31.8.19

Un compagno. Per Camilleri, intellettuale militante (Romano Luperini)



Quando viene meno una persona che ha lasciato una traccia profonda nella nostra vita, la mente corre sempre al primo incontro, quasi esso già contenga in nuce il rapporto successivo e la ragione di quella traccia.
Ho conosciuto Camilleri una dozzina di anni fa. In occasione non ricordo di quale importante ricorrenza dell’Università di Siena, dove insegnavo, il rettore aveva invitato me e un altro collega a una sorta di intervista in pubblico allo scrittore, cui egli si sarebbe sottoposto dopo aver fatto una breve introduzione. La sala era stracolma di studenti e di docenti che ridevano e applaudivano, elettrizzati dall’umorismo polemico di Camilleri, che parlò non da scrittore ma da intellettuale e da militante, soffermandosi con una ironia elegante, eppure per niente spocchiosa, sulla situazione politica allora egemonizzata da Berlusconi. Quando venne il proprio turno, il collega gli fece domande di carattere stilistico e sull’uso del dialetto siciliano, che poco avevano a che fare col contenuto politico della sua introduzione. Mi colpì che si rivolgesse a lui in modo cerimonioso, chiamandolo “maestro” e dandogli del lei. Poi toccò a me, e mi venne invece spontaneo dargli del tu e porgli domande di carattere politico. Camilleri mi rispose subito con un piglio assai più animato e vivace, dandomi a sua volta del tu. In un certo senso ci eravamo riconosciuti (sto per usare, lo so, una parola fuori corso) come compagni. Poi a cena volle sedere accanto a me e mi invitò a casa sua, a Roma, in via Asiago, vicino a una sede della RAI (quella del terzo programma, mi pare). Lo andai a trovare, conobbi la moglie e la segretaria, personaggio importante e decisivo anche per la sua vita di scrittore. Una volta gli portai il mio primo romanzo, L’età estrema, ancora inedito e lui volle pubblicarlo da Sellerio. Un’altra lo invitai a collaborare a un mio manuale, trascrivendo in italiano moderno e magari anche in siciliano un paio di novelle di Boccaccio, fra cui quella di Andreuccio da Perugia: cosa che fece con entusiasmo e senza alcun compenso. Ma per la scuola collaborò con me anche in altri modi: ebbi occasione, per esempio, di farlo partecipare a un dibattito a Roma alla fine di un seminario con gli insegnanti, e anche questa volta accettò con entusiasmo.
Perché questi dettagli autobiografici? Per una testimonianza anzitutto, ma poi anche perché tutti oggi parlano dell’autore di Montalbano, del brillante intrattenitore, sempre in testa alla lista dei best seller, ma nessuno dei suoi romanzi storici artisticamente e politicamente assai più impegnati (ricordo, soprattutto, Il re di Girgenti, in cui forte è l’influenza di Pirandello, di De Roberto e di Sciascia) e nessuno, ma proprio nessuno, del suo contributo alla politica, al mondo della scuola, alla causa degli immigrati, come militante non di un partito, ma di una sinistra intesa come possibilità di impegno e prospettiva ideale.
Camilleri non è stato solo un brillante intrattenitore, capace, grazie alle sue straordinarie doti inventive (nel linguaggio, ricco, vario, infiltrato sempre da una vena dialettale, e nelle trame delle sue storie, ricche di imprevisti), di catturare con abilità l’attenzione di ogni lettore: è stato anche un fine letterato, degno erede di una grande tradizione siciliana, e un intellettuale militante. Ha compiuto il prodigio di essere nel contempo uno scrittore autenticamente popolare, un artista vero e l’ultimo intellettuale, capace di parlare non solo di letteratura, ma del mondo, l’unico sopravvissuto dopo la morte di Sciascia e di Pasolini. E una cosa purtroppo è certa: con lui muore una possibilità di essere scrittori e intellettuali insieme, con lui il Novecento è davvero finito.

Dal sito “La letteratura e noi”, 18 Luglio 2019

“Non chiamatemi ribelle”. Lou Castel; gli occhi, la bocca, la voce ritrovata. Un'intervista di Elfi Reiter

Lou Castel con Paola Pitagora nel film di Marco Bellocchio "I pugni in tasca"

Ospite del Torino International Film Festival essendo tra gli interpreti del nuovo film di Tonino De Bernardi, Casa dolce casa, abbiamo incontrato Lou Castel per parlare della sua vita tra una forte militanza politica e il lavoro di attore. Nato a Bogotà nel 1943, padre svedese emigrato e madre irlandese, era cresciuto in vari luoghi, tra cui Giamaica e New York. Ha frequentato il Centro sperimentale di Roma per studiare recitazione e ha esordito nel film manifesto della ribellione negli anni sessanta, I pugni in tasca di Marco Bellocchio. Un ruolo che gli rimane addosso come marchio, il giovane ribelle provocatore che massacra la propria famiglia (sul piano simbolico ovviamente, la morte della famiglia era un tema frequente nel cinema degli anni settanta), e molti registi italiani lo chiameranno a interpretare personaggi inquietanti (da Damiani a Lizzani, da Festa Campanile a Ferrara). Quell'aria inquietante però è anche e soprattutto fonte inestinguibile di turbamento per creare le più svariate figure dis/turbanti, e non a caso Liliana Cavani lo scrittura per Francesco D'Assisi e per (il quasi sconosciuto perché scomodo) Galileo (nel 69); Rainer Werner Fassbinder lo vuole in Attenzione alla puttana santa (71); Bellocchio lo richiama nel 72 per Nel nome del padre e dieci anni dopo per Gli occhi, la bocca; Chabrol gli affida il ruolo di terrorista di sinistra nel suo affresco politico-rivoluzionario ispirato alle vicende della Raf in Germania e delle Br in Italia, Sterminate il Gruppo Zero girato nel 1974. Recita a Berlino guidato da Helke Sander in Der Beginn aller Schrecken ist Liebe (t.l. L'inizio di ogni terrore è l'amore, nell'84) e, ormai trasferitosi in Francia, è con Raul Ruiz (La presenza reale, L'isola del tesoro, entrambi nell'85), Philippe Garrel (Elle a passé tants d'heures sous les sunlights...) nell'85 e più tardi nel più noto La naissance de l'amour con Jean Pierre Léaud. Entra in contatto con Gérard Courant, cineasta, scrittore, critico e poeta francese tra i più prolifici nel campo sperimentale, per partecipare alla sua opera mammuth Cinématon (da Cinéma e photomaton) composta da tantissimi brevi ritratti delle più diverse personalità del mondo della cultura in generale (da Samuel Fuller a Youssef Chahine, da Arrabal a Jean Francois Lyotard, Otto Sander, Francois Mitterand, Félix Guattari, per nominare alcuni degli attualmente 2.716 ritratti raccolti). Lo stesso Lou Castel (il cui ritratto è il numero 501) ha iniziato da tempo a creare le proprie opere (in video) seguendo uno schema di inquadrature fisse di più o meno lunga durata nel tempo.

Ci racconti il tuo iter da attore a autore e viceversa?
La mia prima regia risale al 1998, quando realizzai Just in time con Robert Kramer (chi non ricorda i mitici film Route One e Doc's Kingdom di questo grandioso cineasta di origini Usa morto asoli sessant'anni nel 1999 in Francia? ndr).La storia narrata in tredici minuti, vedibile su youtube, si può riassumere in tre parole: sesso, pistole e droga. Avevamo capito da subito che eravamo uguali... A partire da lì era nata per me una ricerca durata alcuni anni per cui producevo inquadrature fisse con un determinato numero di immagini che poi moltiplicavo dapprima sedici volte, poi nove e infine sei volte, creando un legame col fattore tempo, usando vari argomenti, evitando il montaggio. Per porre fine a questo periodo avevo spaccato la lente del proiettore.

Per passare a quale arte?
Nel 1999 mi sono operato all'anca e volevo fare 99 dipinti di un metro quadrato, una visione cronologica, poi ridotti a quadrati di 33 centimetri. Ne ho realizzati cinquanta. Ora sono arrivato al rettangolo, più piccolo, colorati nella più pura astrazione.

Sei stato assente dall'Italia per oltre vent'anni, come mai?
Me n'ero andato negli anni ottanta, uno dei motivi, non l'unico, era che all'epoca nel cinema italiano c'era il cosiddetto volto-voce degli attori italiani, per cui molti doppiatori avevano trovato una loro faccia e una loro notorietà. Mi spiego, all'epoca molti attori erano doppiati, io ero tra quelli e a dire il vero mi sentivo molto alienato. Non avevo voce, ero soltanto un volto, un corpo. Ciò mi aveva creato un'esistenza monca sul piano professionale come attore. A mio avviso questo mio «essere muto» si era poi protratto anche nella mia vita privata. Mi sono sentito come centrifugato, buttato «fuori» dal mondo, e avevo capito - e quindi deciso - che avrei potuto recitare unicamente nel cinema francese, con certi autori però. Con cui poi ho anche lavorato: Philippe Garrel, nel suo La naissance de l'amour, Gerard Courant, Pascal Bonitzer. Ho partecipato anche a un corto,di cui non ricordo il titolo, in cuisi era sperimentata per la prima volta la skycam a distanza e la cinepresa volava sopra di me come una farfalla mentre recitavo un monologo.

Prima ancora eri in un paio di film di Wenders, hai girato con Fassbinder in Germania...
Avevo girato un po' l'Europa, ma il mio centro artistico era la Francia, dove uno dei più importanti incontri era Raul Ruiz, nei primi anni ottanta e poi a metà anni novanta per Tre vite e una morte con Marcello Mastroianni: avevamo inventato lì per lì una scena, talmente forte era l'affinità attoriale e Ruiz ci chiese come mai nessuno aveva fatto recitarci assieme prima. Da copione c'era Roland Topor in coppia con me per fare due mendicanti straccioni.

Com'era lavorare con Ruiz?
C'era una gran stima reciproca. Mi conosceva dai precedenti film girati in Italia e Germania, e mi fece recitare liberamente. Era nata un'intensa amicizia intellettuale che ci aveva avvicinato molto, forse per analoghe esperienze vissute? Anche lui veniva dal Sudamerica e la Francia non era il suo paese. Mentre girava, ci raccontava il film come l'aveva in testa, le inquadrature, le scene, i tagli nel montaggio, aveva previsto tutto!
Mi ricordo che rimasi molto impressionato dai suoi racconti e di come si ricordava la prefigurazione di oltre duecento scene. Meraviglioso! E ancor più affascinante sono i suoi lavori più sperimentali, per non parlare di lui come teorico del cinema.
In occasione della sua morte (agosto 2011, ndr) ho ritrovato un suo saggio sul tempo nel cinema, che sono due tempi che si accompagnano vicendevolmente, uno più inciso che determina tempi e forme nel linguaggio cinematografico, e l'altro che scorre, e lui era sempre alla ricerca del primo da far incrociare con l'altro e gli stimoli per il suo sperimentalismo, li prendeva ovunque.

Hai accennato a esperienze analoghe sul piano politico-culturale tra te e Ruiz,ci racconti un po' di più?
Forse perché entrambi venivamo da paesi latino-americani? L'aver vissuto in Colombia e nella giungla, credo, abbia influenzato il mio immaginario, ne avevo sentito rumori e profumi, la sua dimensione selvaggia da bambino l'ho sempre vissuta tra choc e sorpresa. Ruiz è stato militante nelle file del partito di Allende. Per entrambi però ai tempi del nostro incontro era già tutto molto cambiato, come lo è oggi rispetto ad allora.
Certo, le idee sono sempre le stesse! (sorride) Ricordo che gli portavo i numeri di Alfabeta sul set, avendo sempre con me gli scritti politico-culturali che risalivano ai tempi in cui vivevo a Milano, dove conoscevo l'ambiente attorno alla rivista. Per farla breve, lavorando nel cinema con tutti quegli autori ho potuto portare avanti un discorso politico dopo che qua era finito tutto, dopo il 1979.

In che senso?
C'è stata una sconfitta, benché avessimo cambiato molte cose, dopo la repressione del 7 aprile e gli arresti di Autonomia Operaia. Ci siamo detti piuttosto che farci ammazzare. Del resto ero già stato espulso in modo violento dall'Italia nel 1972, in base a una legge del Codice Rocco per cui potevano dire che ero un elemento pericoloso e chiedere l'espulsione. Assieme a me c'erano alcuni palestinesi, anche loro espulsi.

Perché ti avevano espulso?
Non lo so. Alla conferenza stampa organizzata da un gruppo di cineasti, tra cui Liliana Cavani, per denunciare lamia situazione assurda, inVico del Piombo c'erano 15 poliziotti ad aspettarmi, perché mi ero nascosto per qualche giorno, mi invitarono a salire in macchina e mi portarono al commissariato centrale. Pensavano fossi armato, mi perquisirono e insultarono, per poi condurmi direttamente a Fiumicino e accompagnarmi fin dentro l'aereo. Per fortuna ci fu un giornalista del Messaggero che scattò quella foto di me col pugno alzato mentre salgo sull'aereo. Mi fecero partire senza niente, a inizio inverno, per Stoccolma, che non conoscevo, ma avendo il passaporto svedese... Là mi aspettarono i giornalisti di destra, perché ero il divo italo-svedese! Mi ricordavo il nome di un regista svedese, la cui sorella mi ospitava, mentre da subito c'erano manifestazioni a mio favore essendosi formato un movimento nella scena teatrale e cinematografica. Il gruppo del Filmverlag der Autoren era già al corrente, Wim Wenders mi volle per il suo film La lettera scarlatta e mi chiamò a lavorare con sé. Dopo ero andato su un'isola greca con una scrittrice nel periodo dei colonnelli.
Ma il filo conduttore era sempre stato fare l'attore, era la bussola che mi motivava nella mia vita. Voglio aggiungere due cose sul rapporto con la cinepresa: non ero mai passivo, ho sempre voluto sapere dov'era, fin dove si sarebbe mossa, eccetera. Gli altri attori no. Forse era dovuto a quella separazione tra voce e corpo, tra l'attore che agisce unicamente col corpo e l'attore che parla ripetendo le battute in scena?

Tu che hai vissuto quel periodo in cui si girava e poi si doppiava con altre voci: quali impressioni ti porti dietro?
Di storie del cinema ce ne sono tante, in fondo, a Roma non c'era un vero movimento, incisivo e importante, come lo eraquello dei Cahiersdu Cinema in Francia. Esisteva Filmcritica, ma non aveva cineasti seguaci per generare qualcosa di innovativo e fondante capace di creare una controcorrente. C'era un «essere nell'azione», come nel mio caso in Pugni in tasca, agito da pulsioni, dagli scatti durante le scene. Questo mio modo di recitare poi è proseguito negli altri film, alternando produzioni autoriali a commerciale, ma al centro rimaneva sempre il mio corpo, il mio agire fisico. La mia storia l'ho fatta così: ho detto no a Visconti e sì a Bellocchio. Nel Gattopardo non mi sarei sentito a mio agio come attore, e in questa scelta era già forte la mia consapevolezza politica. Sembra niente, ma definisce molto bene gli anni settanta.

Intendi il dualismo tra Gattopardo e I pugni in tasca?
Non dei film in sé, ma per quanto riguarda il mio destino. Visconti aveva quasi tutti attori della mia generazione, mi aveva visto come comparsa nella scena del ballo e mi chiamò per chiedermi se ballavo il tango. Gli dissi di no, lui mi avrebbe voluto, ma la mia giornata di lavoro era già terminata... Ricordo che era un'estate caldissima, girare quella scena in quel palazzo fu un vero inferno, le donne strette nei corsetti svenivano una dopo l'altra, gli uomini stavano in un altro piano, più riparati. Era tutto un po' strano quel dietro le quinte, di cui per altro non si parla mai in generale, di quei rapporti di forza e di potere che si instaurano su un set. Visconti mi aveva notato perché già allora rappresentavo quel che si diceva «un ribelle», termine che mi dava molto fastidio. Ricordo che entrò il direttore di produzione, io ero sdraiato per terra e lui mi disse, in inglese, che non si poteva stare sdraiati e che Visconti mi voleva vedere, subito! Io gli risposi con calma dicendo che mi poteva parlare in italiano e che non c'era bisogno di agitarsi. Eravamo oltre trecento comparse, la scena finita è bellissima! Mi piace molto con tutti quei costumi.

Toglimi una curiosità: all'epoca non ti hanno fatto dire le battute perché eri straniero e non parlavi un italiano, come dire, perfetto, oppure perché era la prassi, come narrano certe leggende a proposito delle riprese dei film di Fellini, di far dire «un, due tre» agli attori e registrare l'intera colonna sonora in fase di post-produzione?
La mia storia è più complessa. Avevo frequentato i corsi dell'Actor's Studio a Roma in cui insegnavano sia tecniche di recitazione di Strasberg che la transe africana. Subito dopo ho fatto I Pugni in tasca buttandomici con impeto, in tutta la mia vulnerabilità, senza alcuna difesa dalle emozioni del personaggio, e ho inventato la tecnica che poi avrei chiamato «deformazione professionale» in cui usavo unicamente il corpo mosso da scatti nervosi. Una tecnica latente, perché non ne ero cosciente all'epoca. Solo nel 1984 ho scoperto cosa voleva dire recitare, ossia lavorare con la voce. Fu durante le riprese di Campo Europa nelle Cinque Terre, per la regia dello svizzero Pierre Maillard, in cui recitavo in inglese, e quindi la ragione non era la lingua avendo già recitato più volte in inglese mantenendo ferma quella separazione, no, il fattore importante fu il luogo: eravamo sul mare, c'era silenzio, i treni passavano o non passavano, i marinai parlavano a voce alta. Un giorno nel riguardare una scena sul monitor sentivo la mia vocina, piano piano, in lontananza, e tutto d'un tratto mi era salita un'identificazione, dentro. Quella era la «mia» voce?! Di getto scrissi un testo sulla separazione di lavoro che avevo sempre cercato di superare, il montaggio, le posizioni della cinepresa, etc., pensando che erano momenti di interruzione, di rottura, ma avevo capito che fino a quel momento mi ero sentito sdoppiato perché espropriato appunto della battuta.

È stato pubblicato?
Sul catalogo della retrospettiva dedicatami nel2000 a Parigi.

In che lingua avevi recitato con Bellocchio?
L'attore in una foto del 2012
Dapprima in inglese, poi in italiano, anche se non bene, l'ho imparato recitando. Nella figura di Bellocchio vedevo una certa cultura italiana, d'impegno, lucida, il suo creare tensione nel senso positivo - ho incorporato tutto. C'erano stati due registi a farmi recitare in passato: Monicelli e Chabrol. A Monicelli andava bene il mio accento romano per il suo Rosa, in teatro nel 1981 con Carla Gravina. Mi aveva visto come attore comico e aveva ragione! A Chabrol suonava un accento di una certa regione francese e anche per lui ero comico, d'altronde lui ha un humour incredibile! Va aggiunto, forse, che in Francia ho passato alcuni anni felici della mia infanzia, tra i dieci e i tredici anni, nella scuola con pedagogia rivoluzionaria di Freinet (fondata nel 1935 da Céléstin Freinet a Vence fu la prima scuola senza classi, in spazi aperti, supportata dal movimento operaio, dove l'insegnamento era basato sull'espressione libera dei bambini; ndr). Poi c'era il condizionamento di parlare cinque lingue, di cui una sola senza accento, lo svedese. Tardi, ma non troppo ho cominciato a vivere lo spazio attorno a me come casa, e ciò è avvenuto grazie alla pittura. Ero nella casa vuota a Parigi, piena di enormi rulli di plastica trasparente, mi piaceva rollarmici dentro e dipingere sul mio corpo nudo,protetto dalla pellicola, a volte in modo anche violento col colore steso a mani nude nel buio o sul balcone sotto la pioggia. Mi scatenavo per l'effetto finale dove, appena srotolato dalla plastica, la dimensione della pittura era sparita e sentivo attivarsi profondamente dentro di me quella dell'abitare: stavo conquistando un nuovo stare nello spazio. Un fenomeno bellissimo, tuttora lo pratico, in modo diverso, raccogliendo pezzi per strada da cui compongo sculture. Il mio periodo francese è stato per me una vera liberazione, un'apertura in me.

• Com'eri passato a suo tempo dal personaggio dei Pugni in tasca al Francesco d'Assisi sotto la guida di Liliana Cavani? Così diversi ma anche simili...
Ci fu una grande distanza: un anno di inattività nonostante il successo del primo film. Ricordo con affetto una visita di Stefania Sandrelli per incoraggiarmi. Poi, improvvisamente, per strada il figlio di Prosperi mi disse che la Cavani faceva i provini per il suo Francesco, ci andai e appena mi vide, disse: è lui! Secondo me, non era proprio così, so che le era piaciuto molto anche un mio amico fotografo che lavorava per un quotidiano di Roma, con cui una volta ero andato in casa di Gina Lollobrigida, giusto per vederla dal vivo! Fu lui, benché non attore, a rappresentare per lei la figura fragile di Francesco d'Assisi, ma poi s'era convinta grazie al rapporto instauratosi durante il provino, analogo a quanto era avvenuto con Bellocchio. Un episodio stranoto: la cinepresa pronta, lui dà «azione», sento il click, la macchina non parte e io scoppio in un fou rire, per cui rido a crepapelle e lui grida felice: è lui, è lui! Per me fu davvero comico il fatto che la cinepresa non fosse partita. Poi, dopo Francesco arrivò il ruolo nel western Quien Sabe? di Damiani, seguito da Requiesciant di Lizzani, personaggio nuovamente opposto. Questo alternarsi si era fermato nel 68 con Grazie zia!, opera prima di Salvatore Samperi, che in modo sbagliato vedevo come continuazione dei Pugni in tasca, quando fu un film molto creativo e sperimentale e il regista aveva scelto me perché avevo appena recitato con Aldo Braibanti in una pièce sperimentale, accusato di plagio.

Un compagno di strada di Alberto Grifi.
Ho girato con lui Virulentia, dove Grifi sperimentava coi suoi obiettivi. Mi fece vedere un video poco prima di morire, una delle ultime volte che venne a Parigi per mostrare le sue opere vidigrafate, era diventato un vero scienziato del cinema! Eravamo un bel gruppo allora, con Aldo, Alberto e altri, ci divertivamo un sacco, negli anni sessanta. È curioso come di quel gruppo poi non fosse rimasto quasi nulla. In Germania, ne parlo perché sono appena tornato da Berlino dove ho partecipato a una manifestazione sulle esperienze teatrali negli anni sessanta, c'era l'Aktionstheatere una volta sciolto ognuno ha intrapreso carriere diverse, da Werner Schroeter a Fassbinder, da Margarethe von Trotta, Hanna Schygulla. E non è importante quello che facevano dopo, ma bisogna immaginare che erano un gruppo di amici che vivevano e lavoravano insieme nella quotidianità. Come avevamo fatto noi, e il tema a Berlino era proprio questo: condividere esperienze artistiche nel quotidiano per poi elaborarle professionalmente.

ALIAS – IL MANIFESTO, 5 GENNAIO 2013

Liliana Cavani: «Io, il sesso e le tante censure. In Italia aprirei solo scuole». Un'intervista di Giuseppina Manin



«Fosse per me in Italia farei solo scuole. Scuole, scuole, scuole... Il bene primario, ma da noi nessuno se ne occupa. Se si vuol far crescere un Paese è lì che bisogna investire. Il sapere è l’unica garanzia di progresso, civiltà, benessere. Altrimenti vinceranno “gli altri” quelli che ragionano non con la testa ma con le armi». Liliana Cavani, 86 anni di battaglie, di cinema e di vita, guarda dritta al futuro. E il futuro per cui val la pena di esistere e sognare per lei comincia dalla materia prima per diventare cittadini, l’educazione. «Va difesa, bisogna ridarle peso e qualità, approfondire la conoscenza del passato. Altro che tagliare storia e storia dell’arte! E poi, sostenere gli insegnanti, così vilipesi e sottopagati».

Da come ne parla, a lei la scuola ha dato molto.
«Non sono stata un’alunna modello. Ho cominciato male, alle elementari a Carpi, dove sono nata, finivo spesso in castigo. Tutto è cambiato al liceo, a Modena. Ottima scuola, professori che mi hanno fatta innamorare di greco, latino, filosofia. E poi Lettere Antiche a Bologna, avrei voluto fare archeologia ma non conoscendo il tedesco... Mi laureai in Filologia linguistica, tesi sul dialetto della mia regione».

A Carpi è rimasta sempre legata.
«Tutto è cominciato lì. I miei genitori si sono separati presto, mio padre è sparito, non porto neanche il suo cognome. Non l’ho voluto. E la mamma era un po’ naif, spesso in Liguria per sospetta Tbc, quando tornava a Carpi mi portava al cinema. Sono cresciuta con i nonni e gli zii, in modo laico e libertario. La passione per la politica, il gusto per la ribellione li ho respirati in quella famiglia della Romagna di una volta, il nonno anarchico e sindacalista, la zia Delfina discriminata a scuola perché si rifiutava di indossare la divisa del fascio, la nonna che appoggiava la Resistenza. Ero bimbetta quando vidi in corridoio una borsa piena d’uva, mi avvicinai per piluccare qualche acino, scoprendo nascoste sotto i grappoli delle bombe. Intanto in cucina la nonna stava discutendo con due partigiani, loro volevano sgozzare due prigionieri tedeschi, lei insisteva per un giusto processo».

Clima rovente, aveva paura?
«Ma no! Il paese era piccolo e diviso in due. Tutti sapevano che noi eravamo contro i fascisti, tutti sapevano che il nostro vicino di casa era un fascistone. Eppure mia nonna era molto amica di sua madre, la difendeva, “non ha colpa se il figlio è uno squadrista” diceva. I valori erano opposti, si è sfiorata la guerra civile, ma ci si parlava. Una tolleranza oggi perduta, con così tanta gente piena di odio, incarognita a difendere il proprio piccolo castello».

Quella visione di stampo sociale l’ha segnata per sempre?
«Mi ha dato le ali per volare senza tema. Mio nonno, tra una boccata e l’altra di toscano, ogni tanto mormorava convinto “Eppur si muove”. Una frase che mi tornò buona quando girai Galileo. Suggerii a chi lo interpretava di avere, al momento dell’abiura, quell’espressione di certezza».

«Galileo» girato nel ‘68, vietato ai 18 anni, mai visto in tv...
«Troppo anticlericale dicevano allora. E anche dopo visto che né Rai né Mediaset l’hanno mai mandato in onda».

La sua prima censura per un eretico. Ma anche il santo Francesco d’Assisi non ebbe vita facile.
«Non piacque che a interpretarlo fosse Lou Castel, reduce dai Pugni in tasca di Bellocchio dove faceva fuori tutta la famiglia. Ci fu un’interpellanza parlamentale, il patrono d’Italia non poteva avere quella faccia. Ma io volevo raccontare un ribelle, mica un santino».

Fu il suo film d’esordio, come riuscì a realizzarlo?
«Grazie alla Rai di un tempo. Dopo la laurea ero venuta a Roma, tentai il concorso Rai: 11mila partecipanti per 30 posti. Prova finale sul Wilhelm Meister di Goethe. Oggi sa di fantascienza, ma anche allora non è che l’avessero letto tutti. Per caso io sì, comprato su una bancarella pochi giorni prima, edizione Bur. Passai l’esame. Iniziai con dei documentari, il Terzo Reich, le Donne della Resistenza... Poi mi capita in mano un altro libro, la Vita di Francesco di Paul Sabatier, storico eretico messo all’indice dalla chiesa. Vado da Angelo Guglielmi, gli dico che voglio farne un film. L’idea gli piace ma bisognava trovare i soldi. Gli viene in mente un giovane, Leo Pescarolo: “Mangiamo una pizza con lui”. Pescarolo, simpatico e pure bello, voleva iniziare la carriera da produttore. Il suo primo film fu il mio. Partii per l’Umbria, cinepresa a mano, troupe di 7-8 persone, ma con un gigante delle luci come Domizio Ercolani. Abbiamo girato in povertà davvero francescana. Costo totale 30 milioni».

Soldi ben spesi, il film andò dritto al festival di Venezia.
«Era il ‘66, Rossellini vi portava La presa del potere da parte di Luigi XIV. I critici decisero che il suo e il mio erano i due film più belli della Mostra. Ci intervistarono insieme come il maestro e l’allieva. Alloggiavo al Des Bains, mi sentivo chissà chi...».

Trasmesso in due puntate, Francesco fu visto da oltre 20 milioni di spettatori.
«La prima mini-serie Rai! Un successo che mi permise di andare avanti nella mia indagine, di girare un secondo (con Mickey Rourke) e poi un terzo film, sempre su Francesco. Così avanti nei tempi per il suo amore per la natura, la sua idea di fraternità, ben più interessante dell’uguaglianza della sinistra. Non si può essere uguali, ma fratelli sì».

Bollata come cattolica dai comunisti, estremista dai democristiani, messa al rogo dai benpensanti per «Il portiere di notte», film-scandalo degli anni Settanta.
«Non era mia intenzione. Il tema, una donna scampata a un lager che ritrova il suo aguzzino e inizia con lui un rapporto sado-maso, era disturbante. Ma lo spunto era reale. Anni prima una signora della Milano borghese sopravvissuta a Auschwitz mi aveva confidato di una relazione oscura nata lì, che le aveva permesso di salvare la vita ma l’aveva lasciata morta dentro. Il Portiere è nato così. Da quel legame melmoso vittima-carnefice, metafora di tanti conflitti irrisolti. Dirk Bogarde e Charlotte Rampling hanno saputo interpretarlo con la dolorosa ambiguità necessaria. Quando il film uscì in Francia, Le Nouvel Observateur parlò de Il portiere “della” notte, il custode delle tenebre che hanno generato fascismo e nazismo. L’irrazionalità e la paura in cui l’Europa è tuttora immersa».

All’estero si accesero dibattiti sul nazismo sommerso, in Italia la censura vide il sesso...
«Fu ritirato tre volte. Poi vietato ai minori di 18 anni. Quando chiesi a uno della commissione di censura il perché di quel divieto, mi rispose: “Perché c’è una scena erotica dove la donna sta sopra l’uomo”. Restai di stucco. Trovai solo la forza di mormorare: “Beh, capita”».

Cosa è stato il cinema per lei?
«Una passione e una salvezza. Lavorare con una troupe è difficile, ma trovi sempre gente animata dal desiderio. Il cinema salva dal pessimismo».

Vale anche per il teatro e la lirica?
«Certo. I meccanismi sono gli stessi. L’opera mi coinvolge, mi emoziona, ne ho dirette tante... La Traviata realizzata anni fa per la Scala è diventata uno spettacolo-simbolo, l’anno prossimo la porteranno in Giappone per le Olimpiadi».

Il cinema italiano di oggi?
«Mah, mi pare che si occupi solo di mafia. Film, serie tv, traboccanti di malavitosi violenti, volgari... Dicono che è denuncia. A me sembrano solo pessimi modelli da proporre ai giovani. Sono così contraria a questo genere di film che, pur amandolo moltissimo come attore, non ho perdonato a Brando di aver offerto il suo talento al Padrino».

E il cinema italiano di ieri?
«Il più grande è stato De Sica. Dovessi salvare un film dall’apocalisse non avrei dubbi, L’oro di Napoli. Dentro c’è tutta l’Italia. Non ho mai incontrato De Sica ma amo ogni suo film, li proiettavo al cineclub che tenevo a Carpi».

Ora i cineclub sono quasi spariti e i grandi film del passato non li conosce nessuno.
«Andrebbero insegnati a scuola! Se non hai visto tre De Sica, tre Bergman, tre Fellini, non puoi dire di amare il cinema. I cineclub spariscono? Fossi sindaco, li darei da gestire agli anziani. I cinema di quartiere dei nonni per far scoprire i capolavori del passato ai nipoti».

E lei, quale film vorrebbe ancora realizzare?
«Le idee sono tante... Avevo in mente un film sul Bosone di Higgs, le nuove frontiere della fisica sono più affascinanti di qualsiasi fantascienza. Se il tempo non esiste non esiste neanche la morte... Non finisce nulla, si cambia! La nuova fisica è come la fede, ti dà speranza di continuare a vivere in altri modi... E la speranza è la virtù più civile che ci sia. Ma questo ai produttori fa sbarrare gli occhi. Adesso ho pronta una storia dei nostri giorni che riunirà due attori a me cari, Charlotte Rampling e Mickey Rourke. Ho finito di scrivere il copione, vediamo se riuscirà a andare in porto».

Corriere della Sera, 8 luglio 2019

30.8.19

Insulti di paese e pessime figure (S.L.L.)

Gianni Rivera

Non so oggi; con il grande movimento delle persone e con l'apporto di ogni forma di comunicazione moderna e postmoderna, moltissimo è cambiato; ma a mia memoria, al tempo della mia infanzia, quando vivevo in un paese sostanzialmente chiuso in se stesso, figliu di buttana si usava molto raramente nella sua accezione benevola, per indicare persona abile e spregiudicata, ma quasi sempre era insulto pesante, che feriva, anche se non sempre era riferito ai comportamenti della genitrice, quanto a quelli – considerati pessimi – del destinatario dell'insulto. Diverso era, se ben ricordo, l'uso di figliu di ba(g)ascia, la cui gravità era più collegata al contesto e di cui era più frequente un'utilizzazione giocosa, specie con l'aggiunta di un aggettivo enfatizzante: gran figliu di ba(g)ascia, grandissimu figliu di bag(a)scia. La g si sente e non si sente come quella di (g)arrusu, altro insulto temibile, che il contesto poteva rendere accettabile se non addirittura affettuoso: non valeva più “omosessuale”, ma “furbo”, specie se usato in forma alterata (g)arrusazzu o con l'aggettivo gran.
Gli insulti ai “figli di” avevano come variante il cambio di destinatario: si diceva to ma' buttana - o anche buttana di to ma'; to ma' bag(a)scia - o anche bagascia di to ma'.
In paese qualche decennio fa aveva aperto una trattoria popolare, molto frequentata, con sull'insegna il nome Tomasc, un mio vicino di casa e quasi coetaneo, oltre tutto milanista. È morto non molto tempo fa e m'è dispiaciuto, trattandosi di persona buona, onesta e affabile. La prima volta che vi andai a mangiare, chissà perché, m'era venuto in mente che quel locale vagamente si ispirasse al “Meo Patacca” di Roma, altrimenti detto “Alla parolaccia”. Così, in maniera assolutamente innocente, dissi all'oste: “Birbante! Che significa quel Tomàsc, to mà ba(g)asc?”. Si fece serissimo e mi guardo così male, che più non avrebbe potuto. Disse; “No, significa Totò, Maria, Silvia e Claudia”. Erano i nomi suo, della moglie, delle figlie.
Per alcune volte, quando ci tornai, mi salutava appena ed evitava di venire al tavolo. Riuscii a ritrovarne la cordialità e il sorriso parlandogli di Rivera.

Il diario da non nascondere. Due giovani comuniste italiane nella Cina degli anni Cinquanta (Rossana Rossanda)

Edoarda Masi

Settembre 1957. Due giovani donne italiane, comuniste, Edoarda Masi e Renata Pisu arrivano a Pechino con una borsa di studio. L’università Beida è un antico parco, nel quale si affollano in modeste abitazioni, due o tre per stanza, studenti di tutto il mondo in cerca della Cina, fra delusioni già patite, speranza, inquietudine. E sperimentano una realtà doppia: docenti interessanti e regole sciocche, libertà di relazioni fra stranieri ma non con i cinesi, il «noi» e il «loro» — i funzionari che nell’amministrare il campus lo sorvegliano. E la divisione fra campus e città — Pechino, dove si va quando si vuole ma come vanno i turisti. Si studia in Cina fuori dalla Cina.
Le orecchie già ritte per questo scontro, per così dire, morbido, assisteranno pochi mesi dopo allo scontro duro, la «seconda campagna di rettifica» contro gli «elementi di destra». Assistono, vedono, non possono partecipare, non vengono informati. I dazibao coprono i muri di accuse: le «masse» sono un groviglio inesaurito di rancore, dove quasi nessuno ha nulla, e chi ha un libro o una stanza di più, o la parola, appare privilegiato.
Fra partito e masse, i maestri che i ragazzi amano di più sono nella tenaglia. Moltissimi dovranno lasciare Beida per andare in fabbrica o in campagna, dopo pesanti sedute di autocritica. Severe fin dall’inizio verso i funzionari — la Vecchia, il Fesso, la Cretina — le due ragazze vedono in silenzio e orrore quella che Mao chiamerà qualche anno dopo «la nuova razza di signori che pesa sulla schiena del popolo» demolire crudelmente «senza violenza» una leva intellettuale stremata e fragile — molti si uccidono.
Una delle due, Edoarda, rompe. Toma in Italia. Ha tenuto un diario e lo riscrive in terza persona. Raniero Panzieri lo propone a Einaudi. I ganbu, i «funzionari Pci», lo bocciano. E lei stessa sembra pensare che, nella «guerra fredda», non si debba parlare della Cina. Nell’ultima passeggiata in barca, l’amico più caro e sofferente le aveva detto: “Non parlate male di noi”? Il diario è un «libro da nascondere».
Tornerà in Cina nel 1974-76, scriverà, pubblicherà. Oggi vedo quei suoi lavori interiormente legati al diario: parlano di una diversità, d’uno scontro alto, forse liberatorio, sono libri severi, appartati dalla gazzarra, preziosi.
Poi c’è Tianammen. Nel 1991 Edoarda Masi toma ancora una volta, tutto è finito, vuole solo visitare gli alti luoghi medievali, turista fra insopportabili turisti. Ma lei sa. Sente, può sedere su un muretto accanto a una vecchia venditrice di frittelle, ascolta, gli occhi aperti su quel che la Cina è diventata. Non era andata per questo, ma le balza addosso la «sua» Cina, amata e abominata, e soltanto ora degradata. Come se uno sberleffo le fosse disegnato sui lineamenti. E quelli di allora, che le erano stati insopportabili, le appaiono rigidi ma puliti, sofferenti ma dignitosi, crudeli ma non sfigurati.
Tornata in Italia, ci scaglia il diario del ’57-’58, con dieci pagine piene di dolore e collera. Lo chiama Ritorno a Pechino (Feltrinelli, 1993). Non è il diario d’un ritorno, ma di quel primo viaggio. Ma è un ritorno interiore, a quello che era stato «il libro da nascondere». Così aveva chiamato del resto, traendolo da Lu Hsun, una rilessione chiave su di sé, uscita nel 1985.
Ci sono due modi di leggere Ritorno a Pechino. Uno per conoscere la Cina, della quale Edoarda è, per quel che ne so e posso capire, lo sguardo più calibrato, appassionato e sapiente. Edoarda non mente mai. Edoarda dubita quindi rende giustizia. Edoarda è l’opposto dell’attuale cultura politica. Chi legge stando dalla sua parte, attraverserà Ritorno a Pechino con sentimenti contrastati, angoscia, domande, illuminazioni.
Ma c’è un secondo modo di avvicinare quel diario: come una storia di giovani comunisti che nel 1957 fanno un apprendistato di sé. Esso ha del resto le scansioni dell’iniziazione, l’entrata nel mondo altro, che si restringe a una città che si restringe in un campus, anzi una stanza. Ma di là scopre non solo per gradi, ma per prove — gli altri separati, come la zona più antica e frequentata del parco, dove i docenti vivono in due stanze fra gli alberi, pile di libri e una lampada accesa.
Parlare è difficile. Quel che è detto va interpretato. Le due si inoltrano con la diffidenza di giovani gatte, libera zampa su un terreno sfuggente, ritratto di comuniste inconsueto nell’iconografia del post ’89 che ci voleva devoti e imbambolati. Tutti i giovani del diario sono, come loro, irrequieti, increduli, ironici.
La differenza sta nella valutazione, dal cinismo alla sospensione di Edoarda, nel diario Lia, la più attenta. Quella che se ne andrà per prima, è la prima che crede un giorno, davanti a una diga di terra, di intravedere un colossale tentativo di riscatto di poveri per mano di uomini che non sanno o non vogliono o non possono renderli liberi. Costoro non appaiono, non sono interrogabili, terminali afasici d’una macchina orwelliana. Lia se ne ritrae come s’era ritratta dall’ascoltare Zhou Enlai quando arriva preceduto da divieti. Come lui, le ragioni sono lontane, neppure cercate — sono «non ragioni», se è vero che uno degli amici cinesi non spezzati le dice: non è che per noi la libertà conti meno, gli uomini sono eguali. E tuttavia, che significa libertà per chi muore per la miseria imposta dalle «democrazie» ricche? Nel Libro da nascondere Edoarda ci aveva detto dell’essere nata occidentale e non povera come una colpa, la prima delle separazioni, l’impossibilità di essere in pace con sé. All’odio per chi predica rassegnazione («i preti») si somma in lei un’impazienza per i «marxisti»: la lotta di classe avviene già fra privilegiati per rapporto a quelle povertà. Sfruttamento è una cosa, povertà è un’altra. Siamo sfruttati e affamatori.
In poche righe scoscese, riprende il tema negato nel 1958 — la Cina è una alterità, l’alterità è la spossessione e lo sguardo implacabile che leva su di noi. Quella rivoluzione non operaia andava capita. Perdonata? Non perdonata. La contraddizione è insolubile.
Il percorso di Edoarda Masi è in senso proprio tragico. Nelle parole composte e nel periodo scarno, questo libro violento è una testimonianza dei comunisti in questo secolo, quelli a monte del marxismo per insofferenza delle sue hegeliane scomposizioni e ricomposizioni.

il manifesto, 21 maggio 1993

Neuroni specchio. Lo psicoterapeuta Giancarlo Dimaggio intervista lo scopritore, Giacomo Rizzolati


I neuroni specchio sono stati scoperti circa 20 anni fa, grazie a Giacomo Rizzolatti: si attivano non solo quando viene effettuata un’azione, ma anche quando si vede qualcun altro svolgere un’azione simile e sembrano avere un ruolo anche nelle interazioni sociali, aiutandoci a capire scopi ed emozioni di un'altra persona. Per la “Lettura” del Corsera, in occasione della pubblicazione di un nuovo libro, che Rizzolatti ha scritto insieme al suo collega Corrado Sinigaglia, lo ha intervistato lo psicoterapeuta Giancarlo Dimaggio, dialogando con lui soprattutto sulle implicazioni delle sue scoperte di neurofisiologo nel campo della psicologia sociale e della psicologia dello sport. L'articolo risulta molto interessante anche per i non specialisti. (S.L.L.)

Giacomo Rizzolatti

Viviamo immersi negli scambi sociali, decodifichiamo in diretta gli scopi delle azioni degli altri. È un’operazione che sembra richiedere un impegno cognitivo enorme. Il ragionamento è troppo lento, ci servono meccanismi più veloci. I neuroni specchio costituiscono la base per sapere all’istante cosa vuole l’altro, che emozione prova e come vive l’esperienza. Daniel Stern parla di forme vitali, i modi del sentire: una stretta di mano energica o fiacca, un’ira fredda o esplosiva. Come le intuiamo? Grazie ai neuroni specchio l’altro agisce in un certo senso dentro di noi. Nell’ultimo libro: Specchi nel cervello. Come comprendiamo gli altri dall’interno (Raffaello Cortina 2019), Rizzolatti e Sinigaglia mostrano come gli stessi neuroni ci permettono di intuire velocemente cosa l’altro prova e come.

Professor Rizzolatti, innanzitutto, ci può dire in modo semplice cosa sono i neuroni specchio?
Circa 20 anni fa abbiamo scoperto dei neuroni, motori, che si attivavano non solo quando la scimmia agiva, ma anche quando vedeva lo sperimentatore fare un’azione simile. La sorpresa era questa: i neuroni motori sono motori, quelli visivi sono visivi. Questi invece erano sia motori che visivi e soprattutto rispondevano selettivamente allo scopo dell’azione. In un esperimento, ad esempio, la scimmia afferrava un oggetto con la mano, ma il suo neurone specchio sparava anche se lo sperimentatore lo afferrava con la bocca: capiva ‘afferrare’. Trasformava una rappresentazione sensoriale (vedere) in una motoria.

Ci sono neuroni specchio anche in altre specie?
Sì, sono presenti nell’uomo, nei ratti, nei pipistrelli, negli uccelli. Indipendentemente dalla posizione nella scala evolutiva, sembra un meccanismo molto efficiente. Capire gli altri mediante un modello interno che hai tu.

Un modello interno pre-esecutivo, non solo rappresentazionale. Il corpo si prepara ad agire mentre capisce?
Sì e no. Se io vedo che uno afferra il cibo e sono a cento metri non mi preparo ad afferrare. Per capire gli altri devo avere un modello interno dello scopo della loro azione. Immagini di osservare un giocatore di pallacanestro che tira un tiro libero. Chi capisce più velocemente dove andrà a finire la palla sono i campioni. Gli esperti, ma non ex-giocatori, sono meno precisi, i non esperti ancor meno. Chi ha giocato ha un modello interno dell’azione più accurato e lo chiama in causa per comprendere il gesto che osserva come se lo eseguisse in prima persona.

Sembrerebbe giustificare la presenza di un telecronista che ha praticato quello sport a fianco del commentatore.
Concordo. Io sono appassionato di calcio e trovo molto intelligenti, ad esempio, i commenti di Giuseppe Bergomi.

Mi ha divertito la scoperta dei neuroni specchio nelle cosiddette place cells, le cellule di posizione.
Ha sorpreso anche noi vedere come capiamo la posizione degli altri riferendoci a una nostra eventuale posizione in quel punto.

Negli sport di squadra agiscono aree che ci fanno risuonare con gli altri del team.
Certo. Le applicazioni allo sport sono tante. Pensi a un’atleta che si prepara a saltare con l’asta. Si concentra? No, sta girando nella sua mente i movimenti che deve fare e lo fa utilizzando i neuroni specchio. Questi si attivano sia quando vedi fare quell’azione, sia quando la pensi.

Tornando al funzionamento in gruppo, mi vengono in mente gli studi di Michael Tomasello sulle origini del sistema cooperativo, che coordina l’intenzionalità congiunta. Per esempio nella caccia collettiva credo che i neuroni specchio abbiano un ruolo fondamentale.
È coerente con i nostri lavori, vero. Secondo Ramachandran i neuroni specchio sono i neuroni della cultura. Immagini un geniale uomo primitivo, circa 100.000 anni fa quando si stavano ancora formando i neuroni specchio per l’imitazione, che fabbrica un coltello efficientissimo. Se nessuno lo sa imitare, quel coltello si perde con l’inventore. Sviluppatisi i neuroni specchio per l’imitazione il coltello viene riprodotto, perfezionato, trasmesso nel tempo. La novità del nostro libro riguarda però la comprensione delle azioni e le emozioni, non l’imitazione.

E l’empatia.
Sì. Noi la definiamo non come il comportarsi bene con l’altro, tu stai male e io ti aiuto, ma un esperire assieme. Tu e io siamo nello stesso stato: tu hai male e io male, tu sei felice e io felice.

Uno aspetto dello studio mi colpisce: se tu provi disgusto la mia insula reagisce. Se tu sei divertito il mio giro cingolato reagisce e genera il riso. Se tu soffri, mi si attiva una porzione diversa del cingolo, ma non mi fa soffrire, mi prepara ai guai!
Esatto. C’è un’area che non abbiamo studiato per ora che forse “risuona” con la tristezza altrui, ma la sua interpretazione è corretta: vedo che l’altro soffre e mi preparo ad agire. Prima si pensava che fosse un reagire al dolore dell’altro, ma in realtà è come se il soggetto pensasse qualcosa come: “Non so perché ma devo andarmene”.

Avete investigato un concetto caro a noi psicoterapeuti, le forme vitali.
Stern ne ha parlato nel 1985 e per 30 anni i neuroscienziati se ne sono disinteressati! Il nostro Di Cesare le ha studiate a fondo e mi dispiace perché i suoi studi, accurati ed originali, sono poco citati.

Lo citerò presto in un mio articolo
Mi colpisce che lei consideri le forme vitali importanti.

Lo scambio psicoterapeutico si basa sulla sintonia con la forma vitale del paziente: sento quello che dici e capisco come lo dici: gentile, brusco, deluso. Sono processi di sintonizzazione relazione di tipo pre-cognitivo, concorda?
Assolutamente. Alcuni studiosi pensavano fosse un aspetto di simulazione, ma invece credo siano processi pre-consci, la simulazione implica cognizione, ti vedo fare così e provo a farlo. Anche l’empatia è pre-cognitiva: intanto esperisco quello che provi senza ragionare, poi decido il da farsi, se valuto che sei amico ti aiuto, se sei nemico ti attacco.

I neuroni specchio non garantiscono precisione nel comprendere l’altro. Dovrebbero per esempio favorire la cosiddetta sovra-attribuzione di similarità. Ti sento, risuono e concludo che siamo simili anche se magari non è così.
Corrado (nda: Sinigaglia, co-autore del libro) ed io ne abbiamo discusso molto. Bisogna distinguere la comprensione basilare dell’azione – che investighiamo noi – dalla comprensione intellettuale che recluta altri processi di ragionamento. Io vedo uno che afferra un bicchiere e capisco immediatamente senza alcuna cognizione che lo fa per bere, ma non posso concludere che è un beone o lo fa perché la moglie lo tradisce. Forse alcuni psicologi si erano infastiditi perché pensavano che volessimo spiegare tutto, ora c’è pace.

Il neurone specchio spara sia quando la persona sta per compiere l’azione sia quando la osserva. Ma anche in una terza condizione: quando la immagina.
Sì. Marc Jeannerod ha osservato che i neuroni specchio sono gli stessi che si attivano nell’immaginazione motoria. Fare un gesto gentile o maleducato, osservarlo o immaginarlo innescano le stesse aree. La stessa area si attiva se osserva Federer, se sta per colpire la palla o immagina di colpirla. Però deve immaginare di essere lei a colpire, non si attiva se immagina Federer colpire, lì è un altro tipo di immaginazione, di tipo visivo.

La Lettura - Corriere della Sera, 5 maggio 2019

Ipocrisie sulla mobilità sociale. Riflessioni intorno a un provocatorio articolo di Martin Wolf



Dalla sintesi che ne ha fatto per la rassegna stampa del Corriere Luca Angelini recupero le tesi principali di un articolo di Martin Wolf sul “Financial Times”, dell'inizio del maggio scorso (2019), che confuta le ipocrisie che circondano il tema della mobilità sociale.
La prima è non ammettere che «il principale ostacolo alla mobilità sociale è la famiglia. La gente non investe una gran mole di tempo e risorse nei propri figli per vederli fallire. Chi ha le possibilità materiali, sociali e intellettuali per evitare tale fallimento, le userà».
La seconda ipocrisia è che, quando invochiamo più mobilità, intendiamo quella verso l’alto. Ma, come ha sottolineato anche un recente rapporto della Social Mobility Commission britannica, se la struttura economica della società non cambia, la mobilità verso l’alto si può avere soltanto se ce n’è una uguale e contraria verso il basso.
Tutto ciò deve, per Wolf, farci concentrare sull’economia come fattore chiave della mobilità. Ad esempio, la percentuale di lavoratori maschi salariati in ruoli manageriali o professionali era dell’11% nel 1951, è salita al 25% nel 1971, al 35% nel 1991 e al 40% nel 2011. La struttura economica ha ampliato (ma con incrementi percentuali via via minori) i posti in alto nella scala sociale, generando molta mobilità «gradita» e poca mobilità «sgradita».
«L’istruzione — avverte Wolf — ha avuto poco a che fare con tutto ciò. Si otteneva una promozione sociale anche senza il “pezzo di carta”. Non è che all’epoca la società fosse più aperta, è che l’economia veniva maggiormente in aiuto». E se i figli della working class hanno oggi più possibilità di ottenere un titolo di studio, ne hanno meno di ottenere, attraverso quello, un lavoro qualificato e ben pagato, perché «i genitori delle classi più in alto aiuteranno sempre i propri figli a tagliarli fuori».
Wolf sembra contestare anche le teorie assai diffuse, dall'OCSE ai dirigenti pubblici italiani per non dire dei politici “luogocomunisti”, che, imputando all'inefficienza dei sistemi scolastici pubblici la riduzione progressiva della mobilità sociale, ne affidano alla loro riqualificazione, anche nel senso dell'equità, la ripresa. Wolf non è affatto sicuro che più istruzione e competenza aiutlno l’economia a generare più «posti al sole»: «Se, come qualcuno predice, l’intelligenza artificiale demolirà molti lavori professionali, la mobilità verso il basso supererà quella verso l’alto. Le conseguenze politiche sarebbero devastanti».
Concludo io che una scuola pubblica qualificata e di massa – come si diceva una volta - può aiutare a modificare la situazione di stagnazione sociale, ma occorrono anche dei cambiamenti profondi nella struttura sociale e produttiva, la cui leva non può essere che il conflitto sociale, la lotta di classe si diceva una volta. È un caso che gli anni di maggiore incremento della mobilità sociale verso l'alto siano quelli in cui maggiore era la forza del movimento operaio organizzato e dei partiti che ad esso si collegavano?


29.8.19

Andiamo! Una poesia di Walt Whitman (1819 - 1892)



Andiamo! La strada è per noi!
È sicura - io l'ho provata, i miei piedi l'hanno bene provata - nulla più vi trattenga!
Il foglio resti bianco sul tavolo, il libro chiuso nello scaffale!
Gli utensili restino nell'officina! I denari non vengano guadagnati!
Lasciate le scuole! Non badate al grido del maestro!
Predichi il predicatore dal pulpito! Arringhi in corte l'avvocato, il giudice esponga la legge.

Compagno, ecco qui la mia mano!
T'offro il mio amore prezioso più del denaro,
T'offro me stesso in luogo di prediche e leggi;
Ti darai a me? Viaggerai tu con me?
Ci resteremo fedeli, quanto dura la vita?

Canto della strada, 15 in Fogli d'erba, Einaudi, 1976

Postilla
Ho utilizzato la traduzione di Enzo Giachino, ma ho sostituito Camerata con Compagno. Si tratta di termini sovrapponibili, l'uno e l'altro provenienti dall'uso militare, ma camerata, nell'uso politico che se ne è fatto in Italia (non in Francia, per esempio), ha una forte connotazione di destra. Compagno ha invece una connotazione di sinistra, legata alla storia del socialismo e del comunismo italiani, ed anche per questo mi piace di più. (S.L.L.)

Amo i gesti imprecisi. Una poesia di Valerio Magrelli (Roma, 1957)

Pitratto del poeta da giovane (da una fotografia di Dino Ignani)
Amo i gesti imprecisi,
uno che inciampa, l’altro
che fa urtare il bicchiere,
quello che non ricorda,
chi è distratto, la sentinella
che non sa arrestare il battito
breve delle palpebre,
mi stanno a cuore
perché vedo in loro il tremore,
il tintinnio familiare
del meccanismo rotto.
L’oggetto intatto tace, non ha voce
ma solo movimento. Qui invece
ha ceduto il congegno,
il gioco delle parti,
un pezzo si separa,
si annuncia.
Dentro qualcosa balla.

da Nature e venature, Mondadori, 1987

28.8.19

Libri nella vita. “La farandola di fanciulli sul greto”. Intervista ad Attilio Bertolucci (Elena Marco)



Divoratore di libri, bibliofilo eclettico, Attilio Bertolucci, uno dei grandi poeti del Novecento, ama i libri con la stessa malizia con la quale un gatto si cura del padrone.

Qual è stato il suo primo libro?
Il primo libro di cui ho memoria, rapinato a mio fratello Ugo, ‘internato’ con me nel convitto nazionale Maria Luigia di Parma, e più grande di me che avevo solo otto anni, e dunque più atto a leggerlo, è stato Iolanda, la figlia del Corsaro Nero. Ricordo appena l’incipit, notturno mi pare. Allora, come anche in seguito, ero dalla parte di Salgari. Più tardi però ho sognato anche sulle illustrazioni dei grandi romanzi di Verne del quale peraltro ho un ricordo particolare: i suoi libri piacevano particolarmente ai miei compagni bravi in matematica.

Ci sono libri nella vita di un uomo, soprattutto certi testi letti negli anni della gioventù, che lasciano nella memoria tracce indelebili. Quali sono i suoi libri-totem?
Senza dubbio I fiori del male di Baudelaire, letti una prima volta sulla prima, prosastica, umile traduzione italiana. E riletti di continuo nel testo, tanto che mi accorgo di sapere a memoria versi e versi dei quali mi approprio rinnovando i più tenebrosi. ‘La servante au grand coeur dont vous étiez jalouse, / Et qui dort son sommeil sous une humble pelouse, / Nous devrions pourtant lui porter quelques fleurs. / Les morts, les pauvres morts, ont de grandes douleurs…’. (‘Alla serva dal gran cuore che t’ingelosiva, e che dorme il suo sonno sotto un’umile aiuola, dovremmo qualche volta portare un po’ di fiori. I morti, i poveri morti hanno grandi dolori…’ [trad. di Attilio Bertolucci, ndr]).

Il suo lungo viaggio di poeta è contraddistinto da molteplici letture: lo testimoniano ampiamente gli omaggi che si affacciano nei suoi versi. Quali sono le opere che hanno determinato le tappe più importanti?
Senza dubbi la Recherche, il libro che ho letto tutta la vita; il libro che mi ha inebriato e istruito, soprattutto sull’amore, provocandomi talvolta anche reazioni fortissime di rigetto. L’edizione che possiedo è quella in quattordici volumi degli anni venti, con le copertine bianche consunte e quasi staccate dal dorso, filettate in rosso con il logo ‘nrf’, che ho letto la prima volta; e quella stessa che anche i miei amici, Pietrino Bianchi e Vittorio Sereni, hanno letto. I libri che hanno segnato tappe importanti sono comunque moltissimi e i più disparati. Ma non so sino a che punto mi hanno guidato nel mio viaggio di uomo e di poeta che non è stato rettilineo, determinato, coerente.

Quale libro non è mai riuscito a leggere per intero?
Le storie bibliche di Thomas Mann, troppo lunghe e confuse per avvincere il lettore.

C’è qualche volume che ha smarrito? O qualche testo prezioso che ha prestato e che non le è mai stato restituito?
Se ho smarrito qualche libro confesso di non ricordarmene proprio, forse perché, qualora fosse accaduto, doveva trattarsi di un libro a me non particolarmente caro. Non ho mai perduto invece, malgrado molti traslochi, gli Ossi di seppia acquistati a quattordici, quindici anni in una libreria del centro di Parma, a quei tempi fornitissima. Era un’edizione a fogli chiusi che mi affascinò subito per le prime, sorprendentemente familiari, parole che lessi alzando il lembo di una pagina. ‘La farandola dei fanciulli sul greto’, comincia così uno degli Ossi che mi fece tornare negli occhi l’immagine dei ragazzi sul greto di un fiume, i fiumi dell’Emilia, poco profondi, dal letto largo, piatto, pieno di ghiaia che io amavo molto. Ma può anche darsi che in quell’occasione più semplicemente mi rapì il suono gioioso della parola ‘farandola’. Quella stessa edizione degli Ossi oggi la conservo in un cassetto dell’armadio in corridoio: è la prima ovviamente, datata del 1925 ed edita da Piero Gobetti. È un po’ sdrucita, ma mi si è detto che vale otto-dieci milioni di lire.

Ha mai sognato un libro?
Se pure angosciosissimo, una volta ho sognato Tenera è la notte di Francis Scott Fitzgerald. E chissà, forse sarà sulla scia di questo sogno che, più tardi, ho recuperato la boa descritta all’inizio del romanzo e l’ho trasportata nei versi della Camera da letto all’inizio del canto intitolato Le sorelle: ‘L’Europa si risveglia a un altro giorno / doppiata la boa di minio e di cobalto del terzo decennio, / i mari sono fermi in regate indecifrabili / mansuetamente sostitutive di un sole insidiato / tutto il mese dalle formazioni brumose del mattino'.

Quale libro vorrebbe ricevere in regalo?
I libri di Rex Stout, con la casa di arenaria, nella vecchia New York. Per anni questo finissimo scrittore è stato dimenticato; un destino segnato fin dall’esordio con un romanzo sperimentale, Due rampe per l’abisso, pubblicato nel ’29, ingiustamente poco considerato. Oggi finalmente hanno capito che questo scrittore nel suo genere è insuperabile; premierei chi mi procurasse uno dei suoi libri che non ho mai letto.

Quale stagione vivono i libri oggi in Italia?
Una stagione pessima, piena di pubblicazioni inutili e costose; ciò non significa che negli scaffali delle librerie non ce ne possano essere alcuni buoni, o buonissimi. Ma come chiudere gli occhi davanti al fatto che oggi le librerie sono sovraccariche…

Quali titoli consiglierebbe a un apprendista lettore?
Il buon apprendista di solito se li sceglie da sé; tuttavia, nel caso in cui per ragioni pratiche gli fossero sfuggiti, consiglierei Casa d’altri di Silvio D’Arzo, Le spoglie di Poynton di Henry James, le poesie di William Butler Yeats, da leggere in inglese, e ne aggiungerei un quarto, alla pari, le liriche di Antonio Machado; due grandi che non fanno parte della stagione modernista.

Nel sito de “L'Indice dei libri del mese” dal numero di novembre 1995