18.5.10

Il razzismo in Italia.

A cura di Grazia Naletto è uscito lo scorso anno per la manifestolibri il Rapporto sul razzismo in Italia, frutto del lavoro di un gruppo di studiosi (Annamaria Rivera, Alberto Burgio, Giuseppe Faso, Maurizia Russo Spena, Marcello Maneri, Grazia Naletto, Paola Andrisani, Giulia Cortellesi) che affrontano il tema da diverse prospettive, dal contesto politico e culturale alle manifestazioni del razzismo nel linguaggio, dagli aspetti giuridici a quelli religiosi. Molto spazio è dedicato al ruolo dei mezzi di comunicazione, tv e giornali, la cui azione è studiata anche attraverso il riferimento a taluni casi di cronaca esemplari. Qui riporto la recensione che mi ha invogliato ad acquistarlo, dal numero 9 del settimanale “left-avvenimenti” dello scorso 5 marzo, nella rubrica curata da Adriano Prosperi. Un punto su cui sollecito una riflessione riguarda il cosiddetto “sciopero dei migranti” del primo marzo scorso. La mia costatazione empirica (vedi su questo punto quanto ho scritto nei giorni successivi alla iniziativa in http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/03/immigrati-dallo-sciopero-dimostrativo.html e in http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/03/2-scimmietta-e-mezza-mantovano-e-gli.html ) coincide con quella dell’articolista: lo sciopero, inteso come astensione dal lavoro dipendente, non c’è stato. Vedo con piacere su face book che intorno alla manifestazione si sono costituiti un comitato nazionale e dei comitati locali che continuano a diffondere notizie e sollecitazioni per una battaglia culturale antirazzista. Credo, tuttavia, che per produrre effetti politici, la proclamazione e l’effettuazione di uno “sciopero sciopero” sia un passaggio indispensabile. E’ tempo di organizzare una vera e proprio campagna di pressione sulle confederazioni sindacali, massimamente sulla Cgil che dovrebbe essere la più sensibile (S.L.L.).

Taccuino di un lettore

Il razzismo di oggi? Il problema è la facilità con cui la gente ci si abitua. Come accadde per le leggi del 1938

Adriano Prosperi


Sui fatti di Rosarno c’è la parola dei vescovi: hanno detto che a Rosarno non c’è razzismo. Diversa l’opinione del Rapporto sul razzismo in Italia a cura di Grazia Naletto (Manifestolibri, Roma 2009). «Il razzismo in Italia non è ormai più un’emergenza, nel senso che è quotidiano e diffuso da tempo in tutte le aree del Paese». Quello che dovrebbe allarmarci, osserva la curatrice, è «la facilità con la quale tendiamo ad abituarci alla sua presenza accettandolo come un fatto sociale ordinario». Parole che sospingono alla superficie della memoria un ricordo sgradevole di qualcosa che vorremmo dimenticare. Anche gli italiani del 1938 non si sentivano razzisti eppure si abituarono da un giorno all’altro all’esistenza di una discriminante sociale fondata sulla differenza di razza: di qua italiani-italiani, di là italiani-ebrei. Il fenomeno accadde in seguito a una violenta campagna di stampa che culminò nella pubblicazione delle leggi razziali del 1938.

La storia si ripete? Forse sì. In forme diverse, profondamente diverse, il meccanismo che vediamo in atto assomiglia a quel precedente. Ci sono differenze, naturalmente: oggi non è in scena l’antisemitismo e la discriminante tra i cittadini e i non cittadini è legata alla stanzialità: da un lato gli stanziali in possesso della cittadinanza e dall’altro i migranti che quella cittadinanza non posseggono. Siamo reduci da quella giornata del 1° marzo che doveva dimostrarci una cosa importante: il bisogno che abbiamo dei migranti, l’impossibilità per la vita quotidiana dei singoli e delle imprese di andare avanti senza la loro opera. Ebbene, l’esito della giornata è stato poco meno che fallimentare. Qualche piazza più colorata del solito, musiche e voci di altre culture, manifestazioni di solidarietà: ma il Paese non si è fermato. La società parallela degli immigrati ha fatto appena un timido capolino nella vita pubblica. Eppure si tratta di una società imponente numericamente e socialmente indispensabile. Quando si parla di sei milioni circa di persone si parla di un decimo della popolazione: e di un decimo fondamentale, perché è quello che tiene in piedi le famiglie, cura anziani e malati, rende economicamente attive imprese sull’orlo del dissesto, dall’edilizia alla conceria, alla raccolta delle arance. Se la maggioranza di quei sei milioni fosse davvero sciamata nelle piazze lasciando per un giorno vecchi e malati e lavoro alla sola etnia italiana sarebbe stato uno scossone robusto, un mezzo terremoto. La società del nostro Paese avrebbe scoperto al Nord famiglie bloccate dall’assenza delle badanti e al Centro-Sud edilizia, concerie, raccolta delle arance e quant’altro obbligate a fermarsi. Non è accaduto. Non poteva accadere. Il bisogno e la paura attanagliano gli immigrati e fanno di loro degli schiavi impotenti. Nel sistema italiano l’immigrato è ancora una persona senza diritti, soggetta al ricatto del salario per miserabile che sia, anzi tanto più ricattabile quanto più il compenso è miserabile e il lavoro è precario. La legge lo definisce un essere a parte, le misure del “decreto sicurezza” sono il fondamento giuridico di un sistema di paura e di insicurezza. Il reato di immigrazione clandestina che scatta al momento in cui si perde il contratto di lavoro fa degli immigrati un popolo di schiavi e pone in mano al datore di lavoro un’arma micidiale.

Da questo punto di vista l’unico esempio storico che viene in mente è ancora quello delle leggi razziali del 1938: la discriminazione di razza poté anche non convincere le menti. Ma gli appetiti che si accesero su aziende e posti di lavoro dell’ebreo resi disponibili per legge da un giorno all’altro spazzarono via ogni scrupolo e ogni incertezza. E questo ci ricorda se ce ne fosse bisogno quali sono gli istinti che muovono gli uomini. Qualcuno potrebbe osservare che l’Italia di oggi è pur sempre un Paese che fa parte dell’Europa e che ha accettato di adeguarsi a norme e riconoscere diritti umani universalmente validi. Tasto dolente, quello dell’Europa.

Ci eravamo illusi che la locomotiva civile europea avesse la forza di trainare il vagone italiano lungo i binari di modelli migliori e più rispettosi dei diritti fondamentali delle persone. Non è stato così. L’Europa sembra aver perso la sua carica progettuale, l’europeismo decade a utopia, gli egoismi nazionali sono cavalcati da capi di governi statali che rubano la scena alle deboli istituzioni comunitarie. E le regole sovrastatali sono ignorate senza nessuna resistenza. L’Italia, osserva Annamaria Rivera nel Rapporto sul razzismo, in materia di diritti dei lavoratori «viola la Convenzione 143 sulla promozione della parità di opportunità e di trattamento dei lavoratori migranti, ratificata nel 1981»: il rapporto del 6 marzo 2009 dell’Ilo, l’agenzia per il lavoro dell’Onu, riferisce che immigrati, minoranze e soprattutto i rom qui da noi sono discriminati in modo grave e che l’intolleranza, la xenofobia e il razzismo vengono diffusi dalle istituzioni stesse, con la partecipazione o la colpevole distrazione dei leader politici.

Ecco dunque che l’attenzione è obbligata a spostarsi dalla scena dei casi quotidiani di razzismo alle responsabilità di chi governa, di chi ha il potere nelle sue mani. Con questo non si nega che esistano anche persone generose e iniziative istituzionali positive. Ma non è un problema di buoni e cattivi. E comunque se dovessimo affrontare il conteggio dei casi concreti è molto probabile che gli episodi di solidarietà e di pratica dell’uguaglianza resterebbero percentualmente sconfitti dai casi opposti. Il censimento degli episodi di ordinario razzismo avvenuti in Italia tra il 1° gennaio 2007 e il 14 luglio 2009 e qui riportati sinteticamente da Paola Andrisari e Grazia Naletto, mette sotto gli occhi dei lettori una casistica impressionante e permette di concludere che il fenomeno non è fatto di casi isolati ma ha una forte capacità di radicamento, specialmente in ambienti giovanili. Questa casistica mostra tra l’altro che nel corso del biennio esaminato è avvenuto «un progressivo peggioramento delle condizioni già precarie dei migranti e dei rom». Ma la cosa più notevole è un’altra: quella che ne emerge è la funzione micidiale dei media e del discorso pubblico nel diffondere i presupposti della xenofobia. Quando il pregiudizio viene rilanciato e rafforzato dal sistema dei media diventa una pubblica verità. Non è mai esistita una prova del Dna capace di individuare la nazionalità o l’etnia di una persona: ma questo non ha impedito a un importante quotidiano italiano di affermare che dal Dna si poteva individuare la nazionalità rumena dei colpevoli di un caso di stupro particolarmente clamoroso. Ancora: la leggenda degli zingari ladri di bambini ha fatto il suo tempo. Ma basta che la paura irrazionale di una madre venga rilanciata dallo schermo televisivo e subito diventa una certezza. Concludiamo dicendo che nella creazione di stereotipi razziali e nella creazione di barriere è centrale la responsabilità dei poteri che reggono e amministrano la vita pubblica italiana: non solo i tre poteri fondamentali del sistema costituzionale, non solo il “quarto potere” di giornali e televisione ma anche i moltissimi poteri via via emergenti nel sistema del Paese - un sistema gelatinoso, un’Italia “patria del mondo gelatina”, come intitolò la sua autobiografia Roseda Tumiati, indimenticabile testimone della Ferrara delle leggi razziali. E in questo quadro non possiamo trascurare le avventurose imprese di tanti sindaci dall’attivismo spericolato, pronti senza distinzioni di partito a sfruttare le contraddizioni sociali, le paure, i razzismi per costruire la propria fortuna politica. Ne riferisce in questo libro Sergio Bontempelli che parla delle ordinanze pazze di certi sindaci come del versante grottesco del razzismo. Non sindaci ma sceriffi: così vuole il linguaggio di un Paese che ama proiettare le sue piccole storie di violenza e di sopraffazione nell’immaginario sfondo cinematografico del selvaggio West.

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