27.6.19

Vincenzo Cardarelli (Andrea Camilleri)

Vincenzo Cardarelli

Quando frequentavo come allievo regista l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica a Roma negli anni 1949-1950, per un certo periodo andai ad abitare in un grande appartamento nei pressi di piazzale Flaminio assieme a tre amici che sarebbero diventati famosi: il regista Mario Ferrero, il commediografo e regista Giuseppe Patroni Griffi e Bill Weaver che si esercitava nelle prime traduzioni dall’italiano all’inglese. Verso sera convenivano altri futuri famosi come il regista Francesco Rosi, lo scrittore Raffaele La Capria, il giovane Vittorio Gassman e tanti altri ragazzi e ragazze. Possedevamo un grammofono che mandavamo a tutto spiano e facevamo le ore piccole ballando, scherzando e ridendo. Immancabilmente verso l’una di notte squillava il campanello della porta di casa, qualcuno andava ad aprire e si trovava davanti al poeta Vincenzo Cardarelli, in pigiama, che abitava al piano di sotto e che non riusciva a prendere sonno per il chiasso che noi facevamo. Una sera Mario Ferrero lo invitò a unirsi a noi, inaspettatamente egli accettò si sedette su una sedia in un angolo dello stanzone e si mise a osservarci con occhi sprezzanti. Dopo una mezz’oretta ci chiese una coperta, tremava dal freddo, e dire che era una serata caldissima, ci si avvolse e si sedette di nuovo senza cambiare espressione. Dopo un po’ si alzò e parlò a voce alta:
«Posso dire una cosa?».
«Certamente, Maestro» rispondemmo.
«Siete giovani di merda» fece con aria solenne e si avviò alla porta sempre avvolto nella coperta.
Da quel momento in poi non salì più a protestare. Un giorno che lo incontrai per le scale mi disse che si era munito di batuffoli di cotone e cera molle che si infilava nelle orecchie e con questo espediente riusciva a prendere sonno.
Cardarelli non aveva un carattere facile. Quando per esempio a Roma si seppe che Alessandro Pavolini, segretario del Partito fascista repubblicano, era stato ucciso dai partigiani egli, incontrando il figlio del fratello di Pavolini gli disse:
«Di’ a tuo padre che io godo delle sue presenti sventure».
Pativa il freddo anche in pieno solleone, una volta io assistetti a una scena incredibile. Stavo in piazza del Popolo davanti al Bar Luxor che poi sarebbe diventato Canova, era quasi l’una, il sole a picco, un caldo e un’afa difficili da sopportare, da Porta del Popolo vidi avanzare Cardarelli: aveva il cappello in testa, una sciarpa di lana attorno al collo, un cappotto invernale pesantissimo, i guanti e camminava come se si trovasse su lastre di ghiaccio. A quei tempi anche i grossi automezzi potevano traversare il Corso, arrivò infatti un camion che incontrò il poeta proprio in mezzo a piazza del Popolo, l’autista del camion frenò di colpo e scese. Era in mutande e chiaramente fuori di sé per la temperatura che doveva sopportare dentro la cabina di guida. Alla vista di Cardarelli, vestito in quel modo, prima diede in escandescenze, cadde in ginocchio urlando e bestemmiando, poi si alzò di colpo e si avventò sul poeta cominciando a spogliarlo. Con una manata gli fece volare via il cappello e poi prese a sbottonargli il cappotto mentre Cardarelli con voce acutissima invocava aiuto. Mi precipitai in suo soccorso con altri passanti ma fu assai difficile liberare il poeta dalla presa delle possenti braccia del camionista che ormai manifestava intenzioni omicide.
Una volta liberato non manifestò nessuna gratitudine, mi spinse da parte con un braccio e se ne andò rivestendosi di tutto punto.
Pare, ma non so se questa sia una leggenda metropolitana, che prima di morire le ultime parole del poeta siano state:
«Sento un gran caldo».

da Esercizi di memoria, Rizzoli, 2018

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