3.9.19

Brecht. La valigia sempre in mano (Luigi Forte)


Cinquant'anni fa moriva Bertolt Brecht. Per la precisione, il 14 agosto 1956, poco prima di mezzanotte. Nei giorni precedenti aveva dovuto interrompere per un malore le prove del Galilei nel suo prestigioso teatro di Berlino Est, il Berliner Ensemble. Era ormai uno scrittore di fama internazionale, guardato con sospetto a Ovest e osannato a Est. In tempi di guerra fredda gli uni gli rimproveravano il suo caparbio marxismo, mentre gli altri, nel regime di Walter Ulbricht, esaltavano il genio dell'arte socialista.
In realtà il bavarese Brecht, nato ad Augsburg nel 1898, non aveva mai smesso di sentirsi un emigrante, insofferente a qualsiasi forma di rigida ortodossia. In una poesia del 1949 confessò: «Di ritorno da quindici anni d'esilio / son venuto ad abitare in una bella casa,/ (...) Sull'armadio / coi manoscritti c'è ancora sempre/la mia valigia».
Come molti altri, il povero B.B. percorse il difficile cammino dell’esilio portandosi dietro tutte le grandi contraddizioni della storia tedesca del primo Novecento. Negli Anni Venti era stato l'enfant prodige del teatro tedesco, il nuovo drammaturgo di cui tutti parlavano, Non si può pensare alla cultura della Repubblica di Weimar senza L'opera da tre soldi né al declino di quella drammatica esperienza politica senza i song e le ballate brechtiane musicate da Kurt Weill. Tutto ciò appartiene ormai al museo della modernità che riflette fra le luci della ribalta la totale impotenza di una prestigiosa classe intellettuale.
Brecht non ebbe difficoltà a capire che aria tirava: il giorno dopo l'incendio del Reichstag, il 28 febbraio 1933, partì per Praga con la moglie Helene Weigel e il figlio Stefan. Abbandonava la Germania che avrebbe rivisto solo nel 1948, distrutta e sfigurata, per diventare un esiliato: senza patria, senza lingua né identità. Non è un caso che proprio intorno alla straziata icona della Madre Germania ruoti un'ampia riflessione che fa di Brecht, forse proprio grazie alla sua lungimiranza politica, ben oltre i confine nazionali, un «poeta tedesco» a tutto tondo, in una tradizione illuministica che va da Lessing a Marx.
Da Svendborg, Lidingo, Helsinki, «più spesso cambiando Paese che scarpe», egli non smette di scagliarsi contro Hitler e il nazismo con satire, epigrafi, invettive. Di fronte alla lotta si rafforza la sua vocazione pedagogica e il lirico Brecht mobilita il linguaggio, lo condensa in formule che viaggiano attraverso l'etere trasmesse da radio clandestine. E lo piega verso la satira più feroce con testi teatrali come La resistibile ascesa di Arturo Ui e Terrore e miseria del Terzo Reich. Ma, come mostrano anche gli anni del suo esilio americano, i suoi lavori per lo più rimangono nel cassetto. «Insegnare senza allievi/ - recita un suo verso - scrivere senza fama/ è difficile». E non bastano i riconoscimenti che gli giungono da più parti, al suo rientro in Europa, a superare l'esperienza di privazione che fu l'esilio, quella cesura irreversibile, che gli fece dire in una delle liriche più note, A coloro che verranno, che in tempi tanto bui «discorrere d'alberi è quasi un delitto».
Nel dopoguerra il filosofo Adorno gli rimproverò di non aver salvato l'autonomia dell'arte inquinandola con la politica. Certo, schierandosi egli non poté evitare che la parola degenerasse enfaticamente nei toni dell'apologia. Anzi, il poeta vestì i panni del mentore, del vate, perfino del tribuno. Un'esperienza che fa di Brecht uno scrittore molto legato alla sua epoca. I suoi problemi, in gran parte, non sono più i nostri e i pochi decenni che ci separano dalla sua morte sembrano secoli. La fine delle ideologie ha sfocato perfino le sue ambiguità politiche. Non poche negli ultimi anni trascorsi nella ex Rdt, quando cercò invano di conciliare la libertà delle masse socialiste con lo stalinismo del partito. La distanza ha reso caduca una parte delle sue opera, sollecitando, anche a teatro, il recupero delle sue prime pièces, anarcoidi e antiborghesi, come Baal o Nella giungla delle città, in cui egli gioca con la letteratura quasi con vocazione postmoderna.
Del resto già Max Frisch insinuò, a suo tempo, che il Maestro aveva raggiunto l'innocuità di un classico. E Durrenmatt, a metà degli Anni Settanta, rincarò la dose, affermando che Brecht era affascinato dal dogmatismo, tendeva a installarsi in un sistema, senza avvertire i cambiamenti che si andavano preparando, anche per chi continuava a credere nel futuro di una società senza classi.
Col tempo le critiche hanno investito un po' tutto il pianeta Brecht: a cominciare dal suo cinico maschilismo che seppe sfruttare collaboratrici e amanti di grande livello intellettuale come, ad esempio, Elisabeth Hauptmann, Grete Steffin, Ruth Berlau. È pur vero, inoltre, che il suo modo di riflettere sulla condizione umana, specie sulla scena, risulta un po' troppo semplicistico e schematico. Brecht non conosce chiaroscuri, zone d'ombra ed è mosso da eccessivo zelo pedagogico. Ma oggi al suo teatro epico si preferisce, come dimostra l'interesse di Moni Ovadia per Le storie del signor Keuner, il Brecht aneddotico, gnomico, «cinese». Oggi ritorna alla ribalta anche la sua poesia, un immenso, affascinante diario lirico che il Maestro ha proiettato fra le contraddizioni del mondo. L'ha scritta pensando a modelli facilmente fruibili, utilizzando spesso forme del passato, ma con una sensibilità orientata verso la futura società dei mass media. Basti pensare alle Poesie di Svendborg scritte in parte per la radio o al nesso fra testo e immagine nell'Abici della guerra.
Ce qualcosa dunque nel Brecht lirico che resiste al tempo o si modella sul nostro problematico presente. Come l'idea di un nuovo soggetto antropologico, fluido e leggero, ma persistente nel flusso caotico delle metropoli e nei terremoti della storia. È ciò che racconta il Libro di lettura per gli abitanti delle città. Brecht cerca nuovi spazi per un individuo che si confronta con la modernità e con il progresso senza sacrificare l'idea della mutabilità del mondo. Una lezione di dialettica che conserva intatto il suo valore e ben si concilia - nella splendida poesia Il cambio della ruota - con il dubbio e un'urgenza che ha il volto della vecchia utopia. Senza arroganza, ma con il tocco lieve e ironico del saggio che suggeriva: «Non ho bisogno di una lapide senza tomba / ma, se voi ne avete bisogno, / vorrei ci fosse scritto:/ ha fatto proposte. Noi /le abbiamo approvate. / Una simile iscrizione / onorerebbe tutti quanti».

“Tuttolibri La Stampa”, 12 agosto 2006

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