31.8.12

Il bambino che gioca. Una poesia di Franco Fortini

Il bambino smise di giocare
e parlò al vecchio come un amico.
Il vecchio lo udiva raccontare
come una favola la sua vita.

Gli si facevano sicure e chiare
cose che mai aveva capite.
Prima lo prese paura poi calma.
Il bambino seguitava a parlare.

Da Questo muro, Il falso vecchio (1970-1972)
in Una volta per sempre. Poesie 1938-1973, Einaudi, 1986

L'altra metà di Franco Fortini (di Massimo Raffaeli)

Dai “Coni d’ombra” del “manifesto” d’agosto, dedicati a figure e testi del Novecento per varie ragioni trascurati, riprendo un pezzo, assai bello, su Franco Fortini poeta. (S.L.L.)

IRONIA CHE RESISTE, CONTESA CHE DURA
Al di là del recinto degli addetti ai lavori, 
la poesia di Franco Fortini 
è da tempo inaccessibile. 
Ma i suoi versi ci insegnano 
a non cedere alla paura 
di sentirci solamente individui

Nel più celebre epigramma di Giacomo Noventa, teorico negli anni trenta di un suo anti-canone sulle colonne della «Riforma letteraria», Franco Fortini avrebbe rinvenuto più tardi il paradosso spiazzante che poteva celare sia l'origine sia il decorso della propria poesia. Nella sua clausola vibrante, Noventa aveva infatti affiancato per farne due antipodi «Goethe grando» a «Tasso mato», vale a dire da un lato la pienezza magnanima e una calma persino olimpica e dall'altro l'eccesso e la dismisura, la poesia come veggenza malata e virus iniettato dentro la normalità borghese.

Oltre la zona emersa
È noto che, isolata prima che minoritaria, la tesi di Noventa respingeva l'ermetismo quale degenerazione provinciale del decadentismo europeo, gergo di esteti mendaci e filistei, per invocare viceversa un ritorno alla parola integra dei classici. Il dialetto di Noventa, una patina o un filtro utile per tenere a debita distanza Ungaretti e Montale, era appunto la lingua di un rifiuto e il segno di una sua aristocratica alterità. Nato nel '17, formatosi a Firenze e a due passi dalla enclave ermetica del caffè «Giubbe Rosse», il ventenne Franco Lattes, non ancora Fortini, dal maestro Noventa era stato vaccinato una volta per sempre. Quanto alla poesia, egli non avrebbe più cambiato idea a costo d'essere bollato, e a lungo sottovalutato, alla stregua di un classicista anacronistico o di un professore che scandisse i versi con il dito alzato, pure quando sarebbe divenuto per proverbio Fortini e cioè un punto di riferimento per la cultura e più in generale per la sinistra italiana, crocevia di esperienze e nemico giurato del sonno ideologico, il coadiutore di Elio Vittorini in «Politecnico», il saggista e promotore di Lukacs e dei Francofortesi, di Simone Weil e di Lu Xun, il traduttore di Brecht, di Eluard e del Faust goethiano, il fratello avverso di Pier Paolo Pasolini e all'opposto il compagno di via di Raniero Panzieri, presente nei «Quaderni Rossi» come nei «Quaderni Piacentini» e nello stesso «manifesto», insomma il grande intellettuale firmatario di Dieci inverni ('57), di Verifica dei poteri ('65) e della quantità di pagine, breviario di una intelligenza appassionata e micidiale, che a futura memoria si contengono in Saggi ed epigrammi (2003), un volume dei «Meridiani» Mondadori ottimamente curato da Luca Lenzini e prefato da un limpido ritratto a firma di Rossana Rossanda.
Questo è il Fortini tuttora accessibile e iscritto nel senso comune. Ma va subito detto che è soltanto una metà di Fortini o, meglio, è la sua zona emersa e di dominio pubblico. Fortini poeta, al di là del recinto degli addetti ai lavori e dei sodali, è da tempo inaccessibile, in sostanza rimosso dal suo editore storico, Einaudi, nel cui catalogo gli ultimi titoli fortiniani datano a vent'anni fa: l'auto-antologia Versi scelti 1939- 1989 compare fra gli «Struzzi» nel '90, mentre nel febbraio del '94 (appena nove mesi prima della morte del poeta, avvenuta a Milano il 28 novembre) esce nella «bianca» il libro terminale, Composita solvantur, che taluni ritengono il più suo, e pochi mesi dopo nella stessa collana, postume, le Poesie inedite a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, cui va peraltro il merito di averlo già incluso nei Poeti italiani del Novecento ('78), l'ultima fra le grandi antologie secolari.

Inadempienze, incompiutezze
Quella del poeta è una rimozione che fa torto due volte a Fortini in quanto ne cancella i testi ma oscura nel frattempo la sua particolarissima nozione di poesia, da lui valutata non solo come una specifica forma d'arte ma come una vera e propria antropologia. La pienezza goethiana che da giovane gli aveva additato Noventa per lui non corrisponde a una poetica ma a un'urgenza d'ordine etico-politico o, semmai, antropologico. Cos'è la poesia per Fortini, che cosa lo ha indotto a inseguirla nella parte più concava e segreta, più silenziosamente sanguinante, della sua vicenda di intellettuale e uomo pubblico? O in altri termini: cosa ha potuto mai tentarlo, indurlo ai rischi di una lunga e dolorosa incomprensione, esporlo al sospetto di una debolezza e di una ricorrente concessione all'estetismo? È stata, con ogni probabilità, la convinzione che solo la poesia è forma futuri, dunque la figura allegorica (nel senso dantesco, del Dante studiato da Auerbach) che anticipa o letteralmente pre-figura l'esperienza della verità.
Qualcuno direbbe, più semplicemente, è il comunismo, come se, per un privilegio che è di pochi o di ancora troppo pochi, alcuni avessero la facoltà di dare forma a quanto nella vita quotidiana non ha forma, come se i segni della poesia, morti sulla pagina, ritrovassero vita, cioè un senso e un equilibrio, oltre le infinite dispersioni, nello spazio e nel tempo, della vita che ci è data qui e ora. Specchio ustorio del poeta, in quest'ottica, è giusto il lettore, chiamato fin dove è possibile a colmare la distanza che la forma della poesia, ambigua per necessità, stabilisce fra l'autore e se stesso. Dirà in proposito, a conclusione del discorso La poesia ad alta voce (1986): «Ma quante volte, nella pubblica o ad alta voce lettura della poesia, anche della meno grande, abbiamo creduto di sentire che fra il tempo solitario del testo e quello di relazione degli ascoltatori restasse sempre una inadempienza e una incompiutezza. E ascoltando la poesia veniva in mente la parola che alla fine di una sua lirica Brecht dice al suo compagno lettore: 'Non aspettarti nessuna risposta se non da te'; perché la conclusione della parola poetica è anche nel suo trasmigrare dal tempo dei gruppi umani verso quello di noi separati».
Ecco, la parabola della poesia di Fortini, fin dall'esordio di una guerra prolungata nella Resistenza, Foglio di via ('46), è tutta nell'intervallo che divide la condizione dei «separati» (la maggioranza degli esseri umani, lacerati entro e fuori di sé dal dominio di classe) dai «gruppi umani» finalmente redenti: se detto con le parole del marxismo hegeliano, ciò vuol dire che il poeta partecipa di entrambe le condizioni ma vuol dire anche che la poesia corrisponde al privilegio di mutare lo stato di parzialità (l'esistenza espropriata, divisa, accecata) nella forma compiuta della totalità. Concepita in regime di gelo e a distanza dai conflitti («inverno» resta la sua immagine più indiziata), la poesia di Fortini è povera di nomi propri e di aggettivi mentre è ricca di verbi e di comuni sostantivi, rigetta la metafisica novecentesca della Parola, orfica o spiritualista, e privilegia il nesso di metrica e prosodia, perciò di ritmo e sintassi, così come si esonera dall'universo metaforico nel momento in cui si distende per catene metonimiche e/o sovrapposizioni allegoriche.

Alla resa dei conti
Si tratta di un pensiero poetico continuamente sobillato e paradossalmente equilibrato dallo spasmo emotivo o, all'opposto, si tratta di un sentire (un patire nel profondo, fino all'arsura e all'asfissia) dove la concomitanza del pensare significa per il soggetto una tortura di rango ulteriore, quasi una resa dei conti fra parti nemiche di sé, inconciliabili ma inscindibili. Scrive nei versi di Metrica e biografia, atto d'accusa contro qualsiasi presunzione di immediatezza, in Poesia e errore ('59): «(...) una ho portata costante figura,/ storia e natura, mia e non mia, che insiste;// derisa impresa, ironia che resiste, e contesa che dura//».

Mai-più e non-ancora
Distanza, ironia, preventivo smarcamento sia dal volontarismo dell'engagement sia dall'incandescenza o dall'ambiguo calore della vita (qui si legga il nome più remoto, Pier Paolo Pasolini) sono i tratti elettivi, unici nel Novecento italiano, già messi a fuoco dalla critica fortiniana, pochi nomi ma scelti come Alfonso Berardinelli, Remo Pagnanelli, Romano Luperini (La lotta mentale, Editori Riuniti 1986), Luca Lenzini (Il poeta di nome Fortini, Manni 1999) e ovviamente Mengaldo, che una volta ha ravvisato nel corpus della sua poesia «un senso radicalmente tragico della storia, di cui i testi restituiscono la radiografia spettrale». Spettri, cioè figure ancipiti, emblemi di un mai-più che invoca un non-ancora e viceversa, come il marinaio e la ragazza che si baciano sulle rive della Nievà o la colomba che con un frullo d'ali fa crollare la casa decrepita (spoglio e antiretorico emblema, forse il solo possibile, della rivoluzione, in Una volta per sempre, 1963) o infine le immagini di vegetali, animali e di umani, un'autentica costellazione di trapassati, che abitano i libri della piena maturità, Questo muro (1973) e Paesaggio con serpente (1984). Qui il poeta scrive in totale isolamento e sembra non avere più interlocutori, se non la presenza costante, nel ricordo, di Vittorio Sereni o di Giovanni Raboni che lo ascolta sempre un po' da lontano ma con tenace fedeltà. Fortini sa di doversi inoltrare in un tempo cupo, di dispersione e disorientamento ai limiti dell'afasia, il tempo in cui gli uomini tornano ad essere «separati» e remoti dai «gruppi umani», ridotti a cieche monadi, ad anelli di una catena spezzata. È il tempo che oggi gaiamente noi diciamo globalizzato, quello che equipara l'economia politica a una teologia e il capitalismo all'ultimo orizzonte dell'umanità, un nuovo tempo trionfale che normalizza lo stato di diseguaglianza, che legittima la guerra quale atto di piena umanità ritenendo fatale che il l'uomo sia il lupo dell'uomo. (È l'ultimo e più triste fra i suoi inverni, una parola che a fine millennio torna nei versi e nei titoli di poeti più giovani, diversi tra loro, che a Fortini comunque hanno guardato come a un grande maestro, da Milo De Angelis, Gianni D'Elia, Fabio Pusterla, Remo Pagnanelli, Ferruccio Benzoni a Francesco Scarabicchi, Antonella Anedda, Antonio Prete, Cristina Alziati e Gianfranco Ciabatti, l'autore di Niente di personale - 1988 -, il cui percorso potrebbe dirsi integralmente fortiniano).
Alla nera realtà di un presente che sta divenendo apocalittico e svela la perfezione orrenda del neocapitalismo, Fortini, ormai in punto di morte, dedica Composita solvantur, il cui ultimo verso, suggello che non sarebbe dispiaciuto a Giacomo Noventa, ha la chiarezza di un testamento: «Proteggete le nostre verità».

Un legame nel vuoto
Vent'anni prima, proponendo ai lettori una selezione dei suoi testi (il bellissimo Oscar Mondadori intitolato Poesie scelte 1938-1973, a cura di Mengaldo, che fu un libro essenziale della nostra giovinezza) aveva scelto per la copertina un dipinto dell'americano James Mc Garrell, Two-step: sullo sfondo c'è una prateria vuota, un cielo ingombro di nuvolaglia, mentre in primo piano, a sinistra, una coppia sta per abbracciarsi e a destra un'altra coppia già lo sta facendo. Degli ultimi due sono coperti i volti, la schiena dell'uomo è nuda, non si capisce se si stiano amando o invece scambiando un gesto di conforto ma è sicuro, tuttavia, che nel vuoto assoluto costoro cercano un legame. Non rassegnarsi alla separatezza, non cedere alla paura o all'orgoglio di sentirsi solamente degli individui, questo ci ha sempre insegnato la poesia di Franco Fortini.

“il manifesto” 7.8.2012

L'Italia del "fotti e piangi". Barbieri reietti a Montecitorio (Carlo Bertini)

Tra i privilegi castali di cui in Italia godono gruppi grandi o piccoli, uno tra quelli che suscitano qualche rampogna riguarda i dipendenti del Parlamento, Camera e Senato, il cui trattamento economico e previdenziale, a parità di mansione, è di gran lunga più sostanzioso che in qualunque altro ufficio pubblico o privato. L’anno scorso furono presi di mira anche i barbieri della Camera, il cui servizio, offerto ai parlamentari e agli ex parlamentari, pare sia molto costoso. Ma essi reagirono con amarezza e dignità alle dicerie, denunciando la propria condizione di “reietti” dell’assemblea parlamentare. Della cosa dà conto, in questo servizio per la rubrica “Camere con vista” de “La Stampa”, Carlo Bertini. Le informazioni, ovviamente, meritano aggiornamenti, ma il clima rende perfettamente l’idea di come reagisca l’Italia dei privilegi, dal barbiere al parlamentare, dal farmacista al manager pubblico e privato, alla richiesta di contribuire con qualche sacrificio in un momento difficile: c’è sempre qualcuno che sta meglio di loro, anzi molto meglio. Insomma non si limitano a difendersi, ma lamentano miserie e difficoltà. “Fotti e piangi” dicono dalle mie parti. (S.L.L.)
   
Brutta aria in barberia, facce lunghe e visi scuri. C'è voglia di rivalsa tra i barbieri della Camera, pur invidiati dai colleghi: stipendio sicuro, clientela vip, week-end liberi. Ma mentre rischiano di esser reimpiegati come commessi se la barberia verrà data in appalto esterno per risparmiare, oggi devono pure mandar giù odiose maldicenze, come quella su stipendi da 11 mila euro «che non esistono». Avviliti perché con i loro 2.100 euro netti dicono di essere i meno pagati di tutto il Palazzo, meno degli autisti e dei camerieri della buvette, anche loro inquadrati al primo livello da commessi, ma con una corposa «indennita' di specializzazione» come addetti alla ristorazione. Indennità che i barbieri, ultima ruota del gran carro della Casta, lamentano di non percepire. Anche se hanno vinto un concorso con 450 partecipanti, superando i test delle preselezioni e l'esame di «taglio e manualità» di fronte a una commissione di estetisti giunta da Milano. E oltre alla «professionalità non riconosciuta», c'è chi vorrebbe pure riconosciuta «un'indennità di rischio» a chi opera sempre «in contatto con il sangue». Insomma, categoria di privilegiati fuori dal Palazzo, ma di reietti dentro le mura, perché per risparmiare la barberia il sabato è chiusa e invece i commessi con le notturne e le domeniche di «Montecitorio a porte aperte» arrotondano con gli straordinari. La leggenda degli 11 mila euro, assicurano i barbieri, forse è nata calcolando lo stipendio lordo del più alto in grado, «il responsabile officina», in servizio dall'84. Che, per carità, al netto non supera neanche la cifra di 5 mila euro, sia ben chiaro... Mentre gli altri, dopo 20 anni di servizio, riescono comunque ad andare in pensione con circa 2.500 euro. Ed è proprio la pensione, spiegano, ad attirare le invidie di migliaia di ex barbieri sparsi per la penisola con 600 o 900 euro di previdenza. Ma nulla a che vedere con stipendi e pensioni che prendono qua dentro tutti gli altri, protestano i barbieri. Che, per inciso, non sono propriamente a buon mercato, visto che con la stretta degli ultimi anni, taglio e shampo, concessi anche a giornalisti ed ex parlamentari, ormai costano giustamente 18 euro. Ma il calo delle presenze col tempo rischia di non garantire i costi di servizio.

“La Stampa”, 2 ottobre 2011.  

Rosa Luxenburg. In marcia gioiosa e mai allineata (di Paola Bono)

Coni d’ombra è il titolo della serie di rievocazioni che il “manifesto” di questo agosto ha dedicato a figure del Novecento, soprattutto europeo, dimenticate, oscurate o rimosse. Bellissima, per la sintonia con la figura rievocata, per la capacità di connettere pubblico e privato, per la suggestiva scrittura, quella che Paola Bono ha fatto di Rosa Luxenburg che qui riprendo. Assolutamente da leggere. (S.L.L.)
È un grigio giorno di marzo in Svizzera, a fine Ottocento, sulle rive di un lago che «splende con la superficie liscia color acciaio» - aria dolce e fresca, fiori gialli e ronzio di api, odore di erba e di miele. Una giovane donna scrive al suo innamorato, che dovrebbe raggiungerla e invece rimanda e rimanda, mentre lei a ogni treno va alla stazione sperando nel suo arrivo. «Mi trovo tanto sola qui. Non abbiamo passato in questo posto nemmeno tre settimane insieme. Andremo ancora in barca? E faremo una lunga gita in montagna? Sbrigati, cuore mio, vieni al più presto», lo prega; poi d'improvviso conclude la lettera con una ben diversa richiesta: «Non scordarti di portare il materiale sul cartismo».

Una voglia ostinata di felicità
Attraverso vicende tumultuose che segnano la storia del Novecento e un'esistenza che brevemente ma pienamente ne partecipa, nell'esperienza di Rosa Luxemburg convivono e si intrecciano sempre la cura del legame interpersonale e la centralità di un impegno politico fatto di studio e azione; così, in quel giorno di marzo attende con ansia Leo Jogiches, amante e compagno di lotta, ma anche «il materiale sul cartismo» utile alla conoscenza di questo movimento e delle sue battaglie nell'Inghilterra di primo Ottocento. E gode, come sempre sarà, della natura - attenta a coglierne suoni e odori per parteciparne appieno in un dialogo che saprà rasserenarla anche in prigionia: «Le cinciallegre mi assistono fedelmente davanti alla finestra, conoscono bene la mia voce e sembra che gli vada a genio se io canto», scriverà nel gennaio 1917 a Luise Kautsky, cui la lega un affetto non toccato dai dissensi col marito di lei.
Il desiderio di una semplice, quasi animale felicità la accompagna consapevolmente: «ho una voglia maledetta di essere felice e sono pronta giorno dopo giorno a combattere per la mia 'dose di felicità' con l'ostinazione d'un mulo» - scrive a Leo da Berlino nel 1898 - e questo desiderio non è per lei distinto né tantomeno opposto alla dedizione alla causa socialista. Tipico «rivoluzionario di professione» di grandi capacità organizzative, Jogiches era, per dirla con Hannah Arendt, «uomo d'azione e di passioni, e sapeva come agire e come soffrire» - vide il suo irruente comportamento nel deteriorarsi del rapporto con Rosa, fino a minacciarla di morte quando lei iniziò una relazione con il figlio di Clara Zetkin, Kosta. Ma forse non sapeva «come si ama», avrebbe osservato Rosa a dieci anni dalla tempestosa rottura, che non compromise però la stima e l'affetto radicati nella vicinanza di intenti. A Natale 1916 gli aveva mandato in dono una tavola di Turner che lui aveva rifiutato, ritenendo un «vandalismo» smembrare l'album cui essa apparteneva. «Autentico Leo, nevvero?» - commenta lei nella lettera a Luise già citata - e insiste che «se alla prima occasione mi vien voglia di calare a terra un paio di stelle per regalarle a qualcuno come gemelli da polso, nessun freddo pedante deve impedirmi col dito levato di portar lo scompiglio in tutti gli atlanti scolastici di astronomia».

Contro i toni piagnucolosi
Dopo la fase iniziale del rapporto con Jogiches, l'intensa attività politica - per Rosa in particolare intervallata da periodi in carcere - li aveva portati a vivere lontani, e nelle lettere lei ripetutamente chiede una parola gentile, una maggiore attenzione all'intimità e alla vita quotidiana degli affetti, che non cancellino ma rendano anzi più forte la comune tensione verso un mondo senza ingiustizie. Per lei era fondamentale «rimanere umani», saper «gettare con gioia la propria vita sulla grande bilancia del destino, quando è necessario farlo, ma nel contempo gioire di ogni giorno di sole e di ogni bella nuvola», come scrive dalla prigione a Mathilde Wurm nel dicembre 1916, dopo aver inveito contro il «tono piagnucoloso» e «le povere anime da quattro soldi» della dirigenza del partito socialdemocratico tedesco (Spd), e essersi ripromessa - a fronte di tale viltà, che già aveva coinvolto il partito nell'appoggio alla guerra - di restare «dura come l'acciaio affilato» e, appena tornata libera, cacciare quella «compagnia di ranocchi con suono di trombe e schiocchi di frusta».
Tenera e severa, sempre fedele ai doveri della militanza rivoluzionaria e sempre affascinata dalla bellezza del mondo; pronta a precipitarsi «con tutte le mie dieci dita sulla tastiera mondiale, in modo che rimbombi», ma anche a far tesoro della solitudine forzata in prigionia rallegrandosi comunque «se le cose vanno bene anche senza di me», e accontentandosi di contemplare nuvole «sempre nuove e sempre più belle» - come scrive a Luise nell'aprile del 1917, mentre «agiscono e decidono le grandi invisibili, plutoniche forze del profondo» e lei è invece «per costrizione esterna (...) 'in permesso' per la storia mondiale».
Capace di mille sfaccettature e però coerente nell'apertura al cambiamento, Rosa voleva tutto. Poesia e lotta, amore e comunanza intellettuale, dolci sere profumate di fiori e infuocate riunioni politiche, una famiglia, dei bambini e la rivoluzione. Chiudersi ai piaceri della vita - l'arte, il sesso, la natura - per darsi senza esclusioni a un ideale, chiudersi infine alla propria interiorità - non è così che si costruisce il socialismo, se esso significa soprattutto, come era per lei, trasformazione profonda del modo di essere, insieme e oltre ai cambiamenti nell'organizzazione sociale e nelle strutture economiche.
Lamentando in una lettera a Robert Seidel la legnosità retorica della stampa della Spd, ne individuava la ragione nel fatto che «la gente dimentica quasi sempre, nello scrivere, di attingere alle più intime risorse interiori per misurare fino in fondo l'importanza e la verità» di quello che va sostenendo, e ripropone meccanicamente gli argomenti a favore della causa invece di «riviverla ogni volta, ogni giorno, ad ogni articolo (...) per trovare parole più fresche e più spontaneamente capaci di esprimerla». Quanto a lei, è decisa a cercare forme espressive fuori dalle regole, per poter «agire sulle persone come un tuono. Non per l'oratoria, ma per la ricchezza delle analisi, la sincerità delle convinzioni, la potenza dell'espressione», scrive a Jogiches nel 1899, mentre scopre e mette alla prova le sue capacità in un giro elettorale tra i minatori polacchi dell'Alta Slesia.
Donna, polacca, ebrea, con una fatale tendenza a «non marciare mai allineata» (e dunque anche a rifiutare identificazioni restrittive di nazionalità, sesso o cultura) - Hannah Arendt la definisce «una outsider (...) in un paese che non amava e in un partito che cominciò presto a disprezzare». A fronte di questo triplice svantaggio è la sua capacità di «agire sulle persone come un tuono» - in comizi e riunioni, attraverso gli scritti, nel lavoro alla scuola di partito - a farla accettare dalla dirigenza della Spd, cui non lesina critiche per l'atteggiamento attendista anche quando l'azione spontanea delle masse, vera levatrice della rivoluzione, chiederebbe ben diverso coraggio, e a cui soprattutto non perdonerà l'assenso alla guerra. Nel cuore della polemica che la oppone a Kautsky, Bebel scrive a Victor Adler di non voler rinunciare a lei, perché alla scuola è considerata da tutti «radicali, revisionisti e sindacalisti (...) come la miglior insegnante».
La accettano, dunque, ma come a malincuore, e senza mai davvero riconoscerle la statura di pensatrice teorica che giustamente rivendicava; aldilà di possibili critiche, è innegabile ad esempio che in L'accumulazione del capitale (1913), sottolineando per prima la centralità del problema della domanda, abbia posto con forza la questione dell'impulso del capitale a quella che oggi chiamiamo globalizzazione - con il riprodursi ovunque dei meccanismi produttivi e di consumo e con la preponderanza del capitale finanziario nella politica internazionale. Forse anche per questo, per non essere relegata a occuparsi della «questione femminile» lasciando agli uomini il campo della teoria marxista, non volle mai assumere un ruolo di primo piano nel movimento delle donne, pur apprezzando attivamente il lavoro in questo ambito dell'amica Clara Zetkin.
Sebbene avessero divergenze profonde, è Lenin che coglie e sottolinea la sua levatura, auspicando dopo la sua morte la pubblicazione completa dei suoi scritti perché servano «da utili manuali nella formazione delle future generazioni di comunisti di tutto il mondo». Giacché «un'aquila può a volte volare più basso di un pollo, ma un pollo non potrà raggiungere le altezze di un'aquila. Rosa Luxemburg (...) malgrado i suoi errori (...) era ed è un'aquila».

Arresti e clandestinità
Rosa aveva seguito con gioia e ansia gli avvenimenti della prima rivoluzione russa, e alla fine del 1905 era tornata clandestinamente nella natìa Polonia, clandestinamente lasciata dopo aver appena finito le scuole superiori perché già sotto controllo della polizia zarista, ma nelle cui vicende politiche era rimasta attiva, fondando con Jogiches il partito socialdemocratico della Polonia e della Lituania, in opposizione al partito socialista polacco di cui non condivideva le posizioni a favore dell'indipendenza nazionale. Ora anche lì si susseguivano scioperi spontanei, e malgrado i rischi lei voleva fare attivamente la sua parte. Verrà arrestata nel 1906, e in quell'anno scrive Lo sciopero generale, il partito e i sindacati, dura condanna del conservatorismo della burocrazia sindacale ed esaltazione dell'azione delle masse a preferenza dell'idea leninista di un partito rigidamente strutturato - in parte una ripresa di concetti precedentemente espressi in Questioni di organizzazione della socialdemocrazia russa (1904), in cui attaccava il «super-centralismo voluto da Lenin (IN QUANTO) dettato non da un'intuizione positiva e creativa, ma da uno sterile spirito da guardiano notturno. La sua prima cura è di controllare l'attività di Partito, e non di fecondarla; di restringere il movimento, piuttosto che di allargarlo; di soffocarlo, e non di educarlo».

Gli sbagli di Lenin
Di nuovo in carcere, nel 1918 Luxemburg dedica alla nuova rivoluzione russa, di cui pure è appassionata sostenitrice, un'analisi che ne mette in luce anche aspetti negativi; soprattutto non può accettare le scelte di ferrea e repressiva organizzazione adottate dai bolscevichi. «La libertà riservata soltanto ai seguaci del governo, ai membri di un partito - siano pure essi numerosi quanto si voglia - non è la libertà. La libertà è sempre la libertà di colui che pensa diversamente» dichiara senza infingimenti, affermando più oltre che: «La pratica del socialismo esige tutta una trasformazione intellettuale delle masse degradate da secoli di dominazione borghese. Nessuno lo sa meglio (DI) Lenin. Soltanto, egli si sbaglia completamente sui mezzi: decreti, potere dittatoriale degli ispettori di fabbrica, penalità draconiane, regno del terrore sono altrettanti palliativi. La sola strada che conduca alla rinascita è la scuola stessa della vita pubblica, la più larga e illimitata democrazia, l'opinione pubblica». Senza libertà «la vita muore in tutte le istituzioni pubbliche, essa diviene una vita apparente, in cui la burocrazia è l'unico elemento che resta attivo. (...) alcune dozzine di capi-partito, di una energia inesauribile e di un idealismo senza limiti, dirigono e governano; (...) un governo di consorteria, una dittatura, è vero, ma non la dittatura del proletariato: la dittatura di un pugno di politicanti, cioè una dittatura nel senso borghese».
Ma anche nella più aspra critica, rimane l'ammirazione per la rivoluzione e per i bolscevichi che si sono messi alla sua guida, e che certo non possono «pretendere di fare dei miracoli perché una rivoluzione proletaria esemplare e impeccabile in un paese isolato, esaurito dalla guerra, strangolato dall'imperialismo, tradito dal proletariato internazionale, sarebbe un miracolo».
Luxemburg sottolinea sempre che gli errori che denuncia - gravi e se non corretti forieri di peggiori sviluppi - sono in gran parte dovuti alle circostanze storiche, soprattutto alla colpevole ignavia della «socialdemocrazia di questo occidente altrimenti sviluppato (CHE) è composta di miserabili vigliacchi e lascerà dissanguare i russi, stando tranquillamente a guardare», come già scriveva nel novembre 1917 a Luise Kautsky.
In quella stessa lettera, malgrado avesse da poco dovuto affrontare anche il dolore della morte di Hans Diefenbach, forse il suo ultimo amore, Rosa insiste ancora una volta sulla necessità di saper godere e apprendere: «adesso abbiamo - almeno qui - così splendide miti giornate primaverili, le serate con la luna d'argento sono così belle. (...) Io sono immersa fin sopra le orecchie nella geologia (E) presa da paura se penso quanto poco ho ancora da vivere e quanto ci sarebbe ancora da imparare». Davvero le sue lettere «nel pieno della tormenta, nel pieno del massacro di tutta una giovane generazione (...) respirano la gioia di vivere», come scriveva Simone Weil recensendone una pubblicazione in Francia, e «manifestano un'aspirazione alla vita e non alla morte, all'azione efficace e non al sacrificio».

Il canto delle cinciallegre
Luxemburg aveva in verità poco ancora da vivere - sarà assassinata nel gennaio 1919, morendo come aveva desiderato «sulla breccia», anche se nel suo intimo si sentiva vicina piuttosto alle amate cinciallegre, tanto da volere sulla sua tomba niente più che «due sillabe: 'Zvi-zvi' (...) il richiamo della cinciallegra, che io imito così bene da farne accorrere un'enorme quantità, ogni volta che faccio il loro verso. (...) in questo zvi-zvi (...) c'è da qualche giorno (...) il primo leggero trasalimento della primavera imminente; nonostante la neve, il gelo e la solitudine, noi - le cinciallegre e io - crediamo nell'arrivo della primavera!», aveva scritto nel febbraio del 1917 a Mathilde Jacob.
È quella che Weil chiama «la concezione stoica della vita» di Rosa Luxemburg, capace di «essere a casa propria nell'universo, qualunque evento vi si possa produrre» - una «gioia e amore per la vita (FONDATE) nel suo spirito e nella sua forza morale. Per questo ancora oggi possiamo seguire il suo esempio».

il manifesto 11 agosto 2012

30.8.12

In treno (di Achille Giovanni Cagna)

La stazione di Vercelli nell'Ottocento
Il commesso viaggiatore ad un sobbalzo del vagone li svegliò; apri gli occhi assonnati, si sbottonò il panciotto, ponzando la turgida imbottitura del ventre sotto la camicia levigata, e si rimise a soffiare e dormire.
Il vecchietto dall'altro lato si tamburellava le ginocchia con le dita per far correre più presto il convoglio, e guardando in faccia a Gaudenzio per un po', gli chiese:
— C'è colera da queste parti?
De queste parti, so no, — rispose Gaudenzio, - ma nel mio territorio non c'è niente.
— Di qual paese, se è lecito?
— Sanazzaro Lomellina.
— Oh! paese di risaja? Ci saranno molte febbri malariche?
— Niente febbri.
— La risaja infetta le acque.
Sì, quel l’è vera, - rispose Gaudenzio sorridendo, - ma noi bevem el vino.
Il treno sostò a Borgomanero.

Da Alpinisti ciabattoni, Einaudi 1972 (Prima edizione 1888)

Taccheggio. Il trapano, la cintura ed altri oggetti.

L’articolo da “La Stampa” (e senza indicazione di autore), di cui riprendo una parte, fa il punto sui piccoli furti in negozi e supermercati, risale all’ottobre del 2010 e non so se i dati verranno confermati nella ricerca aggiornata che è attesa per ottobre. Mi paiono, tuttavia, curiosi e interessanti. (S.L.L.)
Il trapano elettrico come oggetto del desiderio globale: così bello che ti vien voglia di rubarlo, e infatti lo fai. Ovvero: bricoleur, sì, ma a costo zero. E' uno dei dati più sorprendenti emersi dalla ricerca presentata ieri a Milano dal Barometro Mondiale dei Furti nel Retail: su 42 Paesi presi in esame, in cima alla classifiche delle cose più rubate nei negozi del mondo risultano attrezzi e minuterie per il fai-da-te casalingo, con una speciale predilezione per il rumoroso e ingombrante aggeggio.
Seguono, nell'ordine, articoli di pelletteria, prodotti cosmetici (le creme per il viso, in particolare) e profumi, tagli di carne fresca, giochi per la consolle, lamette da barba (le numero uno nei taccheggi da supermercato, tanto che si piazzano vicino alle casse per esercitare un maggior controllo). E poi cartucce per le stampanti, orologi di marca e bottiglie di champagne o di spumante di alta gamma. Ma in Italia? I trapani elettrici scendono al settimo posto, le borse e cinture sono in cima, compaiono in posizioni assai rilevanti lettori Mp3 e Mp4, cartucce per stampanti, pile e batterie ricaricabili. Per quanto riguarda i generi alimentari, in linea con le abitudini nazionali, ecco vino, salumi e parmigiano.
India, Brasile e Marocco sono i Paesi con la più alta percentuale di differenze inventariali, cioè dov'è più alto il divario fra le entrate che si sarebbero dovute realizzare sulla base dell'inventario e degli acquisti e l'ammontare effettivamente ottenuto. Taiwan, Hong Kong e l'Austria sono i Paesi più virtuosi. Noi siamo al 28esimo posto, meglio di Spagna, Francia e Regno Unito ma peggio di Germania, Cina e Giappone. In totale 87,506 miliardi di euro globalmente, 3,205 miliardi per l'Italia. Verrebbe la tentazione di tracciare l'identikit sociologico del nuovo consumatore (a sbafo): un furbastro forse cleptomane ma sicuramente ipertecnologizzato che fa a meno dei libri (pare che oramai ben pochi, in proporzione, se li filino nei grandi store multimediali), pasteggia a champagne e la cintura la pretende firmatissima. Ma la crisi, allora? Attenzione, però. Il dato non fa differenza fra chi ruba per sé e chi lo fa per lavoro, cioè per alimentare il mercato nero; né fra chi, tra i battitori solitari, ruba un etto di prosciutto perché muore di fame oppure un iPod come prova di coraggio da fornire ai compagni di scuola. Dunque, a fronte di un certo numero di indigenti e pensionati alla quarta settimana (altrimenti come si giustificherebbero quegli adesivi per dentiere alla nona posizione italiana?), ecco spiegate tutte quelle borse e tutto quel materiale elettronico sparito dagli scaffali. Alla Checkpoint Systems, l'azienda leader mondiale per la gestione delle «differenze inventariali» e la prevenzione dei furti in negozio, spiegano che è materia di ricettazione perfino il parmigiano reggiano, perché è poco ingombrante, ben riciclabile e, pur essendo un formaggio, non troppo deperibile…

"La Stampa", 20 ottobre 2010

L'origine della "crépe suzette" (Gian Luigi Beccaria)

Non si sa bene  chi sia quella Suzette che ha dato il nome alle famose crépes, se un'attrice della Comèdie francaise che se le faceva portare in scena, o una bella donna invitata a cena dal principe di Galles, il futuro Edoardo VII, per la quale il maitre Henri Charpentier all'Hotel de Paris di Monte Carlo nel 1895 volle prepararle.

Misticanze, Garzanti, 2009

Franco Carlini: "Un tempo il computer era un grande imitatore". (Poi arrivò il foglio elettronico)

Nell’agosto del 1991 “il manifesto” dedicò le sue pagine speciali per l’estate alle invenzioni che avevano cambiato la vita nel Novecento. Il titolo della serie era Un secolo in pezzi. L’ultimo degli articoli fu dedicato al “foglio Elettronico”, da Visicalc ad Excel, ed alla sua ideazione e prima realizzazione da parte di Dan Brik e Bob Frankston. Fu scritto da un grande studioso della materia, collaboratorfe storico del quotidiano comunista, il mai abbastanza compianto Franco Carlini da Genova. Quello che segue è l’incipit dell’articolo, che descrive l’impasse nell’utilizzazione del computer, prima della grande idea, di Brik appunto, di “unire l’immediatezza di un elaboratore di testi con le operazioni numeriche”. L’articolo – come tutti quelli della serie – entrò in un volume della “manifesto libri”. (S.L.L.)
Grande imitatore, il computer: nel senso che quasi tutti i suoi programmi applicativi, che lanciamo dalla tastiera e che vediamo sul video, sono repliche elettroniche di oggetti della vita quotidiana: un database emula le schede, i cassetti e gli armadi di un archivio cartaceo: un word processor simula la scrittura a mano o con macchina da scrivere: un sistema di prenotazioni aeree sostituisce un banale registro dove si segnano dei nomi di fianco a ogni sedile di ogni volo.
Anche i nuovissimi «ipertesti», altro non sono che la versione informatica di un'enciclopedia con rimandi da una voce all'altra: la consultazione è più rapida, ma il concetto è lo stesso. E persino il mondo delle «realtà virtuali» (ma sarebbe meglio chiamarle «artificiali») è popolato di repliche di cose fisiche ben note: magari un simulacro della propria mano, o del proprio corpo: nonché panorami, scenari, oggetti da afferrare e muovere. Non per caso, la prima fase dell'informatica è stata chiamata e tuttora la chiamano “meccanizzazione”. Il termine vuole richiamare, per analogia, il processo avvenuto con la rivoluzione industriale, quando molto del lavoro umano venne sostituito da macchine.
Verrebbe quasi da dire che la stretta finalizzazione dei computer alla pratica ne ha finora largamente inibito le possibilità inventive. Specialmente nell'automazione dei lavori di ufficio, dove l'enorme flessibilità degli elaboratori, macchine general purpouse per definizione, viene usata, quasi sempre, per riprodurre fin nei minimi dettagli l'organizzazione del lavoro esistente. Anziché utilizzare le nuove possibilità per cambiare le procedure del lavoro, le si piega invece ai vecchi lavori e alle vecchie divisioni dei lavori. Così le pratiche di un ufficio continuano a viaggiare da una scrivania a un'altra, come sempre: l'unica differenza è che non ci sono le vaschette della posta in uscita e della posta in arrivo, ma due cassetti software che svolgono le stesse funzioni sullo schermo-scrivania.
Insomma, sono davvero pochi gli oggetti e le attività del mondo informatico che offrano qualcosa che prima era radicalmente impossibile. Per lo più velocizzano l'esistente - che non è comunque disprezzabile - oppure si fanno carico di compiti ripetitivi che l'uomo si annoia a fare e che non è adatto a fare.
Simulazioni molte, novità poche, dunque, se non fosse per Dan Brik e Bob Frankston.
Siamo nel 1979 a Harvard: Dan la mattina segue i corsi della rinomata business school, mentre Bob dorme tranquillamente. Si vedono al pomeriggio, riordinano le idee del loro progetto e poi si mettono a un terminale, collegato a pagamento a un computer lontano. Bob andrà avanti tutta la notte, non solo per quell'abitudine inveterata al lavoro notturno tipica dei programmatori, ma anche perché dopo le 11 di sera le ore-macchina hanno un costo inferiore e c'è meno carico: così il sistema di time-sharing, dovendo suddividersi tra un minor numero di terminali, garantisce risposte più rapide.
Il progetto al quale i due lavorano è un'idea che alcuni professori di Dan avevano giudicato balzana e altri «interessantissima». L'ispirazione gli era venuta agli inizi degli anni Settanta…

"il manifesto", 31 agosto 1991

29.8.12

L'origine del carpaccio (Gian Luigi Beccaria)

...sicura, e datata (1963), l'origine del carpaccio, un nome DOC, che Giuseppe Cipriani, proprietario dell'Harry's bar, riferì al piatto di carne cruda affettata sottile pensando alla sfumatura di rosso preferita dal pittore veneziano Vittore Carpaccio di cui in quell'anno, a Venezia, si teneva una mostra.

28.8.12

Il lamento (in versi) di Ali Babà: la povertà dei dotti

La storia di Ali Babà, nella versione più ampia e completa scoperta nel 1908 da Macdonald, inizia con il lamento in versi del protagonista che impreca contro la condizione di povertà. (S.L.L.)
Ali Babà sposò una ragazza indigente senza una dirham né un dinar, né casa né poderi. In breve lasso di tempo perdette quanto aveva ereditato dal padre e per conseguenza sopraggiunsero le strettezze domestiche con le loro angosce, e la povertà col suo squallore e le sue preoccupazioni.
Non seppe che fare e si trovò impotente a procacciarsi il vitto e il sostentamento.
Egli era istruito, intelligente, versato nel diritto, studioso e si mise a declamare questi versi :

Mi dicono: tu sei fra gli uomini,
Per il tuo sapere, come la notte di plenilunio.
Ed io rispondo:
lasciatemi stare con le vostre chiacchiere,
Non giova la scienza senza la possanza
Che se volessero impegnare me
e la mia scienza insieme
E tutti i libri e il calamaio
Per il sostentamento d'un sol giorno,
sarebbero rifiutati i pegni.
                                          
Il povero, la condizione del povero,
La vita del povero, come sono penosi!
D'estate egli è incapace a procurarsi il nutrimento
E d'inverno si scalda a un braciere!
I cani della strada gli si avventano contro
E ogni vile lo respinge;
Se espone il suo stato a qualcuno,
Non vi è sulla faccia della terra chi lo scusi.
Se questa è dunque la vita del povero,
Quanto meglio sarebbe per lui trovarsi nel sepolcro!

Alì Babà e i quaranta ladroni, Sansoni, 1953
Traduzione e cura di Ester Panetta

Sulla storia di Ali Babà

Molti pensano che Ali Babà e i quaranta ladroni sia una delle fiabe delle Mille e una notte. La cosa è insieme vera e non vera. Il racconto, infatti, lo si ritrova in varie edizioni delle Mille e una notte ridotte ad uso dei ragazzi e fa parte della prima edizione europea della grande raccolta narrativa islamica (araba come lingua, ma anche persiana e indiana come origine). Ma quella edizione in francese curata dal Galland, risalente all'inizio del Settecento, è in realtà una limitata selezione (circa 350 notti su 1001) e dei racconti offre una versione rimaneggiata.
Invece nelle edizioni arabe delle Mille e una notte di Ali Babà non c'è traccia, come non c'è traccia di un'altra grande storia, quella di Aladino e della sua portentosa lampada. L'una e l'altra narrazione nel mondo arabo sono certamente inseribili nel clima culturale e ideologico delle Mille e una notte, ma hanno tradizioni autonome dalla raccolta.
Per diverso tempo si era pensato addirittura ad una invenzione (felice) di Galland, poi nel 1888 fu ritrovato il testo arabo di Aladino e nel 1908 l'arabista statunitense Macdonald, reduce da un viaggio in Egitto, Siria e Costantinopoli, scoprì nella Biblioteca Bodleiana di Oxford, il primo manoscritto arabo su Alì Babà.
Il racconto del manoscritto ha molti punti di contatto con la novella riportata dal Galland, che era forse frutto di interpolazioni tra un testo scritto e tradizioni orali, ma c'è anche qualche differenza. Per esempio il ruolo speciale e, per la narrativa araba, eccezionale che assumono nel racconto le donne, in particolare la schiava Margiana, geniale e volitiva.

Origine del "babbà" o "babà" (Gian Luigi Beccaria)



Attraverso il francese ci viene dalla Polonia: è attribuito al re di Polonia (1704-1745) Stanislao Leszczyhksi, che raccontano avesse fatto cadere una bottiglia di rum su un Kugelhupf, il poco saporito dolce locale, e che quell'inatteso bagno alcolico l'avesse entusiasmato, tanto da dedicare il nuovo dolce arricchito di liquore ad Ali Babà, il protagonista delle Mille e una notte, di cui il re era appassionato lettore.Toccò poi agli chef francesi far la fortuna a Napoli del dolce, presso l'aristocrazia cittadina, nelle cui dimore prestavano servizio.

da Misticanze, Garzanti, 2009 

27.8.12

La poesia del lunedì. Gabriel Celaya (1911-1991)

Nei momenti peggiori, non mettetevi a piangere,
perché vi faranno tacere
con l'elemosinuzza di un pezzo di pane.

Nei momenti peggiori, dite che non capite.
E dopo aver ascoltato,
dite, perché è vero, che continuate a non capire.

Se diranno "Carità", voi dite "Giustizia",
perché chiedete ciò che è vostro,
non tranquillità di coscienza per coloro che
dormicchiano

Se vi dicono che il problema sarà studiato,
uscite per la strada gridando
le ragioni che i giusti proclameranno irrazionali.

In Poeti spagnoli per la libertà , Seusi, Roma, 1972
Traduzione di Ignazio Delogu

L'etica di Coetze e Wilson e l'empatia per gli animali (di Claudio Bartocci)

Giaguaro
Le «Tanner Lectures» tenute da J. M. Coetzee presso la Princeton University nel '97-'98 sono raccolte nel volume La vita degli animali appena ripubblicato in edizione economica da Adelphi (traduzione di Franca Cavagnoli e Giacomo Arduini, pp. 155, € 8,00).
Per bocca dell'alter ego Elizabeth Costello (una scrittrice non più giovane invitata dall'Appleton College a tenere due conferenze su un tema a sua scelta), Coetzee pronuncia la più appassionata arringa in difesa dei diritti degli animali. Un'arringa che è un virulento atto di accusa contro un «crimine di proporzioni stupefacenti» commesso dal genere umano: i maltrattamenti che a cuor leggero infliggiamo alle specie diverse dalle nostra.
Non è tanto argomentando sul piano filosofico che Coetzee articola la sua requisitoria, quanto rivolgendo ai lettori/ascoltatori l'accorato appello a risvegliare dentro di sé quella facoltà che «talvolta ci permette di condividere l'essere di un altro»: l'empatia. Nella seconda conferenza, intitolata /poeti e gli animali, Coetzee/Costello commenta due poesie di Ted Hughes, Il giaguaro e Un'altra occhiata al giaguaro. Quando si mette davanti alla gabbia dell’animale, Hughes non ha alcun interesse per i «giaguari in generale, la sottospecie giaguaro, l’idea di giaguaro, ma si lascia possedere dalla «vita di quel singolo giaguaro», dalla «giaguaritudine» racchiusa nel suo corpo.
Nel 1980 le «Tanner Lectures» ebbero come conferenziere Edward O. Wilson, l'eminente zoologo noto per i suoi studi sull'organizzazione sociale degli insetti (in particolare le formiche) e per le sue tesi sociobiologiche (delle quali non intendiamo parlare). Trasgredendo alla seriosità tipica della prosa accademica, Wilson inizia la conferenza (L'umanità osservata da distante) con una stravagante fantasia, la «prolusione del magnifico rettore dell'Università Internazionale delle Termiti». Sulla Terra - immagina Wilson - l'evoluzione ha prodotto una specie intelligente di macrotermiti, pesanti più di 10 chilogrammi, capaci di pensiero astratto, dotate di linguaggio simbolico e, di conseguenza, in grado di basare la propria organizzazione sociale prevalentemente su una complessa cultura. I valori centrali, la vera essenza della «termiticità» comprendono, fra l'altro, la sacralità del sistema psicologico di casta, il rifiuto del male costituito dai diritti dell'individuo, la bellezza del canto f eromonico, il «piacere raffinato di cibarsi dall'ano dei compagni di nido dopo aver mutato pelle». Il testo di questa conferenza è incluso, insieme ad altri non meno istruttivi, nel volume In cerca della natura (Blu Edizioni, pp. 174, € 14,00), in cui Wilson tenta di dimostrare l'inconsistenza di ogni visione antropocentrica nell'affrontare la questione dei rapporti della specie umana con le altre specie animali e vegetali. Piuttosto, è il nostro cervello ad essersi evoluto, nel corso di qualche milione di anni, in un mondo biocentrico. Da questo punto di vista, in singolare consonanza con le posizioni di Coetzee, Wilson pone a fondamento dell'etica ambientale il concetto di «biofilia», intesa come «affiliazione emotiva innata di un essere umano a un altro organismo vivente».

“alias”, 22 novembre 2003

Torino. Il vicesindaco Dealessandri e i rischi di lor signori.(S.L.L.)

Tom Dealessandri
La notizia è vecchia – l’ho presa da “La Stampa” del 20 ottobre 2011 – e non è purtroppo originale. Al Comune di Torino – alla guida delle società di servizi del Comune, a quanto pare ci sono dei manager strapagati. Ancora più strapagati di quanto si potrebbe, visto che nelle aziende municipalizzate controllate al 100% dal Comune la legge impone di non superare il 60% degli emolumenti del Sindaco. Il vicesindaco Tom Dealessandri, delegato a codeste nomine, avrebbe scavalcato la norma con vari escamotage, ma soprattutto aggiungendo allo stipendio da manager una consulenza. In questo modo Barbieri, amministratore delegato di Gtt sommerebbe ai 60 mila annui di emolumento, una consulenza di 160 mila euro e l’indennità di risultato, pari a 30 mila euro.
Un esponente locale dell’opposizione Pdl, tal Marrone, nell’ottobre scorso, oltre a denunciare politicamente la faccenda, ha fatto ricorso alla Corte dei Conti, giacché ci sarebbero precedenti che dimostrerebbero l’illegittimità dell’atto amministrativo (oltre che la sua assoluta inopportunità). Non so come sia andata a finire: una ricerca nella rete – in verità non molto accurata – non ha dato buoni frutti. Per me lo sconcio non sta nell’eventuale illegittimità, sta nel fatto in sé e nelle vergognose giustificazioni che sul giornale sono riportate. Come quella di un certo Magnabosco, amministratore delegato dell’Amiat (in totale 246 mila euro annui), che tracotante afferma: «L’Amiat con la mia nomina da dirigente alla fine ha pure risparmiato». Ancora peggio il vicesindaco, Dealessandri che parla di una decisione «inevitabile», «perché i superdirigenti vanno retribuiti in modo proporzionale ai rischi che corrono sedendo su quella poltrona». Si può scherzare sulle poltrone che scricchiolano, ma non viene proprio. Uno che parla così, uno che peraltro dovrebbe essere almeno un po’ di sinistra, rivela una odiosissima insensibilità di classe. Ha mai pensato costui a quanto guadagnano i tanti operai che fanno lavori pesanti, in ambienti insalubri, in condizioni di insicurezza, che rischiano ogni giorno la salute e la vita? Ma per questi figuri il “rischio” lo corre il “manager”, al punto che bisogna compensarlo con emolumenti 15 volte più alti di un salario normale. Il rischio è solo di lor signori. Per i poveracci la disoccupazione, l’indigenza, la malattia contratta lavorando, l’invalidità o la morte per infortunio sono “la normalità”.      
 

L'autunno della gallina

“E poi verrà l’autunno”, cantava un tempo Cocki Mazzetti e aggiungeva “camminerò nel vento”. Verrà anche quest’anno, prima o poi, l’autunno. E arriverà anche il vento. 
Per preparare l’arrivo dell’amorosa stagione, anzi per anticiparla, “posto” qui una delle Ricette d’autunno che stuzzicano l’appetito che Simonetta (Conti) ha pubblicato l’anno scorso su “La Stampa”, nella rubrica “Saper spendere”, inviate da Antonio Dacomo che con Barbara Dacomo e Maura Squillari governa un bistrot torinese (www.bicchierdivino.it/). 
Come oggetto del trattamento gastronomico essi indicano la “gallina bionda di Carmagnola”, razza che i più chiamano “gallina bionda di Villanuova” o anche, più genericamente, “piemontese”. Sono certo che, con un po’ di fatica e di spesa, si trovano in tutta Italia ottime galline ruspanti, possibilmente di razze caratteristiche del territorio. Vale la pena di procurarsene una e accompagnarla con i primi funghi della stagione come prescrive la ricetta. "Intensità va con semplicità" (S.L.L.)
Galline bionde piemontesi
Gallina ai funghi
Sciacquare bene una gallina bionda di Carmagnola tagliata a pezzi e asciugare.
Pulire 1 costa di sedano, 1 piccola carota e 1 scalogno, tritare fine.
Pulire e affettare 300 g di finferli o porcini.
In una capace padella mettere 2 cucchiai di olio extravergine, il trito di verdure e rosolare a fiamma dolce per un paio di minuti, alzare la fiamma, unire il pollo e rosolare per fargli prendere colore. Versare mezzo bicchiere di vino bianco, evaporare, cuocere a fuoco lento 30/40 minuti.
Unire i funghi, mescolare e dopo qualche minuto unire 200 g di pomodori pachino e un pizzico di sale.
Lasciar riprendere il bollore, abbassare la fiamma e cuocere 30 minuti coperto, girando ogni tanto; aggiungere brodo vegetale se troppo asciutto.

“La Stampa”, 20 ottobre 2011

Verbi copulativi (salvo omissioni)

Comune di Assago. Lo sport per crescere sani
6. Tradizionalmente fra i verbi copulativi si distinguono:
a) Verbi effettivi (o copulativi propriamente detti). Tutti intransitivi (quindi sempre di forma attiva, cfr. XI. 10), esprimono uno stato (stare, restare, rimanere, ecc.), un'apparenza (parere, sembrare, ecc.), una trasformazione (divenire, diventare, ecc.). Esempi: «questo bambino non sta mai fermo», «mi sembri turbato», «la mia irritazione e la mia insofferenza della povertà diventavano rivolta contro l'ingiustizia» (Moravia). Possono avere valore di verbi copulativi effettivi anche verbi abitualmente adoperati come predicativi quali crescere («E tu crescevi pensosa vergine» Carducci, Per le nozze di mia figlia, 25; si osservi invece il valore predicativo di crescere in quest'altro esempio: «quando nasce una figlia, si pianta un albero perché cresca con lei» Pavese), vivere, nascere, morire («Io nacqui veneziano [...] e morrò per la grazia di Dio italiano» Nievo, Le confessioni d'un italiano, 13) e così via.

b) Verbi appellativi (attivi o passivi e costruiti rispettivamente col complemento predicativo dell'oggetto o del soggetto): chiamare, denominare, appellare, ecc. «Mi chiamano Mimi» (G.Giacosa - L. Mica, La Bohème, in PUCCINI-FERRANDO 1984: 118); «fui chiamato Currado Malaspina» (Dante, Purgatorio, VIII 118)

c) Verbi elettivi (attivi o passivi) eleggere, creare, nominare, ecc. «fu creato commessario delle tre Calabrie con poteri pienissimi» (Settembrini)

d) Verbi estimativi (attivi o passivi): stimare, considerare, credere, ritenere, ecc. «è considerato ubriaco abituale chi è dedito all'uso di bevande alcooliche e in stato frequente di ubriachezza» (Codice Penale, art. 94).

Postilla
Quello sopra riportato è il paragrafo 6 del capitolo XI della dotta e corposa Grammatica italiana di Luca Serianni, pubblicata dalla UTET nel 1988.
Ho il sospetto che ci sia una omissione: verbi come scopare, trombare, chiavare, ecc. non sono anch’essi, forse a maggior ragione, copulativi?