La statua di Vertumno a San Pietroburgo |
Ti incontrai la prima volta a
latitudini per te straniere.
Non ci avevi mai messo piede, ma la tua
gloria era arrivata
nei luoghi dove di solito i frutti si
fanno con l’argilla.
Nella neve fino alle ginocchia, ti
levavi, bianco - di piu:
nudo, in compagnia di alberi unipedi,
anch'essi
denudati, in qualità di specialista
di temperature basse. «Divinità
romana»
diceva una targhetta scolorita,
e per me eri un dio perché sapevi del
passalo
più di me (il futuro in quegli anni
non mi interessava molto).
D’altra parte, capelli ricci e guance
grasse,
sembravi un coetaneo. E benché tu non
capissi una parola
nell’idioma locale, in qualche modo
attaccammo discorso.
Parlai per primo: qualcosa a proposito
di Pomona,
dei nostri fiumi zigzaganti, del tempo
capriccioso, dei soldi,
della penuria di verdura, delle
stagioni
pazze - cose, pensavo, a te accessibili
se non
nella sostanza, almeno per il tono
generale
di lamentela. Un po’ per volta (la
lagnanza
è madrelingua universale: forse al
principio era soltanto
«ohi!» e «ahi!») cominciasti a
reagire:
strizzavi gli occhi, corrugavi la
fronte; poi la parte inferiore
del volto sembrò sciogliersi, e si
mossero le labbra.
«Vertumno» spiccicasti infine. «Il
mio nome è Vertumno».
Postilla
È la prima delle 14 strofe di un poemetto composto a Milano nel
1990, incluso nella raccolta delle Poesie italiane pubblicate
nel 1996 da Adelphi e tradotto da Serena Vitale.
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