Cinquant'anni fa moriva
Bertolt Brecht. Per la precisione, il 14 agosto 1956, poco prima di
mezzanotte. Nei giorni precedenti aveva dovuto interrompere per un
malore le prove del Galilei nel suo prestigioso teatro di
Berlino Est, il Berliner Ensemble. Era ormai uno scrittore di fama
internazionale, guardato con sospetto a Ovest e osannato a Est. In
tempi di guerra fredda gli uni gli rimproveravano il suo caparbio
marxismo, mentre gli altri, nel regime di Walter Ulbricht, esaltavano
il genio dell'arte socialista.
In realtà il bavarese
Brecht, nato ad Augsburg nel 1898, non aveva mai smesso di sentirsi
un emigrante, insofferente a qualsiasi forma di rigida ortodossia. In
una poesia del 1949 confessò: «Di ritorno da quindici anni d'esilio
/ son venuto ad abitare in una bella casa,/ (...) Sull'armadio / coi
manoscritti c'è ancora sempre/la mia valigia».
Come molti altri, il
povero B.B. percorse il difficile cammino dell’esilio portandosi
dietro tutte le grandi contraddizioni della storia tedesca del primo
Novecento. Negli Anni Venti era stato l'enfant prodige del teatro
tedesco, il nuovo drammaturgo di cui tutti parlavano, Non si può
pensare alla cultura della Repubblica di Weimar senza L'opera da
tre soldi né al declino di quella drammatica esperienza politica
senza i song e le ballate brechtiane musicate da Kurt Weill. Tutto
ciò appartiene ormai al museo della modernità che riflette fra le
luci della ribalta la totale impotenza di una prestigiosa classe
intellettuale.
Brecht non ebbe
difficoltà a capire che aria tirava: il giorno dopo l'incendio del
Reichstag, il 28 febbraio 1933, partì per Praga con la moglie Helene
Weigel e il figlio Stefan. Abbandonava la Germania che avrebbe
rivisto solo nel 1948, distrutta e sfigurata, per diventare un
esiliato: senza patria, senza lingua né identità. Non è un caso
che proprio intorno alla straziata icona della Madre Germania ruoti
un'ampia riflessione che fa di Brecht, forse proprio grazie alla sua
lungimiranza politica, ben oltre i confine nazionali, un «poeta
tedesco» a tutto tondo, in una tradizione illuministica che va da
Lessing a Marx.
Da Svendborg, Lidingo,
Helsinki, «più spesso cambiando Paese che scarpe», egli non smette
di scagliarsi contro Hitler e il nazismo con satire, epigrafi,
invettive. Di fronte alla lotta si rafforza la sua vocazione
pedagogica e il lirico Brecht mobilita il linguaggio, lo condensa in
formule che viaggiano attraverso l'etere trasmesse da radio
clandestine. E lo piega verso la satira più feroce con testi
teatrali come La resistibile ascesa di Arturo Ui e Terrore
e miseria del Terzo Reich. Ma, come mostrano anche gli anni del
suo esilio americano, i suoi lavori per lo più rimangono nel
cassetto. «Insegnare senza allievi/ - recita un suo verso - scrivere
senza fama/ è difficile». E non bastano i riconoscimenti che gli
giungono da più parti, al suo rientro in Europa, a superare
l'esperienza di privazione che fu l'esilio, quella cesura
irreversibile, che gli fece dire in una delle liriche più note, A
coloro che verranno, che in tempi tanto bui «discorrere d'alberi
è quasi un delitto».
Nel dopoguerra il
filosofo Adorno gli rimproverò di non aver salvato l'autonomia
dell'arte inquinandola con la politica. Certo, schierandosi egli non
poté evitare che la parola degenerasse enfaticamente nei toni
dell'apologia. Anzi, il poeta vestì i panni del mentore, del vate,
perfino del tribuno. Un'esperienza che fa di Brecht uno scrittore
molto legato alla sua epoca. I suoi problemi, in gran parte, non sono
più i nostri e i pochi decenni che ci separano dalla sua morte
sembrano secoli. La fine delle ideologie ha sfocato perfino le sue
ambiguità politiche. Non poche negli ultimi anni trascorsi nella ex
Rdt, quando cercò invano di conciliare la libertà delle masse
socialiste con lo stalinismo del partito. La distanza ha reso caduca
una parte delle sue opera, sollecitando, anche a teatro, il recupero
delle sue prime pièces, anarcoidi e antiborghesi, come Baal o
Nella giungla delle città, in cui egli gioca con la
letteratura quasi con vocazione postmoderna.
Del resto già Max Frisch
insinuò, a suo tempo, che il Maestro aveva raggiunto l'innocuità di
un classico. E Durrenmatt, a metà degli Anni Settanta, rincarò la
dose, affermando che Brecht era affascinato dal dogmatismo, tendeva a
installarsi in un sistema, senza avvertire i cambiamenti che si
andavano preparando, anche per chi continuava a credere nel futuro di
una società senza classi.
Col tempo le critiche
hanno investito un po' tutto il pianeta Brecht: a cominciare dal suo
cinico maschilismo che seppe sfruttare collaboratrici e amanti di
grande livello intellettuale come, ad esempio, Elisabeth Hauptmann,
Grete Steffin, Ruth Berlau. È pur vero, inoltre, che il suo modo di
riflettere sulla condizione umana, specie sulla scena, risulta un po'
troppo semplicistico e schematico. Brecht non conosce chiaroscuri,
zone d'ombra ed è mosso da eccessivo zelo pedagogico. Ma oggi al suo
teatro epico si preferisce, come dimostra l'interesse di Moni Ovadia
per Le storie del signor Keuner, il Brecht aneddotico,
gnomico, «cinese». Oggi ritorna alla ribalta anche la sua poesia,
un immenso, affascinante diario lirico che il Maestro ha proiettato
fra le contraddizioni del mondo. L'ha scritta pensando a modelli
facilmente fruibili, utilizzando spesso forme del passato, ma con una
sensibilità orientata verso la futura società dei mass media. Basti
pensare alle Poesie di Svendborg scritte in parte per la radio
o al nesso fra testo e immagine nell'Abici della guerra.
Ce qualcosa dunque nel
Brecht lirico che resiste al tempo o si modella sul nostro
problematico presente. Come l'idea di un nuovo soggetto
antropologico, fluido e leggero, ma persistente nel flusso caotico
delle metropoli e nei terremoti della storia. È ciò che racconta il
Libro di lettura per gli abitanti delle città. Brecht cerca
nuovi spazi per un individuo che si confronta con la modernità e con
il progresso senza sacrificare l'idea della mutabilità del mondo.
Una lezione di dialettica che conserva intatto il suo valore e ben si
concilia - nella splendida poesia Il cambio della ruota - con
il dubbio e un'urgenza che ha il volto della vecchia utopia. Senza
arroganza, ma con il tocco lieve e ironico del saggio che suggeriva:
«Non ho bisogno di una lapide senza tomba / ma, se voi ne avete
bisogno, / vorrei ci fosse scritto:/ ha fatto proposte. Noi /le
abbiamo approvate. / Una simile iscrizione / onorerebbe tutti
quanti».
“Tuttolibri La Stampa”,
12 agosto 2006
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