Maurice de Vlamink, Guillaume Apollinaure. Museo delle Arti, Los Angeles |
Politica,storia,letteratura e varia umanità. Pezzi vecchi e nuovi d'ogni provenienza. Ogni lunedì una poesia. Borghesi e reazionari, pretonzoli e codini, reggicode e reggisacchi, ruffiani e pecoroni, tremate!
31.7.10
"Mia tenera puttana". Una poesia erotica di Guillaume Apollinaire.
Due poesie di amore e guerra di Guillaume Apollinaire (1880 - 1918).
30.7.10
Giuha e il sermone del venerdì
Nella tradizione dei racconti popolari arabi ci sono due Giuha, che sono, come i padani Bertoldo e Bertoldino, uno furbissimo e l’altro stupidissimo ma spesso fortunato. E’ questo secondo che divenne il Giufà siciliano. Gli arabi di città sogliono dire che quello scemo viene dalla campagna, ma si sbagliano. La storiella che qui si narra ha, in ogni caso, come protagonista quello con il cervello fino. (S.L.L.)
Un venerdì Giuha andò in moschea, salì sul pulpito e alle persone colà riunite disse: “Nel nome di Allah, il misericordioso! sapete di che cosa vi parlerò adesso?”. Risposero che non lo sapevano e Giuha disse: “Ebbene, visto che non sapete nulla, è inutile che io predichi agli ignoranti” e se ne andò.
Il venerdì seguente risalì sul pulpito e chiese nuovamente: “Nel nome di Allah, il misericordioso! Sapete di che cosa vi parlerò adesso?”. La gente questa volta rispose: “Sì, lo sappiamo”. E Giuha replicò: “Se già lo sapete è inutile che mi affatichi a dirvelo”.
Il terzo venerdì la gente si mise d’accordo che alla solita domanda alcuni avrebbero risposto di sì e gli altri no. Giuha salì sul pulpito e domandò: “Nel nome di Allah, il misericordioso! Sapete di che cosa vi parlerò adesso?”. Come d’accordo una parte dell’uditorio rispose:“Lo sappiamo” e l’altra:“Non lo sappiamo”. “Bene – fece Giuha – quelli che lo sanno lo spieghino a quelli che non lo sanno”. E se ne andò.
Da Racconti popolari arabi a cura di Elisabetta Console, Carla Guttermann, Silvia Villata, Mondadori 1985.
L'uomo di sinistra e il Pci (di Leonardo Sciascia, da "La Sicilia come metafora")
Lo stato di Paglia.
Tempi duri per il vescovo Paglia. Frustrato nelle ambizioni di carriera romana e nazionale, ridimensionato dalla forte autonomia delle Diocesi nel ruolo di presidente della Conferenza episcopale umbra, ora viene contestato nel cuore del suo potere: Terni, il Duomo, il Vescovato. Oggetto della contestazione sono gli spazi fisici riconducibili alla sua giurisdizione, quelli che qualcuno a Terni chiama “lo stato di Paglia”.
Ne è autore Pietro Paolo Marconi, di Cittadinanza Attiva, che, nel ruolo di “Procuratore dei cittadini”, raccoglie istanze e lamentazioni. Nei giorni scorsi ha spedito una lettera durissima, accorata nel tono e corredata di citazioni evangeliche, nella quale constata che “la città ferita” (immagine cara al Paglia) è presente anche “dentro le mura della sua Chiesa”.
Scrive: “Gli abitanti della zona Duomo e vie adiacenti più volte si sono rivolti al nostro Ufficio e per i ripetitori installati sul campanile che provocano inquinamento elettromagnetico e danni, soprattutto ai bambini, e per l’inquinamento da rumore assordante, da fumo e da schiamazzi che si protraggono fino a tarda notte proprio sotto le sue finestre. La gente viene svegliata di soprassalto ed in maniera particolare protestano i lavoratori che fanno i turni”.
La protesta coinvolge la persona del vescovo: “Lei, come fece Gesù, dovrebbe molto adirarsi con i profanatori del Tempio, tempio inteso come cuore dell’uomo e quindi casa di Dio, … perché hanno trasformato la casa del Padre in una spelonca di ladri”.
In particolare il procuratore denuncia la trasformazione dell’oratorio in un bar, ove, fino a tarda ora, si fuma e ci si abbevera ai videogiochi: “Monsignor Paglia, cosa sta cambiando? Come è possibile che non si accorga dei profanatori del Tempio?”. Marconi lascia indovinare qualche vantaggio economico per la Curia: è infatti improbabile che spazi di sua pertinenza, come il tetto del campanile o come il bar (cui si accede dopo aver varcato la soglia del portico della Cattedrale), siano utilizzati a fini di lucro senza una qualche vescovile cointeressenza.
Della lettera hanno riferito “La Nazione” e il giornale online “Terni magazine”, prodigo di critiche che, forse, in altri tempi avrebbe espresso con più cautela. Al Paglia (che ha rifiutato un’intervista) i compilatori del sito rimproverano di occuparsi più della promozione dei propri libri e della cura degli affari (talora in concorso con il Comune), che non del benessere fisico, morale e spirituale dei fedeli e degli stessi sacerdoti (Marconi accenna all’abbandono in cui versano alcuni preti anziani). Paglia ad oggi non ha reagito: dal vescovato comunicano che è in Africa, nel Congo ex belga, con una delegazione diocesana. Qualcuno spera che in un empito apostolico ci rimanga. S’illude. Paglia è come Veltroni: gira gira ce l’abbiamo sempre tra i piedi.
Il sapone.
Lo conosciamo da 400 anni ma è solo da poco che siamo riusciti a scoprirne, grazie alla diffrazione dei raggi X, la struttura fisico-chimica.
L’invenzione del sapone è stata attribuita di volta in volta a sumeri, fenici, egizi, ebrei. E’ vero che ciascuno di questi popoli utilizzò liscivie alcaline ottenute da ceneri vegetali, ma solo per gli egizi ci sono prove certe che impiegarono “per lavare” il prodotto ottenuto, combinando a soluzioni alcaline degli oli animali o vegetali. E alla scoperta, è da credere, giunsero per caso. Siccome allora si usava, per le circostanze festive, spalmarsi i capelli di grasso, è probabile che il sapone sia stato ottenuto accidentalmente, dal mescolamento di alcali (soda e potassio) con esteri di acidi grassi e di glicerolo.
Favola è, naturalmente, la storia che un pescatore di Savona (da cui il nome…) abbia ottenuto per caso una saponetta riscaldando liscivia di soda in una pentola ancora sporca di olio di oliva. La prima notizia certa sul sapone è del I secolo dopo Cristo e la trova nella Naturalis historia di Plinio il Vecchio, che ne attribuisce l’invenzione agli abitanti della Gallia: “I Galli hanno scoperto una sostanza che è chiamata sapo, con cui tingono in rosso i capelli. La migliore si ottiene mescolando grasso di capra e cenere di legno di faggio. Si usa sapo di due tipi, solido e liquido, e ne fanno uso nella Gallia sia gli uomini che le donne”. In realtà per codesti prodotti la saponificazione dei grassi doveva essere tutt’altro che completa, dato l’alto livello di carbonati presenti nelle ceneri: perciò quel sapo era una specie di pomata composta da grassi poco saponificati, grasso e cenere. Insomma il “sapone” era ben poco.
Dopo Plinio diverse fonti documentano che nei primi secoli dell’era volgare che l’uso del sapo si era ampliato e che veniva consigliato a scopi terapeutici (malattie della pelle). La patria del sapone è Wiesbaden: dalla città sul Reno si diffonde in Europa, prima come medicamento, poi – è Galeno a consigliarlo – “per nettare il corpo e gli abiti”. Un salto di qualità si ha quando entrano in scena gli arabi: stimati alchimisti, con loro si realizza, per la prima volta, una saponificazione pressoché perfetta. E’ nell’Alto Medioevo che dai paesi arabizzati e islamizzati che, attraverso la Spagna, il sapone arriva a Marsiglia, che fin d’allora diviene un grande centro di saponificazione (è tuttora in uso il “sapone di Marsiglia”). Venezia, poi, mescola per prima i saponi ai profumi: nasce il “sapone da toilette”.
Nell’Ottocento il chimico francese Eugene Chevreul studia per primo, alla luce della scienza moderna, le componenti del sapone. negli anni Quaranta del Novecento l’americano Mc Lain ed altri studiano il processo di saponificazione distinguendo ben sei fasi. Intorno al 1970 si tracciano i diagrammi delle diverse mescole “saponose”, in funzione delle diverse temperature cui si porta la miscela e del tempo a cui viene sottoposta a quelle temperature.
Anche il concetto di detergenza, apparentemente semplice, corrisponde all’interazione di condizioni chimiche complesse. Scopo dell’impiego del sapone è l’eliminazione dalle fibre della sporcizia attraverso l’uso di una soluzione di lavaggio che lo vede mescolato ad acqua. Perché il detergente agisca occorre che abbia con la fibra da lavare un’affinità superiore a quella della sporcizia e che riesca pertanto a rendere solubile lo sporco. La schiuma, nell’azione di lavaggio, ha un carattere secondario, come reattivo. Essa è la spia che nel liquido c’è una riserva di colloidi molecolari sufficiente per l’azione di lavaggio. quando si forma il sapone può adempiere la sua funzione di eliminazione dello sporco. E lo fa appunto perché il sapone è tuttora, dopo tanti secoli, uno tra gli strumenti più efficaci inventati dagli uomini per pulire.
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La fonte di questo post è un ritaglio da "L'Europeo". Il periodo dovrebbero essere i primi anni 80, il compilatore è probabilmente Giuliano Ferrieri, che al tempo curava la divulgazione scientifica per il settimanale.
29.7.10
Dai "Sonetti del Badalucco" di Gianni Celati. Sonetto 2
Ecco la piana di Aversa, che ora consta
di scheletri in cemento e case orrende,
create per il lucro di una cosca
che fa, disfa, massacra, e tutto svende.
Peggior danno non c’è che si conosca:
inferno, galera, ricatto che tende
a chiudervi la bocca, nella losca
congrega di assassini che rivende
l’anima vostra, urlando: “Zitto e mosca!”.
Così arricchirete in orride faccende,
homo homini lupus, grinta fosca,
finché uno sparo in testa non vi stende.
Questo è l’ordine sociale, cosiddetto:
io sto coi cani randagi e i senza tetto.
"Vittorini se n'è ghiuto". L'orgogliosa povertà di uno scrittore (S.L.L.)
28.7.10
Bellezza ad alta quota. Da "Almanacco della donna italiana 1939".
Franco Fortini ad Aldo Capitini (1950): rifiuto della guerra e lotta allo sfruttamento.
La profezia del vescovo. Da "Comunismo. Un racconto autobiografico" (S.L.L.)
Mitra vescovile bianca. |
Dai "Sonetti del Badalucco" di Gianni Celati. Sonetto 1
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Torna da vecchio in patria il viaggiatore
e guarda il suo paese ritrovato,
ora inospite, triviale, deturpato,
in mano a furbi senza alcun pudore:
fogna di massa, paese d’orrore
e di vergogne da togliere il fiato,
con quei somari del televisore
che fan del più fetente il più quotato.
Con chi scambiare idee in tal squallore,
dove impera il maramaldo unto e beato?
Cosa fare in balia d’un truffatore
che aizza tutto il popolo intronato?
Che dire? È in fogne, fango e brulicame
che fa carriera il Badalucco infame.
Sei grande, Mina! (di Rina Gagliardi)
Da ragazzo preferivo la Vanoni a Mina e, a causa di Ornella, talora litigavo aspramente con mio fratello Vittorio, che, invece, era “minista” fin dalla più tenera età. Sulla Vanoni non ho, tutto sommato, cambiato idea; su Mina sì. Non era affatto un’“urlatrice”, ma una voce capace di tutto. Per questo in attesa di ribattere, visto che non si scannerizza bene, un grande pezzo della nostra sempre viva Rina Gagliardi sulle eroine della lirica, propongo qui (da “il Riformista” del 18 marzo 2010) un articolo su alcune eccezionali voci femminili: Mina appunto, ma anche la Callas e la Olivero (S.L.L.).
Una stella come l'eterna Callas
Si può essere grandi interpreti musicale anche sulla base di una “voce piccola” (come per esempio è oggi il mezzosoprano Cecilia Bartoli). Poi, però, ci sono le voci grandi, anzi le voci eccezionali, caratterizzate da estensione, potenza, ricchezza di armonici, quasi sempre anche da un timbro del tutto, appunto, fuori dal comune. Quante ne nascono in un secolo? Poche, ovviamente. E lasciano dietro di sé tracce mitiche – come è accaduto a Enrico Caruso, con la sua «cavata da violoncello» o al basso russo Fjodor Scjaliapin o al più recente, ma assai meno fondato, Luciano Pavarotti. Ma sono forse soprattutto le voci femminili a toccare i vertici dell’eccezionalità canora.
Tra le cantanti così dette pop, non solo italiane, Mina Anna Mazzini, in arte semplicemente Mina, è una di queste voci elette. Tanto che ha trascorso gli ultimi trentadue anni di carriera essendo, appunto, soltanto una Voce – lontana dai palcoscenici, dalle Tv, dai concerti e affidata interamente alla produzione discografica. Con un successo e un prestigio che continuano a non venir meno, come attesta il profluvio di celebrazioni che si terranno in occasione del suo settantesimo compleanno, il prossimo 25 marzo.
La voce – e il personaggio – di Mina esplosero alla fine degli anni ’50, rivoluzionando a forza di rock l’Italia ancora prigioniera di una tradizione melodica ormai alquanto impigrita. Ma in tempi molto rapidi assurse al ruolo di cantante “assoluta” – “absoluta”, sciolta, da schemi rigidi e limiti di repertorio. Quella voce divenne capace di interpretare tutto, dal jazz alle grandi melodie classiche di ogni Paese – e cantò in effetti nelle lingue più svariate, fino al giapponese. Universale e assoluta com’era stata Maria Callas, il soprano più leggendario del XXesimo secolo – il parallelo è di critici serissimi, come Rodolfo Celletti.
Che cosa accomuna, dunque, Mina e la Callas? Non è solo la straordinaria ricchezza della voce, capace di espandersi, in entrambe, su tre ottave e di raggiungere grandi livelli di virtuosismo. É la tensione interpretativa, quella che Verdi chiamava la «parola scenica», a rendere unico il loro modo di eseguire un brano musicale dotato di un testo – si tratti di un’aria o di un recitativo. o di una più semplice canzone. É l’intensità espressiva del loro canto, capace di illuminare da dentro - con la padronanza tecnica, la variazione anche impercettibile, il fraseggio originale - il senso profondo di quello che stanno cantando. Insomma, sono due speciali, specialissime cantanti-attrici, non, però, nel senso che si dà comunemente a questa espressione (la capacità di muoversi sulla scena e di usare tutto il corpo, qualità per altro che l’una e l’altra possedevano in alto grado), ma in quello vocale e comunicativo: la verità dei sentimenti o delle situazioni che di volta in volta rappresentano - il pathos, il dolore, l’allegria, il conflitto lacerante, la disperazione, la malinconia e mille altre – è sempre interna alla musica, alla parola musicale.
Quando la Callas, nella famosa scena della pazzia della Lucia di Lammermoor, si inoltra nei difficili trilli della cadenza, fino ad allora eseguiti, anche impeccabilmente, come un supremo esercizio di abilità, riesce di colpo a restituire il colore tragico e l’aura irreale, delirante, che quei gorgheggi devono esprimere – come si confà a una giovane donna che ha smarrito la ragione e ha appena commesso un delitto. Quando Mina interpreta una canzone che ha fatto storia, Se telefonando (l’unico pezzo leggero scritto da Ennio Morricone), la affronta proprio come un piccolo melodramma concentrato (la fine di un amore «cresciuto troppo in fretta») – dal pianissimo dolce, quasi vellutato, dell’attacco sale via via al forte del finale, assecondando in toto, con il pieno dispiegamento della voce, il carattere inesorabilmente ascendente del brano. Due esempi, tra i tanti che si potrebbero fare, per capire che cosa rende uniche, ciascuna a suo modo, ciascuna nel suo ambito, due cantatrici per tanti versi imparagonabili.
Ma c’è un altro parallelo a cui ci chiama il calendario. Gli astri hanno fatto nascere, il 25 marzo del lontano 1910, un’altra gloria dell’Italia canora: Magda Olivero, uno dei massimi soprani lirici del ‘900. La quale si accinge quindi a compiere i suoi primi 100 anni, e in condizioni di relativa freschezza vocale: l’anno scorso, quando di anni ne aveva appena 99, la Olivero ha stupefatto il pubblico intonando un’aria (Paolo datemi pace) tratta dalla Francesca da Rimini di Zandonai.
Quando aveva soltanto 83 anni, e si era ritirata da tempo dalle scene, incise una selezione dell’Adriana Lecouvreur, una delle opere che erano state sue per molti anni. Insomma, una longevità vocale a dir poco stupefacente. Quanto alla vocalità, pur essendo in possesso di una tecnica molto solida nonché di un perfetto controllo del fiato, la Olivero privilegiò il repertorio novecentesco – Puccini, Cilea, appunto, Mascagni, Catalani, insomma gli autori della così detta giovane scuola. In scena, da lei emanava una forza drammatica eccezionale, una sorta di impeto febbrile che emozionava anche le pietre – tanto che fu, a torto, accusata di verismo, lei che, tra le poche incisioni discografiche realizzate in gioventù, dopo il debutto del ’33, ci ha lasciato la più perfetta e virtuosistica interpretazione di Sempre libera, l’aria-simbolo della Traviata.
Ha senso un parallelo artistico tra Mina e Magda Olivero? Forse no, forse sono davvero due voci molto diverse – un altro critico eccellente ha scritto che, se Mina si fosse dedicata all’opera, sarebbe stata un soprano rossiniano, un «soprano drammatico di agilità» come fu in effetti la Callas e com’era stata, nell’Ottocento, la grandissima Maria Malibran (un’altra nata di marzo, guarda un po’, e per la precisione il 24 marzo 1808). In ogni caso, nemmeno un paio di anni fa, Mina l’ha affrontato il Puccini tanto caro alla Olivero – con una cifra stilistica, però, leggera, soft, sognante, lontanissima (non solo per ragioni vocali ma psicologiche) da ogni eccesso passionale. Il vero tratto comune, a ben pensarci, è la durata della carriera e la prolungata freschezza vocale: Mina Mazzini può ben pensare di avere di fronte a sé nientemeno che un altro trentennio di musica e canzoni. Per la gioia di un altro paio di generazioni di fans e melomani.
Ciò che resta. Una poesia di Riccardo Raimondo.
27.7.10
Era d'estate. Genova 1960: la cacciata. Genova 2001: il ritorno.
Nelle scorse settimane, su questo blog, ho raccolto diversi contributi e raccontato direttamente alcuni momenti della calda estate del 1960, quella del governo Tambroni e dei morti di Reggio Emilia. Manca – credo – una rievocazione e una specifica riflessione sui fatti di Genova e sulla loro “durata”. Provvedo qui.
Nel 1960 Genova era una delle città più rosse d’Italia, ma era anche la città del cardinale Siri, dichiaratamente conservatore, il quale al tempo si opponeva nettamente a ogni “apertura a sinistra” e auspicava una stretta autoritaria. Un giovane brillante sacerdote della sua Curia, da lui incoraggiato, Gianni Baget-Bozzo, aveva reso esplicite le sue simpatie per una “Seconda repubblica” presidenzialista e appoggiava palesemente il governo Tambroni, sostenuto dai missini.
Il Msi (Movimento sociale italiano) neofascista, guidato da Arturo Michelini interpretava quel governo come un punto di approdo di una lunga strategia di inserimento. Era forte soprattutto nell’esercito, nella magistratura, nell’alta burocrazia, per effetto di un paradosso. Nei punti chiave degli apparati, in ossequio alla regola dell’anzianità, nel Ventennio c’erano funzionari cresciuti nell’Italia monarchico-liberale, che con qualche libertà interpretavano l’adesione al Regime; ora invece accadeva che i “fascisti onesti” (quelli su cui non pesavano specifici crimini), amnistiati e reintegrati nell’ufficio dal Guardasigilli Togliatti, fossero giunti al vertice della carriera e trovassero una sponda in un partito che stava nell’anticamera del governo e portava iscritto nel nome il riferimento alla repubblica collaborazionista (Rsi).
Secondo Filippo Anfuso, esponente importante della repubblica di Salò e poi parlamentare missino ( vedi http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2009/12/una-storica-sentenza-del-tribunale-di.html), al tempo di Tambroni tra i neofascisti si progettava un cambiamento di nome, che segnalasse in un congresso un distacco formale dal passato, favorisse l’unificazione con i monarchici, consentisse la piena legittimazione e il pieno inserimento al governo del nuovo partito di estrema destra. Volevano che quel congresso si svolgesse a Genova e pensavano di avere le loro ragioni.
Genova era città che più di altre aveva subito la repressione nazifascista, e vi si era massicciamente ribellata cacciando i tedeschi due giorni prima del 25 aprile: era Medaglia d’oro della Resistenza. Ottenere di svolgere a Genova il loro congresso era per i missini il prezzo del sostegno al governo e la sanzione della loro completa rilegittimazione. Tambroni autorizzò il congresso, così sfidando i socialisti, i comunisti e le stesse sinistre della Dc. Aveva ottenuto un avallo insperato. Scelba, potente ex ministro degli Interni ed ex presidente del Consiglio, non amava né Tambroni né il suo grande protettore, il presidente della Repubblica Gronchi; ma proprio lui a Genova, ai primi di giugno, aveva dichiarato che un partito rappresentato in Parlamento come il Msi doveva poter tenere il proprio congresso ovunque: non si potevano accettare veti dalla piazza.
La tensione in città fu aumentata da un’ulteriore provocazione: i missini fecero sapere che il congresso convocato per il 2 luglio sarebbe stato presieduto da Carlo Emanuele Basile, uno dei peggiori torturatori del regime fascista, ancora ricordato in città. Dal governo fu poi mandato a Genova un nuovo questore, Lutri, che durante il fascismo aveva guidato la squadra politica a Torino e nel dopoguerra s’era distinto nella repressione di scioperi e dimostrazioni.
La prima reazione di massa si ebbe il 25 giugno con un corteo organizzato all’Università. Il concentramento era in una piazza vicina al porto. Con gli studenti manifestavano molti professori e si aggregarono giovani operai, impiegati, ragazzi delle scuole superiori. Le sirene della polizia, usate per intimidirli, allarmarono portuali ed operai delle fabbriche: accorsero subito, con ganci e sbarre di ferro, per difendere i giovani. La polizia non riuscì a disperdere il corteo.
Nei giorni successivi cresceva nelle piazze e nei ritrovi popolari la tensione antifascista. I partiti di sinistra, la Cgil e il Consiglio della Resistenza ligure intanto organizzavano manifestazioni in serie: il 2 luglio avrebbero avuto il momento culminante. I volantini suggerivano che, mentre i fascisti avrebbero svolto i loro riti nel salone Margherita circondato dai carri armati, la massa del popolo avrebbe ascoltato in pieno sole le parole di Ferruccio Parri. Ma l’obiettivo dell’isolamento del Msi sembrava non bastare ai giovani e agli operai. Il 28 Sandro Pertini, interpretando la spinta di base e abbandonando le altrui prudenze, proclamava che il congresso non si doveva fare.
Il 30 giugno per lo sciopero generale della Cgil (la Cisl, mentre rifiutava lo sciopero politico, lasciava agli iscritti libertà di scelta) il corteo era enorme. Ma il governo aveva mandato quindicimila tra poliziotti e carabinieri armati di tutto punto e tra essi il battaglione motorizzato Celere di Padova, che intervenne con ripetuti caroselli.
Le cronache della battaglia hanno toni epici. La città è tutta coi dimostranti: soccorre i feriti e attacca dai vicoli ove le jeep non riescono ad entrare. Dalle finestre arrivano vasi, acqua calda, olio. Adesso è la polizia a doversi difendere: le camionette sono rovesciate dai camalli e la Celere arretra. A tarda sera giunge la notizia che il convegno fascista è stato annullato, ma i presìdi non smobilitano e, anzi, il 1 luglio la protesta riparte, sulla linea del discorso di Pertini:“La Resistenza va difesa, costi quel che costi”.
I capi del Msi rientrano a Roma e lunedì 3 a Montecitorio Giorgio Almirante dichiara:“Dobbiamo salvare la faccia davanti ai nostri iscritti”. I missini tuttavia non tolgono immediatamente l’appoggio al governo, trattano con Tambroni. Il 4, al Senato, il ministro dell’Interno Spataro fa un discorso assai minaccioso contro “la piazza eversiva”. L’indomani, mentre il Senato approva il bilancio del Ministero degli Interni, “Il secolo d’Italia” scrive: “Alla piazza scatenata e feroce non basta contrapporre discorsi”. I “fatti” richiesti arrivano: il giorno stesso un morto a Licata, il 6 la carica dei carabinieri a cavallo a Roma , il 7 i sei morti di Reggio Emilia. Quando la notizia arriva alla Camera, i socialisti chiedono che il governo se ne vada. Tambroni replica freddo: “Il governo farà interamente il suo dovere e difenderà lo Stato, le sue libere istituzioni e la sicurezza dei cittadini”. L’8 il presidente del Senato Merzagora, un indipendente di centro-destra, propone una tregua: niente manifestazioni, polizia ed esercito consegnati nelle caserme. La sinistra, la Cgil, le organizzazioni della Resistenza approvano; Dc, Cisl, neofascisti e monarchici no. Lo stesso giorno la polizia torna ad uccidere a Palermo e a Catania. Tambroni ostenta sicurezza: “L’ordine e la legalità sono stati ristabiliti in tutto il paese … il partito comunista è stato duramente battuto e, se riprovasse, avrebbe la peggio”. Sembra il trionfo suo e del Msi, ma non è così. Il socialdemocratico Saragat attacca il governo e il liberale di destra Malagodi si dissocia. Nella Dc isolata e ricattata dai neofascisti inizia un duro confronto che si conclude con le dimissioni di Tambroni e la sua fine politica.
E’ alla fine anche la strategia missina dell’inserimento. I neofascisti, che si erano immaginati vicinissimi al potere, tornano nelle fogne: da ora in poi saranno esclusi dal gioco politico aperto, tutt’al più potranno fornire qualche appoggio sottobanco. Nasce (adesso e non prima) l’“arco costituzionale”: la discriminante antifascista nella Dc comincia a contare quasi quanto la discriminante anticomunista.
La vicenda di Genova, nell’immaginario dell’estrema destra italiana, diventò da quel momento emblematica di una sconfitta vergognosa, di un’onta paragonabile solo al 25 aprile. Al risentimento ed al rancido rancore lungamente e obbligatamente coltivato dai neofascisti sembrò però offrirsi, molti anni dopo, un risarcimento.
Nel maggio del 2001, da tempo sdoganati da Berlusconi, con un nome che non rievocava più i fasti di Salò (An), legittimati da D’Alema e Violante, i neofascisti rientrano trionfalmente al governo. Gianfranco Fini, figliocccio politico di Almirante, è vicepresidente del Consiglio e dice ancora bene di Mussolini. Per il mese di luglio a Genova è previsto il G8 e con esso le iniziative di contestazione del movimento mondiale contro la globalizzazione neoliberista. Fini sente che è l’ora della rivincita e a Berlusconi dice: “Genova è per noi”. Chiede (e ottiene) una sorta di incarico per seguire il doppio raduno e non gli pare vero di militarizzare la città della Lanterna, di delimitarla in zone più o meno protette. C’è, documentato, un clima di provocazioni, anche poliziesche, che sembra agevolare una risposta “storica” alla “piazza rossa” nell’odiata città medaglia d’oro della Resistenza. Dalla Festa d’aprile sono passati 56 anni, dal governo Tambroni 41, la città è molto cambiata sotto il profilo sociale e la sua forza operaia è in gran parte disgregata; ma in una comunità chiusa, come è stata quella del Msi-An, i simboli hanno una grande potenza e durata. L’impressione è che anche stavolta, come nel luglio 60, il morto tra i dimostranti (non necessariamente Carlo Giuliani, uno qualunque) se non cercato, sia auspicato. Fini, a Genova per seguire l’ordine pubblico, forse dorme quando si svolge il gratuito pestaggio di decine e decine di giovani inermi da parte di poliziotti nuovamente trasformati in strumenti di repressione. L’indomani sarà lì a negare e a difendere, mentre qualcun altro copre e depista perché gli autori rimangano impuniti. Uno dei luoghi in cui si è svolto il misfatto è una scuola intitolata a Sandro Pertini. Forse non è un caso.
Oggi Fini si presenta nel ruolo di una destra moderna, democratica e legalitaria, e sfida Berlusconi. Ha preso posizioni nette sull’Olocausto, sul fascismo, sul razzismo, sull’integrazione degli immigrati, e tanti nel centrosinistra lo accreditano come possibile interlocutore. Io prima di aprire il dialogo gli chiederei conto e ragione. Di Genova 2001, se non di Genova 1960.
Un'insopportabile forma di tortura (Andrea Camilleri)
Le carceri, i suicidi, l’indifferenza di tanti e Alfano che non vede.
di Saverio Lodato
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Camilleri, dall'inizio dell'anno nelle carceri, e nel più spaventoso disinteresse, quasi 40 detenuti si sono tolti la vita. Per l'«Associazione Ristretti Orizzonti», dal ‘60 ad oggi, l'incremento dei suicidi è del 300%. Statistica da brivido che il ministero della Giustizia non commenta. Il cappio al collo è consuetudine. Da Roma a Siracusa, da Milano a Ragusa, da Torino a Lametia Terme, da Padova a Piacenza a Reggio Emilia, da Varese a Como, da Brescia a Venezia a Ancona a Frosinone, si moltiplicano i casi di autolesionismo estremo. I suicidi non hanno nulla in comune. Uno era ergastolano. Uno sarebbe uscito per buona condotta. Uno si è impiccato poco prima di tornare in libertà. Uno perché lo stavano estradando. Uno era Rom. Uno napoletano. Uno albanese. Tutti sanno che in questo momento nelle carceri sono rinchiuse 68.000 persone ma che la capienza prevista è di un massimo di 43.000. Ad appesantire il bilancio nero, una cinquantina di casi in cui gli agenti hanno evitato il tragico epilogo. Cosa non si è detto e scritto sulle carceri italiane. Che erano poche, e ne andavano costruite altre. Che erano troppe, e bisognava depenalizzare. Spalancare le porte o buttare la chiave? E ora? Riprenderanno le visite dei parlamentari di ogni colore. Non crede?
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Mi pare che alla notizia del suicidio di un detenuto, uno dei tanti, alcuni giornali abbiano riportato il nobile commento di un deputato della Lega: "uno di meno". Poteva un leghista smentirsi? Naturalmente ci sono state le solite sdegnate reazioni, si è ripetuto insomma quello stanco rituale tutto italiano di accuse e controaccuse destinato a finire come una bolla di sapone. Perché il problema delle carceri in Italia non è stato seriamente affrontato da nessun governo. E certo non può essere risolto in modo definitivo con sfoltimenti momentanei dovuti ad amnistie, indulti, depenalizzazioni che, tra l'altro, hanno troppe controindicazioni. Il fatto certo è che mentre le carceri scoppiano, manca la volontà politica di porvi rimedio. Si ricorda, caro Lodato, che il ministro Alfano, tra un lodo e l'altro, aveva sbandierato tempo addietro un suo piano-carceri? Mi sa dire dov'è andato a finire? E qui c'è da chiedersi il perché di questa non volontà. L'opinione pubblica, ammesso che esista, si dimostra poco interessata al problema. Agli italiani, so di dire una spiacevole verità, importa sempre meno delle difficoltà altrui, la loro sensibilità negli ultimi decenni si è molto appannata. Fatte le dovute eccezioni, naturalmente. Non si sono ribellati alla disumana legge sui respingimenti indiscriminati, alla legge che fa dell'emigrato clandestino un reo, figurati quanto gliene importa se in cella si sta un po' strettini. Da parte loro, i politici si sentono al sicuro: a forza di leggine, norme, regolamenti, non si darà che rarissimamente il caso che uno di loro vada a finire dietro le sbarre. Sono sempre così decisi a far quadrato davanti alle richieste della magistratura, così granitici nella difesa della casta da far invidia al sindacato del tempo di Di Vittorio. Ora mi chiedo: quando una cella che potrebbe contenere al massimo quattro detenuti ne contiene otto, viverci dentro minuto dietro minuto per mesi e mesi e anni e anni, non diventa impresa disumana? Siamo così attenti che gli animali degli zoo abbiano buone condizioni di vita nelle loro gabbie e ce ne freghiamo di quello che avviene nelle carceri? Credo che l'esistenza quotidiana dei detenuti in un carcere sovraffollato somigli molto a un'insopportabile forma di tortura. La quale tortura, se non sbaglio, non è un reato contemplato dal nostro codice. Ed ecco spiegato perché il governo Berlusconi, visto e considerato come vengono trattati i detenuti in Italia, ha dichiarato di non avere nessuna intenzione d'introdurlo. Accà nisciuno è fesso!
"Meglio giacobino". Pertini, Lombardi e il rapimento di Aldo Moro.
“Nessuna trattativa nessuna abdicazione dello stato alla propria dignità”. Così Sandro Pertini si era fatto paladino della “fermezza”, contro la linea “umanitaria” del suo partito, mentre Aldo Moro era segregato nella “prigione del popolo”, e da lì, come poteva, chiedeva che si scendesse a patti per salvargli la vita. Riccardo Lombardi, al tempo sostenitore della segreteria Craxi, reagì dando a Pertini del giacobino. Questi replicò: “Meglio giacobino che girondino, perché i girondini tradirono la rivoluzione vendendola al Bonaparte, mentre i giacobini la difesero, sia pure col Terrore”.
Napoleone critico letterario. L'Iliade come enciclopedia (S.L.L.)
La proposta indecente di Ivan il Terribile a Elisabetta d'Inghilterra
Scettro di sangue. La vita di Ivan il Terribile raccontata da Pietro Citati ("la Repubblica" 6 luglio 2000)
Quando leggiamo la vita di Ivan il Terribile, non abbiamo l' impressione di conoscere la storia di un sovrano come gli altri, che abitava nella realtà e parlava e comandava ad uomini come noi. Tutto, qui, ha il segno dell' irrealtà: quasi che i suoi pensieri, i suoi peccati, i suoi pentimenti, la sua morte fossero stati sognati da un personaggio shakespeariano, come Macbeth o Riccardo III.
Quali oceani, quali profumi avrebbero potuto estinguere il sangue che bagnava le sue mani? Per tutta la vita, Ivan il Terribile fece il male: con una fantasia, un eccesso, una grandiosità, un furore, un terrore e una devozione, che sembrano possibili soltanto in un incubo. Rimase orfano di padre nel 1533, a tre anni: orfano di madre a otto anni; nell' infanzia, conobbe umiliazioni, che pesarono sul suo animo per tutta la vita, e che continuò a rinfacciare ai nemici e agli amici, come se tutta la Russia ne fosse colpevole.
La storia, o la leggenda, ci lasciano il ricordo del suo sadismo infantile. Tormentava gli animali: strappava le penne agli uccelli catturati, cavava loro gli occhi, li sventrava con un coltello, seguendo con un minuzioso piacere tutti i momenti della loro agonia; in piedi sui bastioni della fortezza, prendeva in mano i suoi cagnolini, li faceva roteare sopra la testa, e li gettava nella corte perché si spezzassero le zampe. Amava cacciare: l' orso, il lupo, la volpe bianca. Batteva le foreste con i figli dei boiari, braccando gli animali feroci: oppure, col girifalco in pugno, inseguiva i cigni selvatici.
Cominciò a regnare giovanissimo; e comprese che regnare non è che una lunga tortura imposta al mondo. Non esiste segno più diretto del potere. Mentre egli torturava in terra, Dio lo seguiva con lo sguardo, e guidava il suo braccio dal cielo. Faceva sbranare dai cani gli avversari politici: divorare i monaci ribelli da orsi selvaggi, tenuti in gabbia: stuprava ragazze e donne sposate, e un giorno si vantò di aver fatto scempio di mille vergini: massacrava chi si rifiutava di danzare con lui ad un ballo mascherato: fece arrostire col fuoco i corpi degli abitanti di Novgorod, li fece legare con corde strette alle mani e ai piedi, stringere i figli alle madri e gettarli nel fiume, mentre i suoi uomini in barca trapassavano con le scuri e le lance coloro che risalivano a galla; tagliava a strisce la pelle degli interrogati, li gettava nell' acqua bollente e nell' acqua gelida, impiccava, sgozzava, faceva pezzi, impalava...
Possedeva un sinistro segno del potere: un lungo bastone di legno, che terminava con una punta di acciaio; e con quel bastone in mano, di cui accarezzava amorosamente l' impugnatura, scendeva nei sotterranei, assisteva alle torture, alle urla, ai rantoli, colpiva con la punta chiodata, lasciando che il sangue dei torturati gli imbrattasse la faccia. Quando riformò il suo impero, costituì una guardia del corpo di seimila uomini. Imponeva loro fedeltà, come se la giurassero a Dio, con le stesse parole dei Vangeli: "Chi ama padre e madre più di me, non è degno di me; e chi ama figliolo e figliola più di me, non è degno di me". Le sue guardie scorrazzavano a cavallo indossando una veste nera, armati di coltellacci, mazze e scuri. Sulle selle portavano un segno barbarico: una testa di cane e una scopa, perché i nemici dello zar dovevano sapere che sarebbero stati dilaniati da fauci canine, e il tradimento spazzato via dall' impero.
Malgrado i suoi crimini, o forse a causa di essi, era devoto. Visitava tutti i conventi, che trovava nei suoi itinerari: si inoltrava fino a quelli sul Mar Bianco; e implorava la benedizione di ogni sacerdote avvolto da fama di pietà e di santità. Quando stabilì la reggia in campagna, trasformò il palazzo in monastero, e le guardie, specie le più criminali, in monaci. Alle tre del mattino, si avviava alla Chiesa. Durante l' ufficio, che durava 3 o 4 ore, Ivan cantava, pregava e si prosternava davanti alle icone, battendo il capo sulle lastre del pavimento, così che sulla fronte gli si formò una lieve callosità. Indossava una lunga tonaca nera, stretta in vita da una corda, e un manto di bigello: mentre una croce di legno gli scendeva sul petto. Vegliava severamente sulla moralità pubblica. Condannò alle pene dell' inferno, come se avesse lo stesso potere di Dio, i suonatori di ribeca, di tromba e di tamburello: chi ballava, saltava o batteva le mani durante le riunioni pubbliche: tutti quanti amavano la compagnia di orsi ammaestrati, cani sapienti e uccelli, o giocavano a scacchi e a trictrac; oppure osavano tagliarsi baffi e barba e indossare abiti strani.
La fine fu tremenda, come nemmeno la sua spaventosa immaginazione avrebbe osato sognare. Un giorno del novembre 1581 percosse la moglie incinta del figlio Ivan: le rimproverò di essere vestita in modo indecente; la picchiò così forte da farla abortire. Il figlio protestò con violenza. Allora il padre acciecato dal furore - come poteva ribellarsi contro Dio in terra? -, impugnò il suo lungo bastone ferrato, e lo percosse selvaggiamente sulle spalle e sulla testa, sfondandogli una tempia. Il figlio cadde al suolo. Ivan si gettò sul corpo disteso, coprì di baci il viso, tentò invano di fermare il sangue. Urlava: "Oh me sciagurato, ho ucciso mio figlio, ho ucciso mio figlio!". Quando il figlio riprese conoscenza, baciò la mano del padre mormorando: "Muoio da figlio devoto e da suddito sottomesso...". Quattro giorni dopo morì. Lo zar perse il senno. Non riusciva a dormire. Tre vecchi ciechi gli raccontavano, ogni sera, favole e leggende, per far scendere il sonno sulla sua mente offuscata. Ma egli si alzava, si aggirava nel palazzo parlando da solo, a voce alta; e ogni notte, nella penombra, l' immagine del figlio lo visitava: talvolta sorridente e riccamente vestito, talvolta con la tempia trafitta. Scriveva ai "famosissimi e santissimi monasteri", e supplicava i monaci di "pregare, tutti assieme o separatamente nelle celle, affinché il Signore e la Santissima Vergine gli perdonassero la sua scelleratezza". Cominciò a scrivere gli elenchi di tutti coloro che aveva messo a morte - 3148 in un elenco, 3750 in un altro -, annotando i supplizi: ripercorse così passo passo la sua vita criminale; e faceva recitare preghiere di suffragio per i defunti, sperando di placare la coscienza risvegliata.
Il corpo di Ivan si gonfiò, la pelle si lacerava a brandelli, i testicoli doloravano: emanava un fetore ripugnante. Quando gli annunciarono che una cometa con la coda a croce era apparsa nel cielo di Mosca, indossò una pelliccia e si fece accompagnare nella notte. Contemplò a lungo il cielo, fissò la cometa e mormorò: "Ecco il presagio della mia morte!"
Forse c' era ancora un rimedio alla malattia e alla morte: se non Dio, la scienza degli astri; e fece chiamare a Mosca astrologhi, indovini e sciamani. Ne giunsero una sessantina, che furono rinchiusi in un palazzo. Stabilirono che la morte dello zar sarebbe avvenuta il 18 marzo 1584: Ivan disse che, se la predizione non si fosse avverata, li avrebbe fatti bruciare vivi.
Negli ultimi giorni di esistenza, si faceva trasportare nella sala del Tesoro, dove contemplava gli smeraldi, i diamanti, gli zaffiri, i rubini, i giacinti, che faceva scivolare tra le dita. "Sono tutti doni di Dio, segreti nella loro natura - diceva -; ma Dio li rivela perché l' uomo li usi e li contempli come amici della grazia...". Giocava volentieri a scacchi: provocava il caso che, per tutta la vita, aveva vinto e che l' aveva vinto. Giocò a scacchi anche il 18 marzo, il giorno della morte prevista: credeva di aver ingannato il destino; quando, di colpo, cadde morto con la testa sulla scacchiera, facendo rotolare a terra il re e la regina. Quella lunga storia di delitti e di follie era finita come la storia di qualsiasi uomo. Non restava che un corpo gonfio e putrefatto: un corpo che, qualche giorno dopo, venne consacrato monaco e sepolto col nome di fratello Giona.