Scusi lei è favorevole o contrario? – del 67, credo - è uno dei pochi film in cui Alberto Sordi si cimentò nella regia e, nonostante la collaborazione nella sceneggiatura di Segio Amidei, non è una gran cosa. Pure è significativo di un momento della nostra storia italiana. L’Albertone vi interpreta la parte di un industriale di successo, che con la moglie è di fatto separato e ha una vita sentimental-sessuale allo stesso tempo elementare e complicatissima: elementare perché il suo approccio da maschio ricco gli fa vivere ogni relazione come acquisizione se non come acquisto; complicatissima perché non gli viene facile gestire una pluralità di relazioni, che peraltro tende ad ampliarsi. La storia si conclude con una intervista per strada. All’industriale quelli della tv chiedono se è favorevole o contrario alla introduzione del divorzio nella legislazione; l’omino risponde senza esitazioni “contrario” e aggiunge un pistolotto da bacchettone sullo sfascio della famiglia e sul disordine morale che ne deriverebbe.
Il film si vede poco nelle tv e tuttavia il personaggio è archetipico: di siffatti figuri nell’Italia attuale ancora più ingaglioffita sono pieni i consigli d’amministrazione, le segreterie politiche, le giunte, i governi.
Scusi è favorevole o contrario? non contiene in apparenza un messaggio esplicito sul tema, allora caldo, del divorzio e tuttavia nella decisa condanna dell'ipocrisia ci mostra un Alberto Sordi meno qualunquista di come ce l’immaginiamo e impegnato su un problema che al tempo attirava l’attenzione dell’opinione pubblica, il divorzio appunto, la cui introduzione era sostenuta nella proposta di legge presentata il 1° ottobre 1965 da Loris Fortuna, un deputato socialista friulano.
Non erano mancate, in legislature parlamentari precedenti, prudenti proposte di legge sul divorzio da parte di deputati socialisti ( Sansone nel 54 e Giuliana Nenni nel 58), ma erano state insabbiate. E anche la nuova legge non avrebbe avuto fortuna, se non fosse sorto un movimento popolare di sostegno.
La forza d’urto più significativa fu rappresentata dai nuovi radicali di Pannella, il giovane che aveva rialzato la bandiera di un piccolo partito distrutto da tensioni interne e scandali. Gli strumenti dell’iniziativa furono essenzialmente due: la Lid, la lega per l’istituzione del divorzio, di cui fu presidente Fortuna, ma i cui principali animatori furono Marco Pannella, che ne era segretario, e l’avvocato radicale Mellini; e “ABC”, un rotocalco in bianco e nero non senza ambizioni politiche e culturali e che tuttavia puntava per la conquista dei lettori soprattutto sulle donnine scollacciate.
Il settimanale, nato per iniziativa di Gaetano Baldacci quasi come reazione alla sua cacciata da “Il giorno”, era allora governato da un estroso editore-tipografo, Enzo Sabato, e disponeva di un gruppo di redattori e collaboratori di grande qualità, Luciano Bianciardi, Giancarlo Fusco, Callisto Cosulich, Giuseppe Signori e, tra gli altri, una giovane Renata Pisu, che s’occupava di Cina e di sesso con lo pseudonimo di Cristina Leed.
Era un bel giornale e molti lo compravano nascondendolo dentro il quotidiano. Molti altri maschi lo leggevano per la sua quasi obbligata presenza nei saloni da barbiere e nelle caserme militari. Era guardato con sufficienza dai colti, ma faceva opinione e contribuiva a modificare mentalità e costume. Arrivò a tirare 500 mila copie, anche grazie al divorzio.
La Lid si caratterizzava come “organizzazione di massa”, cercando e ottenendo adesioni soprattutto tra i “fuorilegge del matrimonio”, stimati in almeno 500 mila, spesso uniti in nuove coppie obbligatamente irregolari. “ABC”, dal canto suo, ne pubblicava gli appelli, puntando sulle storie di gente comune, smontando la leggenda che il divorzio fosse un problema da “ricchi e famosi”.
Dell'efficacia di questa sinergia si ebbe una riprova già a metà aprile del 1966, quando al Teatro Lirico di Milano, un comizio divorzista raccolse una folla imponente. Manifestazioni a favore della legge Fortuna si svolsero poi in varie città, per confluire a novembre in un raduno romano, a Piazza del Popolo, cui parteciparono decine di migliaia di persone provenienti da tutta Italia. La rabbia di anni o di decenni poteva finalmente trasfondersi in impegno civile e rompeva il clima di diffidenza che circondava le coppie irregolari.
Ero ragazzo, benché già comunista, nel 66, ma a quella battaglia partecipai e ne vidi gli effetti concreti. C’erano al mio paese otto o dieci coppie irregolari conosciute, fino a quel momento oggetto di commenti malevoli. Per quanto fossero brava gente, operai, commercianti, artigiani, non mancavano alle loro spalle epiteti sgradevoli e loro stessi camminavano spesso a testa bassa; per non dire dei figli per i quali il doppio cognome o il cognome materno era uno stigma negativo. Il vedere e sentire, dopo qualche mese di campagna divorzista, un paio di quelle signore difendere a testa alta il loro diritto e parlare apertamente del loro problema dal droghiere, mi diede una gioia grande e profonda.
Il successo dell’iniziativa radicale spingeva intanto a più esplicite prese di posizioni il Pci, il Psi, i partiti laici e del divorzio si occupavano i quotidiani e i grandi settimanali. Anche “L’Espresso”, collegato ai vecchi “radicali” e diffidente sui nuovi, si schierava e metteva a disposizione molte pagine. Perfino al Concilio Vaticano II arrivava il problema dei credenti risposati, seppure proposto da vescovi non italiani. Nel gennaio 1967, per dare voce all'orientamento conservatore, il Papa in persona, che nell’uso del tempo parlava di rado, dovette reagire: dichiarava "sorpresa e dispiacere" nei confronti del Parlamento italiano che aveva ritenuto il divorzio compatibile con la Costituzione.
Nel marzo 1967 anche il Pci presentò una sua proposta di legge, a prima firma Jotti. Qualche mese dopo su "Rinascita" Luciana Castellina, esponente del Pci, avrebbe scritto: "Un merito va riconosciuto alla Lid... di aver dimostrato, con un'efficacia impossibile ai partiti, che il divorzio non è più un problema di pochi gruppi di élite, ma ormai un grosso problema sociale... è in gran parte, gente semplice, appartenente alle più disparate classi sociali; proveniente non soltanto da ristretti ambienti delle grandi città ma anche dalla provincia e dalle campagne. Borghesi ma anche proletari, angosciati da una difficile situazione familiare, spesso conseguenza di processi abbastanza nuovi per l'Italia, come la maggiore mobilità sociale e l'emigrazione individuale".
Nel 68, mentre divampava la contestazione universitaria, si svolsero le elezioni politiche. Il 5 giugno 1968, subito dopo la prova elettorale, 70 parlamentari dei partiti laici - Pci, Psu, Psiup, Pri (con l'eccezione dei liberali schierati a destra, che proponevano un loro progetto firmato da Antonio Baslini) presentarono un disegno di legge unificato, il primo della quinta legislatura repubblicana, a prima firma Loris Fortuna. L’iter della legge ebbe alti e bassi, ma l’ostruzionismo democristiano fu battuto grazie a un compromesso “alto”, gestito da Giovanni Leone, al tempo presidente della Camera: il Parlamento, ove si delineava una risicata maggioranza divorzista, avrebbe quasi contemporaneamente approvato la legge istitutiva del referendum, per consentire una verifica popolare sulle scelte dei deputati e dei senatori. La convinzione della Dc (e delle gerarchie ecclesiastiche) era che il referendum avrebbe cancellato il divorzio e avrebbe sfondato nell’elettorato popolare del Pci, legato ai valori familiari.
L’ultima e definitiva approvazione delle proposta Fortuna avvenne il primo dicembre 1970: la Camera varava la legge n. 898 e introduceva l’istituto del divorzio, chiamando la cosa, un po’ ipocritamente, “Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio”. Era un regalo natalizio per centinaia di migliaia di famiglie e, in fondo, neanche le gerarchie vaticane ne erano particolarmente scontente: nei loro calcoli la legge avrebbe sanato antiche situazioni di disagio e reso meno acuta la tensione, favorendo la vittoria antidivorzista nel referendum.
Così non avvenne. Il referendum si svolse dopo tre anni e mezzo, il 12 maggio 1974, dopo che era stato esperito invano un tentativo di evitarlo con una legge (presentata dall'indipendente di sinistra Tullia Carettoni) che, pur mantenendo l’istituto del divorzio, ne limitava la possibilità a pochi casi. Il Pci, che al tempo contava circa il 30% dei voti e li raccoglieva soprattutto nel mondo operaio e tra i ceti meno abbienti, temeva il referendum e cercava di evitarlo, ma poi ne divenne (insieme al dissenso cattolico) la forza determinante. La sua campagna referendaria, lunga e vasta (un porta a porta di accurate spiegazioni che impegnò centinaia di migliaia di militanti, uomini e donne), diede un contributo fortissimo alla liberazione delle menti popolari da arcaiche paure. Ricordo i comizi di festa, dopo la vittoria del "no" all'abrogazione, di Napoleone Colajanni (ma credo che anche altri oratori comunisti nel Sud facessero suonare le stesse note). A Gela, a Caltanissetta, a Enna si fece dare i risultati del referendum e quelli delle elezioni e fece notare come nei quartieri popolari e operai “rossi”, ove comunisti e socialisti ottenevano il 70 o l’80% dei voti, il “no” raggiungesse le stesse cifre, mentre nei quartieri alti, più agiati e colti, prevaleva sovente il “sì”. Spiegava Napoleone con orgoglio che era stato ancora una volta il popolo e il proletariato ad avere un ruolo di guida nella conquista di “libertà borghesi”. Altro che sfondamento clericale!
A questa bella e antica storia, con cui vorrei celebrare i quarant’anni di una conquista civile, a me piace aggiungere due osservazioni.
La prima di nostalgia. Quant’era bello il Pci! O meglio, quant’era diverso dall’idea attuale di partito come macchina che raccoglie voti non importa come. Quella campagna referendaria fu pensata e concepita come una grande operazione pedagogica in cui i militanti insegnavano e insieme imparavano dal popolo, in una concreta battaglia di libertà.
La seconda sul presente e sulle ricorrenti tentazioni vaticane. Allora i clericali contrapponevano al divorzio le famiglie felici, solidali, amorevoli e le mostravano nei manifesti. Dicevano: “Perché parlate di separati e divorziati e non dei tanti che restano uniti nonostante le difficoltà?”. Le popolane di chiesa però dicevano sottovoce: “Noi non divorzieremo mai, ma per i poveretti che ne hanno bisogno la legge ci vuole”.
E’ un approccio che allora si usò e che i laici e quel che resta della sinistra dovrebbero riprendere oggi sulle coppie di fatto di ogni tipo o anche sulle scelte di fine vita. C’era uno slogan – mi pare dei socialisti – che accompagnò l’introduzione del divorzio quarant’anni fa: “Chi ama il matrimonio non ha paura del divorzio”. Oggi bisognerebbe riprenderlo e adeguarlo: “Chi ama la vita non ha paura della libertà”.