16.5.19

Giacomo Matteotti. Quel morto che spaventava Mussolini. Parla il figlio Matteo (Lucio Caracciolo)


"Non ci sarà nessuno che mi liberi da questo prete turbolento?". La subdola esclamazione di Enrico II d'Inghilterra che, secondo la tradizione letteraria, costò la vita al "turbolento" Thomas Becket è un modello applicato spesso dagli storici al delitto Matteotti. Parole analoghe avrebbe pronunciato Mussolini sfogandosi con i suoi zelanti fedelissimi dopo il discorso con il quale, il 30 maggio 1924, il deputato socialista Giacomo Matteotti aveva denunciato davanti alla Camera i brogli fascisti nelle elezioni di aprile. Ma come le spade dei cavalieri normanni non liberarono il Plantageneto dal fantasma del vescovo ribelle, così i sicari della "Ceka fascista" che il 10 giugno 1924 sequestrarono Matteotti sul Lungotevere Arnaldo da Brescia, per poi ucciderlo in oscure circostanze, non resero un buon servigio al loro Duce.
Che i fascisti avessero voluto colpire uno dei loro oppositori più intransigenti apparve subito evidente. Matteotti non era certo uno di quei vecchi compagni che Mussolini poteva sperare di associare alla sua avventura. Socialista gradualista, adorato da Turati come "figlio intellettuale", il giovane segretario del Partito socialista unitario si distingueva per le virtù severe, protestanti, per i discorsi asciutti, così diversi dall' oratoria ridondante del primo socialismo. "Egli fu forse il solo socialista italiano per il quale riformismo non fosse sinonimo di opportunismo", dirà Piero Gobetti. Quando si seppe che il coraggioso avversario dei fascisti era scomparso, un' ondata di protesta e di ribellione morale sconvolse le esigue fondamenta di un governo che non era ancora regime. La secessione aventiniana, la pressione dell'opinione pubblica e della stampa antifascista, mentre si vociferava di un intervento del Re per restaurare l'infranta legalità statutaria, misero alle corde Mussolini, più solo che mai. Il martirio di Matteotti aveva fatto il vuoto intorno al fascismo, che fu salvato solo dalle divisioni interne al campo democratico e dall' ignavia del Quirinale. L'ombra di Matteotti continuò sempre a perseguitare Mussolini. Poco prima di terminare ingloriosamente la sua parabola, il 23 aprile 1945, egli ricorderà ancora quel pomeriggio d'estate di ventun anni prima, quando confessava ad un amico: "Sono così spaventosamente solo che venti uomini decisi a giungere fino a me non troverebbero la resistenza di nessun difensore. Ho qui delle buone rivoltelle; sono però ancora indeciso se al momento dell'irruzione dovrò sparare o se dovrò subire passivamente la mia sorte".
Della grande paura di Mussolini, della protervia ma anche del senso di colpa che ispirò l'atteggiamento del fascismo verso i familiari del deputato assassinato, parla il figlio di Giacomo Matteotti, Matteo, nell'autobiografia (Quei vent'anni) che uscirà in autunno presso l'editore Rusconi. Vado a trovarlo per rievocare con lui quei giorni. "Nell'estate del 1924 io avevo tre anni", racconta Matteotti, e socchiude gli occhi a captare sensazioni antiche. "Il tempo ha disperso le immagini di quei giorni. Ma vedo ancora mia nonna che un giorno di primavera del 1928 mi accompagna verso il 03605 Lungotevere, nel punto in cui gli assassini stettero in agguato, e mi descrive nel suo dialetto veneto il colloquio che lei e mia madre ebbero con Mussolini subito dopo il delitto, per chiedergli la restituzione della salma di mio padre. "Quando semo entrae nella stanza grande", mi disse, "dove i ne gavea dito de andar, non sapeva dove metter le man; el gavea do oci da matto. El parlava come s' fosse deventà un fià balbo (un po' balbuziente). El continuava a dirne ch'el gavarìa fato de tutto per trovarlo. Ma si capiva che nol gera sincero; non sapeva come cavarse fòra. I diseva ch'al gaveva paura che qualchidun entrasse nella stanza e lo buttasse zò par el balcon. Sèmo vegnuè via ch'el tremava"".
Di questo Mussolini minore, insicuro, simile all'uomo finito che cadrà nelle mani dei partigiani, il libro di Matteotti offre altri frammenti. Così quando, nel luglio 1924, il cognato della vedova Matteotti, Emerico Steiner, chiese al capo del governo che almeno fossero restituiti l'anello di fidanzamento e il piccolo bottone di zaffiro che Giacomo Matteotti portava all'occhiello, questi rispose alterato: "Non le prometto nulla! Non posso prometterle nulla!". L'incertezza del governo in quei mesi decisivi contagiava tutto l'apparato dello Stato. Quando le veline di Palazzo Chigi sostennero che il corpo del deputato socialista, ritrovato il 16 agosto nella macchia della Quartarella, era stato individuato da un cane, e la vedova mandò Steiner dai funzionari di polizia per chiedere in dono quel randagio, la risposta fu quasi stizzita: "Ma via, commendator Steiner! Quel cane non esiste. La stampa ne ha parlato solo per la gente. Il ritrovamento doveva apparire casuale. Ma chi doveva sapere, sapeva. Si è atteso fino ad oggi perché siamo in agosto, lei mi capisce...". Scavando negli archivi, Matteo Matteotti ha recuperato un olografo del Duce risalente al marzo 1926, quando il fascismo rimbaldanzito celebrò a Chieti un farsesco processo agli autori materiali del delitto. Ancora Mussolini non si sentiva sicuro. Usava la carta intestata di Capo del Governo per dettare alla magistratura il copione da rispettare: "1) Il processo deve irrevocabilmente finire prima del 28 corrente mese. 2) Bisogna evitare tutto ciò che può drammatizzare le notizie e richiamare particolarmente l'attenzione del pubblico nazionale e internazionale. Quindi niente clamorosi incidenti o sconfinamenti di indole politica salvo che in sede di arringhe. 3) Il processo non deve in alcun modo assumere carattere di processo politico, da impegnare in qualsiasi modo Regime e Partito. Esso impegna le opposizioni".
E così fu. Gli scherani della "Ceka fascista" se la cavarono con pene ridicole. Intorno alla famiglia Matteotti il regime aveva già stretto una cortina di ferro. "Eravamo sorvegliati e spiati dovunque. Dodici agenti, con una macchina e sei biciclette, vegliavano su di noi persino al cinema o alla partita di calcio". Dapprima il piccolo Matteotti non si spiegò le occhiute attenzioni di quegli uomini in divisa. "Lo capii nell' estate del 1926, credo. Io non sapevo ancora nulla di mio padre. La nostra famiglia era a Castel del Monte, in Abruzzo. I contadini e i pastori si toglievano il cappello ogni volta che passavamo. Quando partimmo, una nebbiosa mattina di ottobre, un vecchio contadino si accostò alla vettura. Tese la mano a mia madre, e levandosi il berretto salutò: "' Turna, ' gnora. Noi qui te vulimmo bene, come a lui!". Intuii che "lui" era l' uomo che avrebbe dovuto occupare quel posto vuoto a capotavola, dove era sempre posato un mazzo di garofani rossi. Seppi la verità pochi giorni dopo, dalla voce di mia madre".
Ai tre fratelli Matteotti la scuola fece conoscere, insieme all'ottusità e alla vigliaccheria di alcuni insegnanti, la solidarietà o la comprensione di tanti altri. Matteo Matteotti sorride al ricordo dell'esame di quinta ginnasiale, al liceo Tasso: "Il tema suonava: "Perché vesto con tanto piacere la divisa di balilla e di piccola italiana". Sbirciai il compito della mia vicina, fascista entusiasta: "Quando la maschia figura del Duce appare sul podio e prende la parola ammaliatrice, mi sento pronta a compiere il dovere di piccola italiana: difendere la patria". Intinsi la penna nel calamaio e scrissi: "Io non vesto la divisa di balilla perché non credo in questo regime". Ottenni la sufficienza". Al fratello maggiore, Giancarlo, fu addirittura consentito di non indossare la camicia nera durante i corsi di premilitare del 1938. "Il comandante, maggiore Caccia Dominioni, convocò mia madre", ricorda Matteo Matteotti. "Togliendosi il monocolo, garbatamente suggerì: "Cara signora, quella nera è una camicia sporca in tutti i sensi, ma per non dare nell'occhio, la prego, faccia indossare a suo figlio almeno una camicia blu". La professoressa di italiano di mia sorella si segnalava invece per servilismo. Quando entrava in classe il preside e tutti scattavano in piedi col braccio teso, lei si rivolgeva a mia sorella, immobile: "E tu, Matteotti, perché non fai il saluto?". Noi ci arrabbiavamo molto per queste stupide persecuzioni, sintomo più di conformismo che di malanimo".
Passavano gli anni, compresi quelli del consenso e dell'Impero, ma il nome di Giacomo Matteotti continuava ad inquietare il regime. Quando la vedova morì, nel 1938, la notizia non fu divulgata. I funzionari di polizia temevano che i funerali trascendessero in manifestazione antifascista. Durante le esequie a Fratta Polesine, un agente in borghese impedì che il feretro fosse ricoperto di fiori. Ma nella notte vecchie contadine intrecciarono le inferriate della cappella di famiglia con garofani rossi. Alla vigilia della fine, nel giugno 1943, il prefetto di Chieti suggellò vent'anni di paure e di esorcismi con questo telegramma riservato al capo della polizia: "In città circola con insistenza la voce che il figlio di Matteotti avrebbe manifestato l'intenzione di recarsi sulla città di Chieti a bordo di un aereo da bombardamento nemico, per distruggerla con grosse bombe". Ma se Mussolini fu sempre terrorizzato dall'ombra di Matteotti, se per sbarazzarsi del suo inflessibile avversario rischiò di perdere il potere, perché avrebbe ordinato l'assassinio? Forse i sicari andarono oltre le sue intenzioni? Forse le radici del delitto non erano puramente politiche? È vero che Matteotti stava per rivelare scandali affaristici che avrebbero travolto il governo, come suggerì allora anche il Corriere della Sera? Domande che hanno inquietato gli storici, alle quali Matteo Matteotti non può rispondere: "Affido però alle analisi e alle congetture dei ricercatori un documento di grande interesse. È l'ultimo manoscritto di mio padre, misteriosamente abbandonato fra i rifiuti, nella campagna toscana. Qui lo trovò un vecchio mutilato nel 1976". Sono otto fogli intestati della Camera dei Deputati. In calce leggiamo la firma: "Giacomo Matteotti". Le perizie ne hanno stabilito l' autenticità e la datazione. È una requisitoria - apparsa anonima sulla rivista “Echi e Commenti” del 5 giugno 1924 - contro la politica finanziaria del governo: "...I Governi depositano tacitamente sulle colonne della Gazzetta Ufficiale i loro decreti, che investono interessi enormi della Nazione, e che non raramente furono preparati nei Gabinetti dietro la richiesta o sotto la pressione, mai pubblicamente controllata, dei gruppi o delle persone interessate, anche a danno della collettività... Il problema può essere qui solo accennato...". Qual era il "problema"? Matteo Matteotti ritiene che i decreti "sporchi" contro cui suo padre si stava scagliando fossero soprattutto due: "Uno sulla disciplina delle case da giuoco, che consentiva al ministero dell' Interno di far aprire bische sotto il suo diretto controllo. L'altro affidava alla Sinclair Exploration Company il monopolio della ricerca petrolifera in Sicilia e nell'Emilia-Romagna. E infatti il 7 giugno il giornale “La lotta”, cui mio padre collaborava, pubblicò un articolo che, riprendendo quasi letteralmente le frasi dell'ultimo manoscritto di mio padre, denunciava il carattere oscuro e dannoso per gli interessi nazionali della convenzione Sinclair". Matteotti fu trucidato anche perché stava per rivelare loschi intrallazzi di regime? Siamo ancora nel campo delle congetture. Dopo sessant'anni è difficile illuminare tutti gli angoli di una vicenda così sfaccettata. Forse però i ricordi e le ricerche del figlio di Matteotti indurranno gli storici a indagarne le pagine più opache, separando un po' di grano dal tanto loglio che nasconde le origini dell' agguato del Lungotevere.

“la Repubblica”, 7 giugno 1984

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