione tattile, sempre in agonia, sul punto di crepare, sempre soltanto per poter essere in grado di risorgere ... e poi, lungo il cordone ombelicale, tornare indietro verso il principio di tutte le cose, tornare indietro alla prima settimana della creazione del mondo». Un punto di approdo cui anche Hrabal sembrava ormai aspirare, allorché negli scritti auto-biografici degli anni ’80 ammetteva malinconico: «Il mio presente è andato definitivamente perso a favore del regresso alle origini. Anche questo mondo è ormai perso per me e me ne torno laggiù, dove non sono stato ancora».


"il manifesto", 8 marzo 2007

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