31.1.10

Francesco Bruno. Criminologo o criminale?


Con il titolo L’omosessualità è una patologia, oltre che un grave disordine mentale il 9 Gennaio scorso il sito cattolico conservatore “Pontifex” ha pubblicato un’intervista a Francesco Bruno, uno di quei criminologi che impazzano nelle morbose ricostruzioni di “Porta a porta” e che imperversano in tutte le trasmissioni tv. Il “professore” è affetto da una sorta di “lombrosismo di ritorno”, per cui si classificano per tipi i criminali e si pretende di ricavare dalla classificazione previsioni certe (o almeno probabili) sui loro comportamenti passati o attuali.
L’intervista è da inserirsi peraltro nella campagna che il sito “ratzingeriano integralista” conduce contro ogni, benché minima, manifestazione di un diverso approccio alla questione omosessuale nel mondo cattolico. Il bersaglio, in questo caso, è il quotidiano della Cei, “Avvenire”, nelle cui pagine, in una inchiesta sull’omosessualità, tra i tanti articoli allineati alle tesi vaticane, è stato pubblicato un intervento dello psichiatra Vittorino Andreoli. Andreoli vi sosteneva che l’omosessualità non è patologia, il che avrebbe “scatenato la sfrenata passione e l’entusiasmo di Franco Grillini” (dice grevemente ironico l’intervistatore, che di cognome fa Volpe). Bruno dice che invece l'omosessualità è proprio “una malattia che si genera e dipende anche da una predisposizione biologica, mentre a volte è causata da disturbi derivanti dal contesto della famiglia”. La dimostrazione del criminologo è in parte assiomatica, in parte sillogistica: “Siccome la normalità, in natura, prevede i generi di uomo e donna, l’omosessualità è contro natura e dunque è una condotta patologica, una vera e propria infermità vuoi dal lato biologico, vuoi dal lato mentale”.
Ma il peggio di sé il Bruno lo dà quando da criminologo si fa criminale e incoraggia la paura, l’odio e la discriminazione, attribuendo alla scelta omosessuale una connotazione delinquenziale: “Quando il soggetto liberamente sceglie di essere omosessuale, in quel caso compie una scelta border line criminosa. Voglio dire se questa scelta omosessuale è responsabile, non frutto di traumi, ma avviene all’interno di gruppi sociali ben definiti, ha degli evidenti caratteri antisociali, spesso anche insidiosi che potenzialmente hanno natura lesiva dell’ordinata convivenza”. Dopo aver sparato queste odiose stupidaggini l’ometto ipocritamente aggiunge: “Ovviamente non bisogna discriminarli e con questo non dico che tutti gli omosessuali siano pericolosi”. Ma subito dopo afferma che l’omosessuale che “volontariamente abbandona la via dettata dalla natura” compie azioni “socialmente criminali”.
Da qui il Bruno fa scaturire il rifiuto dei preti gay e la condanna delle posizioni di Andreoli (“un collega che stimo e apprezzo”). “Da cattolico, ed anche un poco all’antica, trovo sconcertante che un giornale come “Avvenire” ospiti, certamente con rette intenzioni, temi del genere che possono mal interpretarsi da menti malate o deboli” – così conclude.
Dopo l’intervista alcune associazioni gay hanno denunciato il Bruno all’Ordine dei Medici. In una nuova intervista al sito di venerdì 29 gennaio ha così reagito: " Il mondo moderno va avanti per lobbies ed oggi quelle più potenti ed influenti sono quelle massoniche, ebraiche, omosessuali. Insomma, come quelle dei tassinari a Roma. Se ti opponi, ti menano". Preoccupato per la denuncia?: " io, ma lei scherza. All' Ordine dirò quello che penso da scienziato. A queste organizzazioni neppure ci penso … Sono degli intolleranti. Ma facciano pure, tanto non li temo, … mi condannino anche al rogo, non mi muovo dalle mie posizioni".
La battuta è tragicomica, più tragica che comica. Forse Bruno non lo sa, ma uno dei termini con cui si deridono gli omosessuali, “finocchio”, risale ai tempi in cui la Santa Inquisizione li faceva mettere al rogo per il loro “crimine contro natura”. Il fuoco era coperto con scorze e foglie di finocchio perché bruciasse più lentamente e il rogo puzzasse meno.

Linke. Il ritiro di Oskar il rosso.

Una settimana fa i giornali davano notizia dell’imminente ritiro dalla politica di Oskar Lafontaine, il leader della Linke tedesca. A maggio, dopo le elezioni regionali in Renania e Nord-Westfalia, con il congresso del partito rinuncerà alla presidenza della Linke e al seggio al Parlamento. Ha un cancro alla prostata, ma ancora di più è spinto al ritiro da quella che apertamente chiama la “crisi esistenziale” che ne è conseguita. “E’ tempo - dice - che mi dedichi alla famiglia”. Il partito da lui costruito attraverso la fusione tra la sinistra socialdemocratica dell’Ovest e gli ex comunisti della Pds nell’Est aveva ottenuto l’11,9% alle elezioni politiche dello scorso autunno e dimostrato che lo spazio di una sinistra classista, ecologista e femminista, capace di fare politica e non solo protesta. La Linke certamente soffre di tutti i limiti di radicamento sociale dei partiti europei post-89 e il suo successo è certamente legato alla leadership del cosiddetto “Napoleone rosso della Saar”. Il partito, tuttavia, ha tentato di darsi regole, organizzazione, luoghi di elaborazione e di dibattito. Soffrirà del ritiro di Lafontaine, ma, a nostro avviso, riuscirà a trovare un gruppo dirigente autorevole. L’obiettivo è spostare a sinistra la Spd e i Verdi, con cui i rapporti sono assai difficili ed in pratica limitati al alcune realtà locali, e, per questa via, costruire una alternativa al centro-destra della Merkel.

L'articolo della domenica. Il sogno di Obama e il buco nero di Guantanamo.


Già prima del 27 gennaio, giorno del tradizionale discorso del Presidente Usa sullo stato dell’Unione, i quotidiani ci hanno dato notizia di una sua nuova, grave difficoltà, se non di un altro sostanziale fallimento.

La task force del Ministero della Giustizia Usa ha, infatti, concluso l’esame dello status di tutti i presunti terroristi detenuti a Guantanamo. Quella prigione nell’isola di Cuba era e resta al di fuori di ogni possibile giustificazione in termini di diritto. La sua originaria illegalità, aggravata dal documentato uso della tortura, era stata, in campagna elettorale, uno dei principali bersagli polemici di Obama. Più volte aveva parlato di una macchia infamante per l’America e si era impegnato a cancellarla entro il primo anno di presidenza. Sul tema aveva tenuto il punto anche dopo le elezioni, promettendo che, in breve tempo, chiarita la posizione di ognuno di loro, quei detenuti sarebbero stati liberati o processati e la prigione extraterritoriale di Guantanamo chiusa per sempre.

Gli esperti della Giustizia statunitense sembrano ora giunti a una conclusione che smentisce la promessa. A loro avviso 110 detenuti potranno essere rilasciati perché non costituiscono un pericolo per la sicurezza, 35 saranno processati da tribunali civili o commissioni militari, ma i rimanenti 47 “non saranno né liberati né processati”, insomma rimarranno nell’attuale extraterritorialità, nel buco nero che li ha risucchiati.

I dirigenti dell’Aclu (l’associazione per le libertà civili nell’Unione) ha duramente protestato. “Così – hanno fatto notare – la chiusura di Guantanamo diventa un atto puramente simbolico, di scarso valore”. “Se ci sono delle prove a carico dei 47 – hanno aggiunto – li si processi”. La risposta della task force è che le prove, raccolte dalla Cia in operazioni di guerra non ortodosse, non reggerebbero al vaglio dei tribunali e che, tuttavia, quei 47 non possono essere rilasciati senza rischio. La parola, adesso, spetta al Consiglio di sicurezza nazionale, prima che il rapporto entri nell’agenda di Obama.

Il tema nel discorso presidenziale è rimasto ai margini, appena sfiorato, sommerso da esigenze che a Obama e ai suoi consiglieri sembravano più urgenti e popolari. Credo che sia un errore gravissimo, al limite dell’irreparabile.

La forza del nuovo presidente consisteva in una sfida a tutto campo. La politica interna (riforma di Wall Street, riforma sanitaria, nuove politiche di sviluppo ecocompatibile come risposta alla crisi) e la politica estera (dialogo al posto della guerra di civiltà, diritto e libertà per tutti, accordo sul clima, nuovi accordi per il disarmo) si tenevano insieme l’una con l’altra. Tutti i temi del discorso di Obama (non ultimo la chiusura di Guantanamo e il ritorno allo stato di diritto) si tenevano l’uno con l’altro e contribuivano a costruire una sorta di positiva utopia che rinverdiva la “nuova frontiera” kennediana e, ancor più, il New Deal di Roosevelt. Oggi Obama sconta un’insoddisfazione che percorre tutto il suo campo dai ceti popolari agli intellettuali liberal. Gli nuoce la prudenza e l’incertezza nel fare più che nel dire, gli nuoce la pratica del rinvio e della mediazione: altri due anni per l’Iraq, un altro per Guantanamo, la riforma sanitaria dimezzata etc. Emblematica è la dichiarata delusione del Nobel Paul Krugman, uno dei liberal che nelle ultime settimane si sono sentiti traditi. Ma, nonostante l’alato discorso del 27, fortemente critico e in parte autocritico, la sua amministrazione sembra continuare a prendere tempo. Su Guantanamo l'inviato speciale del governi Usa a Bruxelles, Daniel Fried, ha detto: "Pensiamo di riuscire a chiuderlo entro la fine del mandato di Obama”. Se va avanti così il buco nero di quella prigione e della realpolitik finirà con l’inghiottire per intero il sogno americano del primo presidente nero, il quale perderà non solo le elezioni di metà mandato e quelle per il suo rinnovo, ma un’occasione storica per rinnovare positivamente la storia dell’America e del mondo.

30.1.10

E' sempre Carnevale! L'ammazzasentenze:"Su Craxi ha ragione Napolitano"


Il 23 gennaio scorso, sul sito Pontifex.Roma, è apparsa una intervista di Bruno Volpe al giudice di Cassazione Corrado Carnevale, il celebre "ammazzasentenze", sotto la cui presidenza la prima sezione penale della Cassazione più di una volta annullò le condanne a illustri mafiosi per vizi procedurali, a volte molto piccoli.
La motivazione di una di esse arrivava a negare l'esistenza di una Cupola di Cosa nostra. In privato accusava Falcone e Borsellino chiamati "i Dioscuri" di essere "due incapaci, con un livello di professionalità prossimo allo zero". Ma non mancarono anche le accuse pubbliche al "pool" e a quel che Carnevale chiamava i "magistrati sceriffi". Accusato di collusione con Cosa nostra è stato oggetto di indagini e di un processo. La condanna della Corte d'Appello a 6 anni del 2002 fu annullata l'anno dopo dalla Cassazione che ritenne insufficienti le prove: le deposizioni dei colleghi che rivelavano le sue pressioni per riformare le sentenze vennero considerate nulle perchè riferivano di fatti avvenuti in Camera di Consiglio e, in quanto tali, coperti da segreto.
Le stravaganti sentenze con cui depotenziava la testimonianza di Buscetta e assolveva i boss sono tuttora agli atti, ma il Carnevale, assolto da ogni colpa, è stato addirittura reintegrato nella funzione ed oggi può pontificare su "Pontifex". Il sito clericale lo definisce "galantuomo palermitano infangato da strambi e prevenuti processi". Ecco le parti salienti dell'intervista. (S.L.L.)



Presidente, lei é cattolico?
"Certo che lo sono e non lo nascondo".
Che cosa pensa delle leggi contro l'omofobia?
"Confesso che per motivi di salute non ho avuto il tempo di leggere il testo italiano. Ma una idea la ho".
Prego.
"Ritengo che sia sbagliato discriminare gli omosessuali in quanto persone come gli altri e secondo il dettato dell' art. 3 della Costituzione. Ma con altrettanta fermezza sono della idea che neppure si possa procedere a discriminazioni a favore, quasi trattandoli meglio. Anche questa sarebbe una cosa incostituzionale. In sostanza, per loro valgono gli stessi principi né più, né meno. Ritengo strano e forse rientrante in questa discriminazione a favore, per esempio, destinare come avvenuto a Venezia, case o alloggi in loro favore".
Tema matrimonio.
"Da cattolico sono convinto che il solo matrimonio avente cittadinanza legale sia solo quello fondato su un uomo e una donna. Se due omosessuali vogliono convivere di fatto, sono cose che riguardano la loro sfera personale, ma lo Stato non può dare riconoscimento di legge a queste unioni. Ritengo che la legge naturale abbia sempre precedenza su quella positiva e il giorno in cui da Magistrato dovessi applicare una legge contraria ai miei convincimenti etici e cattolici, non potendomi ribellare, mi dimetterei dalla Magistratura".
Gli avvocati cattolici che cosa devono fare in caso di cause di divorzio?
"Se fossero coerenti con la loro fede e dottrina, in caso di matrimoni concordatari dovrebbero rifiutare l'incarico. Ripeto, solo davanti a matrimoni concordatari".
Affare Craxi, che cosa pensa?
"Che ha ragione Napolitano. In punto di diritto era un latitante, ma solo nella forma. Non sta scritto da nessuna parte che le sentenze anche se passate in giudicato non si possano criticare, non sono un tabù".
Di Pietro ha definito Craxi un delinquente.
"Trovo poco elegante che chi ha contribuito all'accusa, oggi si lanci in queste filippiche. Se fossero vere le cose che raccontano di lui, sottolineo se fossero vere, cioé interrogatori troppo esuberanti e quasi intimidatori, Di Pietro non sarebbe stato un buon giudice. Del resto ho sempre detto che mi pento di averlo aiutato a superare il concorso in Magistratura".
Ci spieghi
"Io avevo un quadernetto, anonimo, sul quale segnavo con lettere A,P, C le prove prove scritte. Il riferimento era un numero. I suoi compiti scritti non furono entusiasmanti e neppure la prova orale. Ma mi fece tenerezza la sua provenienza ed il curriculum inviato dalla competente Procura in cui si segnalava che aveva fatto tanti mestieri, anche l'operaio produttore di forchette e persino il seminarista a diciassette anni".
Che cosa pensa di Pio XII?
"Non credo che sia stato antisemita, ma ci vorranno anni per accertare la complessità della figura. So che qualche volta ha fatto invasione di campo nella vita politica italiana, e in una occasione si rifiutò di dare udienza a De Gasperi".

Cara Unità (una lettera al giornale di Ivana Corona da Torino - 23 gennaio 2010)



Cara Unità,

che stavi in tasca a mio papà l’8 giugno del ’51, quando sono nata io e c’erano le elezioni e lui venne all’ospedale a vedermi due giorni dopo perché era rappresentante di lista per il PCI e non poteva mollare la sorveglianza ai seggi.
Cara Unità, che stavi sempre sul tavolo di marmo della cucina dei miei, dal ’68 in poi, quando arrivavo a casa piena di volantini, dal Movimento Studentesco fino agli Autonomi.
Cara Unità, erano gli anni ’60 e la tua sede di Torino organizzava una festa per i figli degli immigrati dal meridione, una strana festa, ibrida, tra il Soccorso Rosso e l’Azione Cattolica. Si chiamava “La Befana dell’Unità”. A quei tempi si distribuiva il giornale nelle soffitte del centro la domenica mattina: si chiamava “la diffusione”, ad opera dei militanti. Si diffondevano parole di lotta e di speranza a chi era venuto su con la valigia di cartone piena di pelati e di pasta e non trovava neanche una casa dove stare, perché molti piemontesi non gli volevano affittare gli alloggi. “Non si affitta a meridionali”…
A Natale i figli dei “compagni” erano invitati dalle sezioni del partito a rinunciare ad un dono trovato sotto l’albero per darlo ai figli dei “meridionali” e tutto faceva capo alla sede del giornale, dove si confezionavano i pacchi e da dove i compagni si sguinzagliavano per le soffitte di Porta Palazzo, per distribuire i biglietti d’invito per il teatro Alfieri, per il giorno della Befana, dove si sarebbe proiettato anche un film di cartoni animati. Mi ricordo il freddo, la neve, il mio dilemma su quale bambola donare, le manine che mi facevano male, perché i pacchi erano duri da legare. Poi, finalmente, veniva il 6 gennaio e li vedevo i poveri, tantissimi, tutti a teatro, vestiti più male di me che già ero vestita malissimo, perché mio papà era solo operaio e mia nonna mi faceva le gonne con i suoi pantaloni dismessi.
Cara Unità, come dice Goffredo Fofi, una volta eravamo un popolo. Pietistici, paternalistici, illusi, comunisti, credenti, stupidi. Ma veri. Dimmi, è passato così tanto tempo? Ma sono proprio così vecchia? Deve essere così, perché se così non fosse, quella povera gente nera, che raccoglie quei mandarini di cui ci ingozziamo e che a volte lasciamo marcire sul balcone, quei nostri fratelli, dicevo, a quest’ora ce li saremmo stretti al cuore e ci saremmo incazzati come bestie contro un sistema che si basa sullo sfruttamento…invece di perdere la nostra vita a girare per i saldi di fine stagione. E’ la nostra vita che stiamo svendendo.
Dedico questa lettera alla memoria di mio padre, un partigiano fra i tanti, che quando gli chiesi se credeva in Dio, mi rispose: “Io credo nell’Uomo”. Ho ritrovato le sue parole molto dopo negli scritti di Che Guevara. E a mia mamma, sua compagna.

Fottere e piangere. I crucci del vescovo Martella.

“Sa, credo che Satana, essere subdolo, non occupa mai la prima pagina dei giornali, ma subdolamente si trova quando meno te l’aspetti, ed è trasversale”. Così si apre l’intervista al vescovo di Barletta, Monsignor Luigi Martella, confezionata da Bruno Volpe per il sito cattolico Pontifex.Roma.

Il prelato Intravede caratteristiche luciferine in Marco Travaglio, “con quegli occhi e alcuni editoriali al vetriolo”. Ma è convinto che anche altri non siano santini. Riserva una frecciata anche alla tv d’intrattenimento: “Non offre un panorama esaltante… valuto cosa del tutto sbagliata fare classifiche di rendimento dei santi”.Il suo maggior cruccio è che “regna una stampa, sia televisiva che cartacea, ostinatamente prevenuta nei confronti della Chiesa”. Aggiunge: “Il mondo ha sempre perseguitato Cristo è […], ma la Chiesa non si farà mai condizionare e tirerà avanti per la sua strada, rischiando anche la impopolarità”.

Il curioso è che il vescovo pronuncia queste accorate parole in un tempo in cui nei Tg e nei programmi di intrattenimento imperversano preti e frati dal mattino alla sera. Insomma il vescovo si è convinto che più che l’immagine della Chiesa trionfante cara all’immaginazione barocca, paghi la rappresentazione di una “Chiesa del silenzio”, perseguitata e calunniata. In questo vittimismo ha fatto scuola Berlusconi, che è uno specialista di quello che in Sicilia chiamano “fottere e piangere”. Il Vescovo, però, a differenza del Cavaliere ha fatto voto di castità. Non può fottere. O almeno non può farlo sapere.

28.1.10

Un discorso di Nenni (Franco Fortini 1954)

Riporto qui, con qualche taglio, il breve saggio Un discorso di Nenni, originariamente pubblicato su “Nuovi argomenti” del novembre-dicembre 1954 e successivamente entrato a far parte di uno dei più bei libri di Franco Fortini, Dieci inverni. Contributo a un discorso socialista. Quel libro era una sorta di diario in pubblico del decennio 1947-57 e, ragionando di cultura e politica, raccontava l’esaurirsi delle grandi speranze di rinnovamento sociale del dopoguerra nel regime democristiano, il difficile rapporto tra una ricerca intellettuale e letteraria spregiudicata e le organizzazioni consolidate del movimento operaio, il riaprirsi del dibattito a sinistra dopo il XX Congresso del Pcus, lo shock dell'Ungheria. Fortini non aveva bisogno di riaggiustarsi il passato, di nascondere scheletri, aveva potuto scrivere, dopo l'Ungheria: "Ragazzi, per mostrare i miei nastrini antistalinisti non ho bisogno di rivoltare la giacca".
Il saggio qui presentato, la cronaca di una domenica a Bologna, è emblematico dello stile di Fortini, del rapporto che la sua scrittura realizza tra particolare e universale. Non è la "poesia" come la voleva Croce (l'universale nel particolare, appunto), ma un movimento a spirale che nelle sue volute (nelle vertiginose cadute come nelle rapide ascensioni) segnala una "irriducibilità". Oggetto del narrare-riflettere di Fortini è appunto la tensione tra intellettuali e politica. Essa riguardava soprattutto il Pci togliattiano, in quegli anni ancorato ad una interpretazione “storicistica” dei Quaderni gramsciani e, insieme, al peggiore zdanovismo; ma toccava anche il vecchio, più libertario, Partito socialista italiano di Pietro Nenni, che non pretendeva allineamenti rigidi e permetteva qualche scarto. Il testo ci mostra in azione un prosatore di scuola leopardiana, di quelli capaci di riscaldare il ragionamento più rigoroso con la passione e l'uso appassionato della letteratura. (S.L.L.)

Qualche mese fa, con alcuni amici a Bologna, un pomeriggio di domenica. Intorno a noi scendeva una sera piena di voci e di folla, il “serale animamento” di cui discorre Campana, proprio a proposito di Bologna. I due amici discutevano di filosofia, di marxismo, con puntiglioso accanimento. Io li ascoltavo, ma solo di rado mettevo qualche parola, perché quando i miei amici filosofi discorrono in linguaggio tecnico, mi vergogno della mia scarsa dimestichezza con quel linguaggio e non valgono le loro affettuose proteste con le quali vogliono assicurarmi che esso non ha nessun particolare valore ed è solo una convenzione sì che esiste una traducibilità di un linguaggio nell’altro, entro certi limiti almeno, e, in questo caso, del mio nel loro. Ero stanco per di più, e non mi piaceva ascoltare quella energia dialettica e quella capacità di mantenersi sul filo di una sequenza logica. Non ho mai avuta simpatia per i silenzi sornioni, di chi giudica le dispute letterarie o filosofiche vanità giovanili e fatue perdite di tempo; e poi torna a casa e, nella facile superiorità della solitudine, giudica gli altri o conforta se stesso. La discussione verteva, mi pare, sulla finale identità di storia umana e storia naturale nel pensiero di Marx; e procedeva intorno all’esegesi storica dei passi marxisti sull’argomento […].
Così parlando era venuto buio in terra e intorno a noi si faceva più fitta la folla. Tra gli alberi di un parco si accendevano le luci della festa dell’ “Avanti!” e illuminavano le bandiere, i grandi pannelli dove disegni e scritte raccontavano la storia del Partito Socialista Italiano. Veniva l’odore forte dei brigidini e delle sfogliate, la gente comprava pagnotte imbottite di salame, radio e fisarmoniche suonavano, famiglie intere con rossi berretti di carta in capo merendavano tra i prati, tra la folla riconoscevi quegli eterni vecchi socialisti delle nostre campagne, venuti dal Modenese, dal Reggiano, dalla Romagna o dalle sezioni cittadine, con il distintivo o il garofano all’occhiello e la bandiera della sezione sottobraccio, svitata in due parti l’asta di metallo cromato. E su tutto, dagli altoparlanti nascosti tra le frasche irrigidite dai fari elettrici, si abbatteva la voce enorme e rauca di Nenni.

In quella voce persuasiva e densa, che recava, ma senza alcuna volgarità, gli accenti stessi del socialismo-passione, in quello ch’esso ha di più elementare e di più indomabile, si poteva sentire, con l’eco dell’antica ansia di giustizia egualitaria, l’ansia nuova, segreta e preveggente per la spietata realtà militare del conflitto, per le forme nuove e imprevedute assunte dalla lotta delle classi. Il fiato di Nenni ansava negli altoparlanti e vi crosciava dentro - quando evocava le stragi della Werhmacht, l’arbitrio governativo, la connivenza con la corruzione – l’applauso della folla adunata. Pure, dove noi eravamo, se taluni ascoltavano immobili, i più si muovevano, passeggiando, mangiando, bevendo, porgendo un orecchio ora all’orchestrina e alla fisarmonica ora alla voce di Nenni, dalle inflessioni familiari, come, senza bisogno di seguirne ogni volta il senso ma ogni volta ripetendosene il significato complessivo di comprensione e d’ammonimento, si ascolta la parola del parroco o quella del vecchio padre. 
Come quella, infinite altre sere di domenica dovevano essere passate, mi sembrava, per quella gente, a sentir ripetere le parole di giustizia, speranza e lotta: ed erano state anche lotta e paura e uccisione. Ora, dopo l’ultimo applauso, avrebbero invaso i viali, i tram, i caffè della città, incrociando senza nemmeno avvedersene i gruppi sempre più sparuti delle vecchie donne che escono dalla novena. Quella medesima mattina avevo osservato Nenni mentre parlava, quel suo collo cotto e tutto quadrettato di rughe come l’hanno certi animali tenaci. Avevo ascoltato quel suo modo di parlare, capace di concedere una vibrazione autentica alla frase più prudente e consunta; e anzi, come già altre volte, m’era parso che quell’uomo dovesse compiere uno sforzo su se stesso per ricordarsi d’essere un politico cui non è permesso abbandonarsi alla passione o all’immediatezza, e m’era sembrato di avvertire, insieme ad una impercettibile vena di distacco non inquinata mai di cinismo, la sua malinconia che è di saggezza, di fedeltà a chi fedeltà ti chiede, di quel primo e irripetibile momento del socialismo premarxista che è la nascita a coscienza ed uguaglianza di chi è stato fatto vivere nell’incoscienza e nella diseguaglianza. Ed era come se la voce di Nenni, nelle concitate interrogazioni che il vento della sera faceva riecheggiare tra gli alberi, volesse proteggere quell’indefinibile bene che è il socialismo degli italiani, quello che anch’io pur avevo tante volte bestemmiato, per la sua debolezza e pigrizia, e per il suo conforto di provincia; proteggerlo, o portarlo incolume, dalla forza di sopraffazione che i cervelli elettronici, i grandi piani industriali, le forme estreme del mondo moderno elaborano nelle lontane capitali, in linguaggi indecifrabili. 
Che cosa avevamo a fare noi, e le nostre discussioni sui Manoscritti economico-filosofici o su Lukàcs, con le sezioni socialiste, dove il ritratto di Matteotti è come uno stravolto cristo di rimorso e i vecchi ripetono parole monotone davanti al corto bicchiere di vino, e anche i ritratti dei giovani che furono uccisi dieci anni fa per un fazzoletto rosso non somigliano più a quanto rimane in noi di speranza e di coraggio? Le avevamo abbandonate, quelle sezioni; o non c’eravamo mai andati. […]
Che cosa diremo allora, anche indirettamente, anche nei nostri difficili discorsi, a questa gente – a quell’ometto laggiù, a quella ragazza, a quel vecchio? Se ci chiedessero – e ce lo chiedono infatti – per che cosa devono vivere, sapremmo noi cosa rispondere? E a chi dovesse morire questa serra, sapremmo noi che cosa dire, o di quali pensieri caricare il nostro silenzio? E, nelle nostre giornate, ce lo chiediamo veramente noi stessi? […]
Queste domande, per vergogna ormai, non le ponevo ai miei amici. Ma anch’essi tacevano. La grande riunione sfollava il parco, la festa si chiudeva; era davvero una sera di domenica. Udivo un canto di Bandiera rossa e in quello un verso che mi è parso riassumere tutta un’ingenua ma vittoriosa fiducia: “Noi siamo in tanti”. Infatti la gente che ci passava accanto ci credeva uguali. Noi non curavamo più di volerlo parere o essere. Ma la forza dell’angolo di terra e di storia dove ci è sortito di vivere è più grande di noi e si dimostra nella impossibilità di ridurci stranieri. Eguali di questo popolo malnoto, in questa speranza ostinata che neppure osa spiegarsi intera, noi, anche più di quanto ci è dato sapere, lo siamo. Ma questa comunanza o identità di destino appare solo se veduta da lontano; in realtà, per noi, la lacerazione e la contraddizione rimangono. Né il socialismo né il comunismo possono far altro che aiutare a viverla intera. Aiutare a quella risoluzione obiettiva della tensione e della differenza che né l’astratta passione intellettuale né le presenti forme di impegno politico sono capaci di dare. Forse il distacco reale, e cioè senza rimpianto, è la vera condizione d’una partecipazione possibile.

Per il centenario di Andrea Costa (Imola 1851 - Imola 1910). Il socialista da giovane e l'Inno a Satana di Carducci.

Da diverse fonti (prima fra tutte la simpatica biografia di Lilla Lipparini Andrea Costa rivoluzionario, pubblicata da Longanesi, alla cui stesura contribuì Gianni Bosio) ho costruito questo breve ritratto, cui ho aggiunto, come appendice, l'Inno a Satana di Giosuè Carducci.

1. Ritratto del rivoluzionario da giovane
A leggere la testimonianza del quasi coetaneo e grande amico Gaetano Darchini, che come lui abitava nel vicolo Giudei in una casa contigua e il cui manoscritto autobiografico è conservato nella biblioteca comunale di Imola, Andrea Costa era un ribelle fin da ragazzino. A 15 anni, nel 1866, aveva tentato di entrare come volontario tra i Cacciatori delle Alpi dichiarandone 17, ma l'ufficiale arruolatore non gli aveva creduto e gli aveva detto: "Ragazzo, prendi ancora un po' di latte e poi andrai con Garibaldi". Darchini ricorda l'influenza su di lui del professore di fisica al ginnasio, un esemplare di "materialista volgare", tipico dell'età del positivismo: "Costui non riconosceva leggi morali: esistevano solo le leggi della materia. Il pensiero? Un semplice movimento del cervello per l'afflusso di un po' di sangue. Le religioni? Invenzioni della paura o degli impostori. I credenti? Un branco di citrulli. L'uomo? Santo Dio! una scimmia perfezionata... Andrea , che, sui diciassette anni, aveva già il fremito della ribellione, ascoltava rapito l'oracolo e tornava a casa con una voglia matta di comunicare agli altri queste stupefacenti novità. Chi ebbe le primizie del suo apostolato filosofico fui proprio io".
Il padre dapprima lo aveva immaginato prete, a predicare dal pulpito di San Casciano, ma si era ben presto dovuto rassegnare alla sua mancanza di vocazione. Adesso lo voleva avvocato. "Gli avvocati - diceva - con un soldo di pennini, un soldo di carta e uno di inchiostro, si siedono sulla scrivania e stampano quattrini". Ma il giovane Andrea disattese anche questo desiderio paterno. Sognava la rivoluzione e amava le belle lettere. Andò a vivere a Bologna per seguire da studente "libero", cioè non regolarmente iscritto, le lezioni di letteratura. Smilzo, bassetto, lievemente baffuto, occhialuto, seguiva un po' in disparte le lezioni di un professore dalla lunga chioma, Giosuè Carducci. Ad Andrea piacevano le sue lezioni e a costui non dispiacevano i saggi di scrittura di quello che chiamava "il romagnolino". Ma per il giovane Costa il vero Carducci era nella sua poesia. Gli piacevano le sue odi populiste e, ancor più, amava l'anticlericale Inno a Satana. Darchini racconta:"Dopo un anno di università a Bologna mi torna a casa più ribelle di prima e comincia a parlarmi di un certo Carducci, suo professore di letteratura, e poi, come una fanfara mi fa tuonare nell'orecchio l'Inno a Satana. A dire il vero lui ci capiva poco, e io un po' meno; ma che importa? Così in confuso, tutti e due si capiva che trattavasi del diavolo, e per noi allora ce n'era d'avanzo".

2. L'Inno a Satana di Giosuè Carducci

A te, de l'essere

Principio immenso,

Materia e spirito,

Ragione e senso

-

Mentre ne' calici

Il vin scintilla

Sì come l'anima

Ne la pupilla;

-

Mentre sorridono

La terra e il sole

E si ricambiano

D'amor parole,

-

E corre un fremito

D'imene arcano

Da' monti e palpita

Fecondo il piano;

-

A te disfrenasi

Il verso ardito,

Te invoco, o Satana,

Re del convito.

-

Via l'aspersorio,

Prete, e il tuo metro!

No, prete, Satana

Non torna in dietro!

-

Vedi: la ruggine

Rode a Michele

Il brando mistico,

Ed il fedele

-

Spennato arcangelo

Cade nel vano.

Ghiacciato è il fulmine

A Geova in mano.

-

Meteore pallide,

Pianeti spenti,

Piovono gli angeli

Da i firmamenti.

-

Ne la materia

Che mai non dorme,

Re dei i fenomeni,

Re de le forme,

-

Sol vive Satana.

Ei tien l'impero

Nel lampo tremulo

D'un occhio nero,

-

O ver che languido

Sfugga e resista,

Od acre ed umido

Pròvochi, insista.

-

Brilla de' grappoli

Nel lieto sangue,

Per cui la rapida

Gioia non langue,

-

Che la fuggevole

Vita ristora,

Che il dolor proroga,

Che amor ne incora.

-

Tu spiri, o Satana,

Nel verso mio,

Se dal sen rompemi

Sfidando il dio

-

De' rei pontefici,

De' re cruenti;

E come fulmine

Scuoti le menti.

-

A te, Agramainio,

Adone, Astarte,

E marmi vissero

E tele e carte,

-

Quando le ioniche

Aure serene

Beò la Venere

Anadiomene.

-

A te del Libano

Fremean le piante,

De l'alma Cipride

Risorto amante:

-

A te ferveano

Le danze e i cori,

A te i virginei

Candidi amori,

-

Tra le odorifere

Palme d'Idume,

Dove biancheggiano

Le ciprie spume.

-

Che val se barbaro

Il nazareno

Furor de l'agapi

Dal rito osceno

-

Con sacra fiaccola

I templi t'arse

E i segni argolici

A terra sparse?

-

Te accolse profugo

Tra gli dèi lari

La plebe memore

Ne i casolari.

-

Quindi un femineo

Sen palpitante

Empiendo, fervido

Nume ed amante,

-

La strega pallida

D'eterna cura

Volgi a soccorrere

L'egra natura.

-

Tu a l'occhio immobile

De l'alchimista,

Tu de l'indocile

Mago a la vista,

-

Del chiostro torpido

Oltre i cancelli,

Riveli i fulgidi

Cieli novelli.

-

A la Tebaide

Te ne le cose

Fuggendo, il monaco

Triste s'ascose.

-

O dal tuo tramite

Alma divisa,

Benigno è Satana;

Ecco Eloisa.

-

In van ti maceri

Ne l'aspro sacco:

Il verso ei mormora

Di Maro e Flacco

-

Tra la davidica

Nenia ed il pianto;

E, forme delfiche,

A te da canto,

-

Rosee ne l'orrida

Compagnia nera,

Mena Licoride,

Mena Glicera.

-

Ma d'altre imagini

D'età più bella

Talor si popola

L'insonne cella.

-

Ei, da le pagine

Di Livio, ardenti

Tribuni, consoli,

Turbe frementi

-

Sveglia; e fantastico

D'italo orgoglio

Te spinge, o monaco,

Su 'l Campidoglio.

-

E voi, che il rabido

Rogo non strusse,

Voci fatidiche,

Wicleff ed Husse,

-

A l'aura il vigile

Grido mandate:

S'innova il secolo,

Piena è l'etate.

-

E già già tremano

Mitre e corone:

Dal chiostro brontola

La ribellione,

-

E pugna e prèdica

Sotto la stola

Di fra' Girolamo

Savonarola.

-

Gittò la tonaca

Martin Lutero;

Gitta i tuoi vincoli,

Uman pensiero,

-

E splendi e folgora

Di fiamme cinto;

Materia, inalzati;

Satana ha vinto.

-

Un bello e orribile

Mostro si sferra,

Corre gli oceani,

Corre la terra:

-

Corusco e fumido

Come i vulcani,

I monti supera,

Divora i piani;

-

Sorvola i baratri;

Poi si nasconde

Per antri incogniti,

Per vie profonde;

-

Ed esce; e indomito

Di lido in lido

Come di turbine

Manda il suo grido,

-

Come di turbine

L'alito spande:

Ei passa, o popoli,

Satana il grande.

-

Passa benefico

Di loco in loco

Su l'infrenabile

Carro del foco.

-

Salute, o Satana,

O ribellione,

O forza vindice

De la ragione!

-

Sacri a te salgano

Gl'incensi e i voti!

Hai vinto il Geova

De i sacerdoti.

27.1.10

La produzione dell'emergenza.

Le guerre, in primo luogo, ma anche le sciagure di ogni altro tipo, attuali o presentate come imminenti ( terrorismi, banditismi, cataclismi, terremoti, crolli catastrofici e quant’altro), tutto fa brodo per giustificare la sospensione, o almeno l’attenuazione, delle procedure democratiche e delle libertà civili. E’ una regola che vale sempre, perfino quando al governo vi siano gruppi il cui orientamento liberale non lasci dubbi. Figurarsi quando i governi siano come quello dell’Italia d’oggi, d’ispirazione populista e con tentazioni autoritarie!
Un potere siffatto non si accontenta di usare le “emergenze” che si trova a fronteggiare per consolidarsi, togliersi dai piedi gl’intralci, neutralizzare gli oppositori, ma, ad arte, ne crea di nuove, da cui trarre ogni possibile vantaggio. Gli esempi potrebbero essere tanti. Ne farò un paio che giustificano un’ulteriore osservazione.



La maialata
Pompato dalle dichiarazioni di ministri e viceministri, gonfiato dalle Tv (di regime), l’allarme per l’influenza da virus H1N1, la cosiddetta “suina”, definita “pandemia”, è stata già dall’estate l’occasione per un acquisto-capestro dalla società Novartis (“davvero bizzarro” lo ha definito il senatore Ignazio Marino), in virtù di una trattativa privata condotta nel 2004 dall’allora ministro Sirchia (poi condannato in primo grado e indultato per aver intascato farmaceutiche tangenti). Il contratto, stipulato in agosto, garantiva la Novartis da ogni possibile rischio d’impresa, caricando per di più lo Stato delle possibili conseguenze negative per la salute dei cittadini, perfino quando la responsabilità per la mancata conclusione dei test fosse della casa farmaceutica.
Quando in autunno, presi dall’ansia, i cittadini sono andati all’ospedale per vaccinarsi si sono sentiti richiedere il consenso informato perché i vaccini non avevano ancora superato tutti testi previsti per la commercializzazione. I più, alla fine, saggiamente informati anche dai medici di base, hanno scelto di non vaccinarsi.
Conclusione: dei 24 milioni di dosi acquistate dallo Stato ne sono state usate meno di un milione. Lo Stato ha speso ben 184 milioni di euro, contro i 10 che sarebbero bastati per le dosi effettivamente usate.
Su tutto l’affare non manca l’ombra del conflitto d’interessi, solo apparentemente risolto dalla recente nomina a ministro della salute di Ferruccio Fazio. Enrica Giorgetti, moglie del ministro del welfare Sacconi, cui al tempo del contratto era in capo la delega per la salute, è direttrice generale di Farmindustria e, in quanto tale, interessata a promuovere gli interessi delle aziende farmaceutiche.

In prigione
La cosiddetta emergenza carceri dovuta al sovraffollamento (nelle prigioni italiane ci sono anche altre emergenze, che i governativi facilmente dimenticano) non è una novità. Alla fine del 2005 già i penitenziari scoppiavano e i radicali organizzarono a Natale una iniziativa di lotta sul tema cui partecipò anche Napolitano. Poi arrivò l’indulto, che il Parlamento approvò al tempo del governo Prodi, ed ebbe nella congiuntura un effetto positivo di parziale sfollamento.
Il governo Berlusconi avrebbe dovuto da subito scegliere le strategie e produrre gli interventi per evitare un nuovo sovraffollamento: depenalizzazioni, pene alternative, ampliamento delle carceri esistenti, costruzione di nuovi penitenziari. E invece no. Ha fatto il contrario. Ha introdotto una legge che trasforma una condizione (quella di immigrato irregolare) in reato e contribuisce a riempire le prigioni di innocenti. Oggi Alfano proclama in Parlamento lo stato d’emergenza. La proclamazione consente di fare le operazioni che si fanno in guerra o nelle catastrofi. Si centralizzano le decisioni e si eliminano interventi e controlli. Il ministro promette che, senza vincoli, riuscirà a costruire i nuovi reparti e le nuove carceri che servono.

Il comitato d’affari
Anche per le carceri si può ragionevolmente prevedere che le daranno da fare ad amici e ad amici degli amici. La sistematica produzione di emergenze in un contesto di crisi economica accentua uno dei caratteri storici dei governi borghesi, quello di “comitato d’affari” della borghesia. Qui, meglio si direbbe, dei settori più parassitari della borghesia.