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Lou Castel con Paola Pitagora nel film di Marco Bellocchio "I pugni in tasca" |
Ospite del Torino
International Film Festival essendo tra gli interpreti del nuovo film
di Tonino De Bernardi, Casa dolce casa, abbiamo incontrato Lou
Castel per parlare della sua vita tra una forte militanza politica e
il lavoro di attore. Nato a Bogotà nel 1943, padre svedese emigrato
e madre irlandese, era cresciuto in vari luoghi, tra cui Giamaica e
New York. Ha frequentato il Centro sperimentale di Roma per studiare
recitazione e ha esordito nel film manifesto della ribellione negli
anni sessanta, I pugni in tasca di Marco Bellocchio. Un ruolo
che gli rimane addosso come marchio, il giovane ribelle provocatore
che massacra la propria famiglia (sul piano simbolico ovviamente, la
morte della famiglia era un tema frequente nel cinema degli anni
settanta), e molti registi italiani lo chiameranno a interpretare
personaggi inquietanti (da Damiani a Lizzani, da Festa Campanile a
Ferrara). Quell'aria inquietante però è anche e soprattutto fonte
inestinguibile di turbamento per creare le più svariate figure
dis/turbanti, e non a caso Liliana Cavani lo scrittura per Francesco
D'Assisi e per (il quasi sconosciuto perché scomodo) Galileo
(nel 69); Rainer Werner Fassbinder lo vuole in Attenzione alla
puttana santa (71); Bellocchio lo richiama nel 72 per Nel nome
del padre e dieci anni dopo per Gli occhi, la bocca;
Chabrol gli affida il ruolo di terrorista di sinistra nel suo
affresco politico-rivoluzionario ispirato alle vicende della Raf in
Germania e delle Br in Italia, Sterminate il Gruppo Zero
girato nel 1974. Recita a Berlino guidato da Helke Sander in Der
Beginn aller Schrecken ist Liebe (t.l. L'inizio di ogni
terrore è l'amore, nell'84) e, ormai trasferitosi in Francia, è
con Raul Ruiz (La presenza reale, L'isola del tesoro,
entrambi nell'85), Philippe Garrel (Elle a passé tants d'heures
sous les sunlights...) nell'85 e più tardi nel più noto La
naissance de l'amour con Jean Pierre Léaud. Entra in contatto
con Gérard Courant, cineasta, scrittore, critico e poeta francese
tra i più prolifici nel campo sperimentale, per partecipare alla sua
opera mammuth Cinématon (da Cinéma e photomaton) composta da
tantissimi brevi ritratti delle più diverse personalità del mondo
della cultura in generale (da Samuel Fuller a Youssef Chahine, da
Arrabal a Jean Francois Lyotard, Otto Sander, Francois Mitterand,
Félix Guattari, per nominare alcuni degli attualmente 2.716 ritratti
raccolti). Lo stesso Lou Castel (il cui ritratto è il numero 501) ha
iniziato da tempo a creare le proprie opere (in video) seguendo uno
schema di inquadrature fisse di più o meno lunga durata nel tempo.
• Ci racconti il tuo
iter da attore a autore e viceversa?
La mia prima regia risale
al 1998, quando realizzai Just in time con Robert Kramer (chi
non ricorda i mitici film Route One e Doc's Kingdom di
questo grandioso cineasta di origini Usa morto asoli sessant'anni nel
1999 in Francia? ndr).La storia narrata in tredici minuti, vedibile
su youtube, si può riassumere in tre parole: sesso, pistole e droga.
Avevamo capito da subito che eravamo uguali... A partire da lì era
nata per me una ricerca durata alcuni anni per cui producevo
inquadrature fisse con un determinato numero di immagini che poi
moltiplicavo dapprima sedici volte, poi nove e infine sei volte,
creando un legame col fattore tempo, usando vari argomenti, evitando
il montaggio. Per porre fine a questo periodo avevo spaccato la lente
del proiettore.
•Per passare a quale
arte?
Nel 1999 mi sono operato
all'anca e volevo fare 99 dipinti di un metro quadrato, una visione
cronologica, poi ridotti a quadrati di 33 centimetri. Ne ho
realizzati cinquanta. Ora sono arrivato al rettangolo, più piccolo,
colorati nella più pura astrazione.
•Sei stato assente
dall'Italia per oltre vent'anni, come mai?
Me n'ero andato negli
anni ottanta, uno dei motivi, non l'unico, era che all'epoca nel
cinema italiano c'era il cosiddetto volto-voce degli attori italiani,
per cui molti doppiatori avevano trovato una loro faccia e una loro
notorietà. Mi spiego, all'epoca molti attori erano doppiati, io ero
tra quelli e a dire il vero mi sentivo molto alienato. Non avevo
voce, ero soltanto un volto, un corpo. Ciò mi aveva creato
un'esistenza monca sul piano professionale come attore. A mio avviso
questo mio «essere muto» si era poi protratto anche nella mia vita
privata. Mi sono sentito come centrifugato, buttato «fuori» dal
mondo, e avevo capito - e quindi deciso - che avrei potuto recitare
unicamente nel cinema francese, con certi autori però. Con cui poi
ho anche lavorato: Philippe Garrel, nel suo La naissance de
l'amour, Gerard Courant, Pascal Bonitzer. Ho partecipato anche a
un corto,di cui non ricordo il titolo, in cuisi era sperimentata per
la prima volta la skycam a distanza e la cinepresa volava sopra di me
come una farfalla mentre recitavo un monologo.
•Prima ancora eri in
un paio di film di Wenders, hai girato con Fassbinder in Germania...
Avevo girato un po'
l'Europa, ma il mio centro artistico era la Francia, dove uno dei più
importanti incontri era Raul Ruiz, nei primi anni ottanta e poi a
metà anni novanta per Tre vite e una morte con Marcello
Mastroianni: avevamo inventato lì per lì una scena, talmente forte
era l'affinità attoriale e Ruiz ci chiese come mai nessuno aveva
fatto recitarci assieme prima. Da copione c'era Roland Topor in
coppia con me per fare due mendicanti straccioni.
•Com'era lavorare
con Ruiz?
C'era una gran stima
reciproca. Mi conosceva dai precedenti film girati in Italia e
Germania, e mi fece recitare liberamente. Era nata un'intensa
amicizia intellettuale che ci aveva avvicinato molto, forse per
analoghe esperienze vissute? Anche lui veniva dal Sudamerica e la
Francia non era il suo paese. Mentre girava, ci raccontava il film
come l'aveva in testa, le inquadrature, le scene, i tagli nel
montaggio, aveva previsto tutto!
Mi ricordo che rimasi
molto impressionato dai suoi racconti e di come si ricordava la
prefigurazione di oltre duecento scene. Meraviglioso! E ancor più
affascinante sono i suoi lavori più sperimentali, per non parlare di
lui come teorico del cinema.
In occasione della sua
morte (agosto 2011, ndr) ho ritrovato un suo saggio sul tempo nel
cinema, che sono due tempi che si accompagnano vicendevolmente, uno
più inciso che determina tempi e forme nel linguaggio
cinematografico, e l'altro che scorre, e lui era sempre alla ricerca
del primo da far incrociare con l'altro e gli stimoli per il suo
sperimentalismo, li prendeva ovunque.
•Hai accennato a
esperienze analoghe sul piano politico-culturale tra te e Ruiz,ci
racconti un po' di più?
Forse perché entrambi
venivamo da paesi latino-americani? L'aver vissuto in Colombia e
nella giungla, credo, abbia influenzato il mio immaginario, ne avevo
sentito rumori e profumi, la sua dimensione selvaggia da bambino l'ho
sempre vissuta tra choc e sorpresa. Ruiz è stato militante nelle
file del partito di Allende. Per entrambi però ai tempi del nostro
incontro era già tutto molto cambiato, come lo è oggi rispetto ad
allora.
Certo, le idee sono
sempre le stesse! (sorride) Ricordo che gli portavo i numeri di
Alfabeta sul set, avendo sempre con me gli scritti politico-culturali
che risalivano ai tempi in cui vivevo a Milano, dove conoscevo
l'ambiente attorno alla rivista. Per farla breve, lavorando nel
cinema con tutti quegli autori ho potuto portare avanti un discorso
politico dopo che qua era finito tutto, dopo il 1979.
•In che senso?
C'è stata una sconfitta,
benché avessimo cambiato molte cose, dopo la repressione del 7
aprile e gli arresti di Autonomia Operaia. Ci siamo detti piuttosto
che farci ammazzare. Del resto ero già stato espulso in modo
violento dall'Italia nel 1972, in base a una legge del Codice Rocco
per cui potevano dire che ero un elemento pericoloso e chiedere
l'espulsione. Assieme a me c'erano alcuni palestinesi, anche loro
espulsi.
•Perché ti avevano
espulso?
Non lo so. Alla
conferenza stampa organizzata da un gruppo di cineasti, tra cui
Liliana Cavani, per denunciare lamia situazione assurda, inVico del
Piombo c'erano 15 poliziotti ad aspettarmi, perché mi ero nascosto
per qualche giorno, mi invitarono a salire in macchina e mi portarono
al commissariato centrale. Pensavano fossi armato, mi perquisirono e
insultarono, per poi condurmi direttamente a Fiumicino e
accompagnarmi fin dentro l'aereo. Per fortuna ci fu un giornalista
del Messaggero che scattò quella foto di me col pugno alzato mentre
salgo sull'aereo. Mi fecero partire senza niente, a inizio inverno,
per Stoccolma, che non conoscevo, ma avendo il passaporto svedese...
Là mi aspettarono i giornalisti di destra, perché ero il divo
italo-svedese! Mi ricordavo il nome di un regista svedese, la cui
sorella mi ospitava, mentre da subito c'erano manifestazioni a mio
favore essendosi formato un movimento nella scena teatrale e
cinematografica. Il gruppo del Filmverlag der Autoren era già al
corrente, Wim Wenders mi volle per il suo film La lettera
scarlatta e mi chiamò a lavorare con sé. Dopo ero andato su
un'isola greca con una scrittrice nel periodo dei colonnelli.
Ma il filo conduttore era
sempre stato fare l'attore, era la bussola che mi motivava nella mia
vita. Voglio aggiungere due cose sul rapporto con la cinepresa: non
ero mai passivo, ho sempre voluto sapere dov'era, fin dove si sarebbe
mossa, eccetera. Gli altri attori no. Forse era dovuto a quella
separazione tra voce e corpo, tra l'attore che agisce unicamente col
corpo e l'attore che parla ripetendo le battute in scena?
•Tu che hai vissuto
quel periodo in cui si girava e poi si doppiava con altre voci: quali
impressioni ti porti dietro?
Di storie del cinema ce
ne sono tante, in fondo, a Roma non c'era un vero movimento, incisivo
e importante, come lo eraquello dei Cahiersdu Cinema in Francia.
Esisteva Filmcritica, ma non aveva cineasti seguaci per generare
qualcosa di innovativo e fondante capace di creare una
controcorrente. C'era un «essere nell'azione», come nel mio caso in
Pugni in tasca, agito da pulsioni, dagli scatti durante le
scene. Questo mio modo di recitare poi è proseguito negli altri
film, alternando produzioni autoriali a commerciale, ma al centro
rimaneva sempre il mio corpo, il mio agire fisico. La mia storia l'ho
fatta così: ho detto no a Visconti e sì a Bellocchio. Nel
Gattopardo non mi sarei sentito a mio agio come attore, e in questa
scelta era già forte la mia consapevolezza politica. Sembra niente,
ma definisce molto bene gli anni settanta.
•Intendi il dualismo
tra Gattopardo e I pugni in tasca?
Non dei film in sé, ma
per quanto riguarda il mio destino. Visconti aveva quasi tutti attori
della mia generazione, mi aveva visto come comparsa nella scena del
ballo e mi chiamò per chiedermi se ballavo il tango. Gli dissi di
no, lui mi avrebbe voluto, ma la mia giornata di lavoro era già
terminata... Ricordo che era un'estate caldissima, girare quella
scena in quel palazzo fu un vero inferno, le donne strette nei
corsetti svenivano una dopo l'altra, gli uomini stavano in un altro
piano, più riparati. Era tutto un po' strano quel dietro le quinte,
di cui per altro non si parla mai in generale, di quei rapporti di
forza e di potere che si instaurano su un set. Visconti mi aveva
notato perché già allora rappresentavo quel che si diceva «un
ribelle», termine che mi dava molto fastidio. Ricordo che entrò il
direttore di produzione, io ero sdraiato per terra e lui mi disse, in
inglese, che non si poteva stare sdraiati e che Visconti mi voleva
vedere, subito! Io gli risposi con calma dicendo che mi poteva
parlare in italiano e che non c'era bisogno di agitarsi. Eravamo
oltre trecento comparse, la scena finita è bellissima! Mi piace
molto con tutti quei costumi.
•Toglimi una
curiosità: all'epoca non ti hanno fatto dire le battute perché eri
straniero e non parlavi un italiano, come dire, perfetto, oppure
perché era la prassi, come narrano certe leggende a proposito delle
riprese dei film di Fellini, di far dire «un, due tre» agli attori
e registrare l'intera colonna sonora in fase di post-produzione?
La mia storia è più
complessa. Avevo frequentato i corsi dell'Actor's Studio a Roma in
cui insegnavano sia tecniche di recitazione di Strasberg che la
transe africana. Subito dopo ho fatto I Pugni in tasca
buttandomici con impeto, in tutta la mia vulnerabilità, senza alcuna
difesa dalle emozioni del personaggio, e ho inventato la tecnica che
poi avrei chiamato «deformazione professionale» in cui usavo
unicamente il corpo mosso da scatti nervosi. Una tecnica latente,
perché non ne ero cosciente all'epoca. Solo nel 1984 ho scoperto
cosa voleva dire recitare, ossia lavorare con la voce. Fu durante le
riprese di Campo Europa nelle Cinque Terre, per la regia dello
svizzero Pierre Maillard, in cui recitavo in inglese, e quindi la
ragione non era la lingua avendo già recitato più volte in inglese
mantenendo ferma quella separazione, no, il fattore importante fu il
luogo: eravamo sul mare, c'era silenzio, i treni passavano o non
passavano, i marinai parlavano a voce alta. Un giorno nel riguardare
una scena sul monitor sentivo la mia vocina, piano piano, in
lontananza, e tutto d'un tratto mi era salita un'identificazione,
dentro. Quella era la «mia» voce?! Di getto scrissi un testo sulla
separazione di lavoro che avevo sempre cercato di superare, il
montaggio, le posizioni della cinepresa, etc., pensando che erano
momenti di interruzione, di rottura, ma avevo capito che fino a quel
momento mi ero sentito sdoppiato perché espropriato appunto della
battuta.
•È stato
pubblicato?
Sul catalogo della
retrospettiva dedicatami nel2000 a Parigi.
•In che lingua avevi
recitato con Bellocchio?
|
L'attore in una foto del 2012 |
Dapprima in inglese, poi
in italiano, anche se non bene, l'ho imparato recitando. Nella figura
di Bellocchio vedevo una certa cultura italiana, d'impegno, lucida,
il suo creare tensione nel senso positivo - ho incorporato tutto.
C'erano stati due registi a farmi recitare in passato: Monicelli e
Chabrol. A Monicelli andava bene il mio accento romano per il suo
Rosa, in teatro nel 1981 con Carla Gravina. Mi aveva visto
come attore comico e aveva ragione! A Chabrol suonava un accento di
una certa regione francese e anche per lui ero comico, d'altronde lui
ha un humour incredibile! Va aggiunto, forse, che in Francia ho
passato alcuni anni felici della mia infanzia, tra i dieci e i
tredici anni, nella scuola con pedagogia rivoluzionaria di Freinet
(fondata nel 1935 da Céléstin Freinet a Vence fu la prima scuola
senza classi, in spazi aperti, supportata dal movimento operaio, dove
l'insegnamento era basato sull'espressione libera dei bambini; ndr).
Poi c'era il condizionamento di parlare cinque lingue, di cui una
sola senza accento, lo svedese. Tardi, ma non troppo ho cominciato a
vivere lo spazio attorno a me come casa, e ciò è avvenuto grazie
alla pittura. Ero nella casa vuota a Parigi, piena di enormi rulli di
plastica trasparente, mi piaceva rollarmici dentro e dipingere sul
mio corpo nudo,protetto dalla pellicola, a volte in modo anche
violento col colore steso a mani nude nel buio o sul balcone sotto la
pioggia. Mi scatenavo per l'effetto finale dove, appena srotolato
dalla plastica, la dimensione della pittura era sparita e sentivo
attivarsi profondamente dentro di me quella dell'abitare: stavo
conquistando un nuovo stare nello spazio. Un fenomeno bellissimo,
tuttora lo pratico, in modo diverso, raccogliendo pezzi per strada da
cui compongo sculture. Il mio periodo francese è stato per me una
vera liberazione, un'apertura in me.
• Com'eri passato a suo
tempo dal personaggio dei Pugni in tasca al Francesco
d'Assisi sotto la guida di Liliana Cavani? Così diversi ma anche
simili...
Ci fu una grande
distanza: un anno di inattività nonostante il successo del primo
film. Ricordo con affetto una visita di Stefania Sandrelli per
incoraggiarmi. Poi, improvvisamente, per strada il figlio di Prosperi
mi disse che la Cavani faceva i provini per il suo Francesco, ci
andai e appena mi vide, disse: è lui! Secondo me, non era proprio
così, so che le era piaciuto molto anche un mio amico fotografo che
lavorava per un quotidiano di Roma, con cui una volta ero andato in
casa di Gina Lollobrigida, giusto per vederla dal vivo! Fu lui,
benché non attore, a rappresentare per lei la figura fragile di
Francesco d'Assisi, ma poi s'era convinta grazie al rapporto
instauratosi durante il provino, analogo a quanto era avvenuto con
Bellocchio. Un episodio stranoto: la cinepresa pronta, lui dà
«azione», sento il click, la macchina non parte e io scoppio in un
fou rire, per cui rido a crepapelle e lui grida felice: è lui, è
lui! Per me fu davvero comico il fatto che la cinepresa non fosse
partita. Poi, dopo Francesco arrivò il ruolo nel western Quien
Sabe? di Damiani, seguito da Requiesciant di Lizzani,
personaggio nuovamente opposto. Questo alternarsi si era fermato nel
68 con Grazie zia!, opera prima di Salvatore Samperi, che in
modo sbagliato vedevo come continuazione dei Pugni in tasca,
quando fu un film molto creativo e sperimentale e il regista aveva
scelto me perché avevo appena recitato con Aldo Braibanti in una
pièce sperimentale, accusato di plagio.
• Un compagno di
strada di Alberto Grifi.
Ho girato con lui
Virulentia, dove Grifi sperimentava coi suoi obiettivi. Mi
fece vedere un video poco prima di morire, una delle ultime volte che
venne a Parigi per mostrare le sue opere vidigrafate, era diventato
un vero scienziato del cinema! Eravamo un bel gruppo allora, con
Aldo, Alberto e altri, ci divertivamo un sacco, negli anni sessanta.
È curioso come di quel gruppo poi non fosse rimasto quasi nulla. In
Germania, ne parlo perché sono appena tornato da Berlino dove ho
partecipato a una manifestazione sulle esperienze teatrali negli anni
sessanta, c'era l'Aktionstheatere una volta sciolto ognuno ha
intrapreso carriere diverse, da Werner Schroeter a Fassbinder, da
Margarethe von Trotta, Hanna Schygulla. E non è importante quello
che facevano dopo, ma bisogna immaginare che erano un gruppo di amici
che vivevano e lavoravano insieme nella quotidianità. Come avevamo
fatto noi, e il tema a Berlino era proprio questo: condividere
esperienze artistiche nel quotidiano per poi elaborarle
professionalmente.
ALIAS – IL MANIFESTO, 5
GENNAIO 2013