30.9.12

Ernesto Sábato su Jorge Louis Borges

Ernesto Sábato
La “Biblioteca minima”, una bella collana di piccoli libri, fu una sorta di canto del cigno per gli Editori Riuniti, la storica casa editrice del Pci.
Tra i suoi titoli apparve nel 1986 Approssimazioni alla letteratura del nostro tempo. Borges, Sartre, Robbe- Grillet, un trittico di brevi saggi, scritti e pubblicati in rivista da Ernesto Sábato tra Parigi e Buenos Aires negli anni 60, già messi insieme in un volumetto argentino degli anni 70.
Il primo dei saggi, dedicato a Jorge Louis Borges (I due Borges), fa i conti con il mostro sacro della letteratura argentina, maestro d’invenzione e di stile e tuttavia considerato un campione dell’evasione geometrica, della pura astrazione e per ciò stesso del disimpegno dalla nuova generazione di scrittori latino-americani, campioni del cosiddetto “realismo fantastico”, assai più attento alla vita concreta e alla sofferenza delle moltitudini umane. Sábato ipotizza l’esistenza di due Borges, di cui uno (quello metafisico), soffoca l’altro (quello di carne e d’ossa) senza tuttavia riuscire ad ucciderlo. Posto qui l’ultima parte. (S.L.L.)
Jorge Louis Borges
Nel mito del Fedro Platone racconta come l'anima precipiti a terra quando già intrave­deva l'eternità; caduta e condannata alla sua prigione corporea, ha dimenticato il meravi­glioso mondo celeste, ma le è rimasto qualcosa di quella fraternità con gli dei: l'intelligenza. E questo strumento divino le fa comprendere che l'universo contraddittorio in cui vive è un'illu­sione, e che al di là degli uomini che nascono e muoiono, degli imperi che sorgono e crollano, esiste il vero universo incorruttibile, eterno, perfetto.
Il vizioso Socrate, l'uomo che profondamen­te (e forse drammaticamente) sentiva la preca­rietà del suo corpo avvilito e delle sue torbide passioni, sogna quell'universo impeccabile e incita gli uomini a scalarlo con la metafora dell'eternità che i mortali hanno inventato: la geometria.
E anche Borges, il corporale Borges, il senti­mentale Borges, che forse soffre drammatica­mente per le sue precarietà fisiche, un essere che come molti artisti (e molti adolescenti) cer­cò l'ordine nel tumulto, la calma nell'inquie­tudine, la pace nella sventura, per mano di Platone cerca d'accedere all'universo incorrut­tibile. E allora costruisce racconti in cui fanta­smi che dimorano in rombi o biblioteche o la­birinti non vivono né soffrono se non di parole, perché sono estranei al tempo, e il tempo e la morte sono sofferenza. Essi sono appena il sim­bolo di quel marmoreo aldilà.
Sembra senz'al­tro che per Borges l'unica cosa degna d'una grande letteratura sia il regno dello spirito pu­ro, mentre in realtà ciò che è degno di una grande letteratura è lo spirito impuro, cioè l'uomo, l'uomo che vive in questo confuso universo eracliteo, non il fantasma che risiede nel cielo platonico. Dato che caratteristica dell'essere umano non è lo spirito puro, bensì quell'oscura e lacerata regione intermedia dell'anima in cui si svolge ciò che v'è di più grave nell'esistenza: l'amore e l'odio, il mito e la finzione, la speranza e il sogno; niente che sia strettamente spinto, bensì una veemente e turbolenta mescolanza d'idee e di sangue, di volontà cosciente e d'impulsi ciechi. Ambigua e angosciata, l'anima soffre fra la carne e la ra­gione, dominata dalle passioni del corpo mor­tale mentre aspira all'eternità dello spirito, perpetuamente oscillando fra il relativo e l'as­soluto, fra la corruzione e l'immortalità, fra il diabolico e il divino. L'arte e la poesia sorgono da quella confusa regione e a causa di quella stessa confusione.
Perciò non ci serve l'oppio platonico di Bor­ges. E alla fine ci sembra un gioco, una finzio­ne, un'evasione infantile. Se anche quel mon­do fosse il vero mondo, confermato dalla filo­sofia e dalla scienza, il mondo di quaggiù sa­rebbe per noi l'unico vero, l'unico che ci dà sventura, ma anche pienezza: questa realtà di sangue e di fuoco, d'amore e di morte in cui quotidianamente vive la nostra carne è l'unico spirito che possediamo realmente: lo spirito in­carnato.
È il momento in cui Borges scrive (in modo bello e commovente), dopo aver confu­tato il tempo: «And yet, and yet... Negare la successione temporale,  negare l'io, negare l'universo astronomico, sono disperazioni ap­parenti e consolazioni segrete. [...] Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiu­me che mi travolge, ma io sono quel fiume; è una tigre che mi divora, ma io sono quella ti­gre; è un fuoco che mi consuma, ma io sono quel fuoco. Il mondo, disgraziatamente, è rea­le; io, disgraziatamente, sono reale».
In questa confessione finale è il Borges che vogliamo preservare, l'ammirevole poeta che rimarrà. (“L'Herne”, Parigi, 1964)

Berlinguer e la cugina che leggeva romanzi d'amore.

Difficile dire se le ragazze del nostro tempo leggano abbastanza, ho una cugina che passa tutto il giorno a divorare racconti, romanzi, riviste. Molte altre, senza dubbio, leggono - almeno per la quantità - in misura più che sufficiente.
Ad altre, forse la maggioranza, la durezza del lavoro, le cure domestiche, la mancanza di mezzi finanziari impediscono di godere le emozioni della lettura.
Più interessante sarebbe conoscere a fondo che cosa leggono, in generale, le ragazze italiane d'oggi. Si dice che Liala, Peverelli, Mura, Dias siano fra le scrittrici preferite, la «Bibliotechina per signorine», le edizioni Salani fra le pubbicazioni preferite.
Si dice anche, fra di noi - e molti, non lo nascondo, se ne rammaricano - che molte siano le ragazze, anche tra quelle politicamente più evolute, che hanno in "Grand Hotel" la lettura più appassionante. Si esagera, forse, e, in ogni caso, non si considera e non si comprende quanto difficile sia oggi, per una ragazza, avere una scelta felice nel gran mare di mercato librario che è grande nella quantità quanto insufficiente e povero nella qualità e nella varietà.
A meno che non si pretenda - e noi non pretendiamo di certo, perché sappiamo comprendere le ragazze e perché giovani siamo anche noi - che le ragazze leggano solo di filosofia o di catechismo.
Non è davvero nelle nostre intenzioni negare alle ragazze il diritto di scegliere le loro letture, di appassionarsi ad avventure o a vicende d'amore. Vorremmo soltanto aiutarle a comprendere che, alle volte, in chi scrive quelle avventure, in chi immagina quelle storie di amore, vi è l'intenzione di farci palpitare per le avventure di altri, di farci sognare qualcosa che non appartiene al nostro mondo per impedirci di aprire gli occhi, di unirci, di operare per rimuovere insieme gli ostacoli che impediscono a tante ragazze di conquistarsi un loro avvenire, portare a compimento il loro sogno d'amore, di avere tutte la loro famiglia e di raggiungere la loro felicità in una società che più non conosca, per i pochi, il privilegio, il lusso, il capriccio e, per i molti, l'umiliazione, lo scherno, la miseria.
Vogliamo, soprattutto, indicare alle ragazze che sono stati scritti altri libri, che esistono altre letture che sanno rispecchiare - anch'essi - i loro sogni e le loro aspirazioni, che sanno essere anch'essi appassionanti, perché parlano della più grande delle avventure, che è la nostra vita di ogni giorno.

Postilla
Il testo qui riportato è tratto da una prefazione che Enrico Berlinguer scrisse per il volume "L'avvenire non viene da solo", una antologia dedicata alle ragazze italiane, edita nel 1949 dalla casa editrice "Gioventù nuova", la casa editrice della Fgci, di cui il comunista sardo era a quel tempo il segretario. Il testo è datato, anzi datatissimo, e vi si avverte forte l'odore di uel moralismo e paternalismo maschilista che era, al tempo, dominante nel comunismo italiano e non solo in quello. E tuttavia nelle riflessioni di Berlinguer su certa letteratura e certi giornali, costruite sulla scorta delle riflessioni gramsciane ed espresse con la prudenza di chi vuol stare davanti alle masse ma vicino ad esse, si innestano critiche che trascendono quel tempo e la stessa questione femminile per toccare il tema dell'egemonia borghese in rapporto alla comunicazione di massa e alla costruzione dell'imaginario sociale. (S.L.L.)

Oggi il mio cuore... Una poesia di Patrizia Cavalli

Cuore umano femminile isolato su uno sfondo bianco
Oggi il mio cuore superbamente alberga
nel suo immenso malumore. Addio. Pazienza.

Lenin. Il rivoluzionario che giocava coi gatti (di Anatolij Lunacarskij)

Quando conobbi Lenin più a fondo, scoprii una sua qualità che non appare subito: la sua stupefacente vitalità. Lo spirito di Lenin ribolle, scintilla di vita. Oggi, mentre scrivo queste righe, Lenin ha già cinquant'anni, eppure è ancora un uomo giovane, con un ritmo di vita giovanile.
Com'è contagiosa la sua ri­sata, affascinante, spontanea come quella di un bam­bino! È cosi facile divertire Lenin! Lui si abbandona volentieri al riso, che è l'espressione del trionfo del­l'uomo sulle avversità. Anche quando mi sono trovato con lui in momenti molto difficili, l'ho sempre visto sereno e pronto a scoppiare nella sua allegra risata abi­tuale. Perfino la sua collera è stranamente affettuosa. Oggi la riprovazione di Lenin potrebbe distruggere doz­zine, forse centinaia di persone:  eppure egli modera sempre la sua irritazione esprimendola in modo quasi scherzoso. La sua collera è come un temporale, « che quasi per gioco, scherzando, tuoni in un cielo azzurro » (n.d.r. è un famoso verso di Tjutcev).
Ho osservato che spesso l'apparente concitazione, le pa­role irose, le frecciate d'ironia velenosa, in lui sono ac­compagnate da un guizzo d'allegria in fondo allo sguardo. Da un momento all'altro Lenin può metter fine alla sfu­riata che ha montato soltanto perché serviva a un suo scopo. La sua disposizione d'animo rimane non soltanto serena, ma addirittura allegra.
Anche nella vita privata, Lenin ama tutte le forme di svago senza pretese, dirette, semplici e rumorose. I suoi compagni di gioco preferiti sono i bambini e i gatti; talvolta rimane ore e ore di seguito a giocare con loro.
Sul lavoro Lenin rivela le stesse qualità del suo spirito sano e vitale. La mia esperienza personale non mi consente di affermare che Lenin sia un lavoratore accanito. Non l'ho mai visto immerso nella lettura di un libro o curvo sulla scrivania. Lenin scrive i suoi articoli senza il minimo sforzo, di getto, senza bisogno di correzioni. Può scrivere in ogni momento della giornata: più spesso lo fa al mattino appena si alza, ma scrive altrettanto bene di sera, alla fine di una giornata spossante, o in qualsiasi altro mo­mento. (1923)

da Profili di rivoluzionari, De Donato, 1968

Majakowvskij e il biliardo (di Viktor Sklovskij)

Esisteva un certo circolo, la cui sede oggi è occupata dalla Procura, ma non la riconoscereste: sulla casa è stata costruita una sopraelevazione. Una volta vi si riuniva la Società della libera estetica. Vi parlavano Andrej Belyj, Bal'mont, c'erano frac e abiti eleganti - tutto questo è descritto in Andrej Belyj.

Io non ci sono mai stato. C'erano Bunin, il giovane Alekséj Tolstoj dal viso allungato, ricciuto, con una sciarpa invece della cravatta. Una volta, proprio lì si accinsero a fare una rivolta in arte, si parlava di abissi, si leticava sulle caratteristiche di questi, e su chi fosse, propriamente parlando, il loro padrone di casa.

Dopo le leticate Culkòv veniva rumorosamente cacciato. Poi ci si acclimatò nell'abisso, con tutta probabilità lo si arredò con tendaggi grigio-azzurri, gli scandali si fecero rari. Belyj partì, il circolo prese a venir frequentato da molti avvocati. Era il centro di Mosca, era la nuova sede del circolo dei nobili.

A pianterreno c'era un biliardo che Majakovskij frequentava.

Lasciavano entrare: checché se ne dica, era pur sempre un evento, un curiosità di Mosca. Il biliardo poi era ottimo.

Egli giocava con totale sincerità e oblio di sé, perdeva, creava regole proprie: ad esempio, non pagava per l'ultima partita né permetteva che altri pagassero per lui, e teneva moltissimo a questa regola.

Da Majakovskij, Il Saggiatore 1977.

La nascita di Majakovskij

Lilija Brik con Vladimir Majakovskij a Pietroburgo nel 1915
Majakovskij descrive così il giorno della sua nascita:

Nel cielo della mia Betlemme
non arse nessun segno,
nessuno impedì
a ricciuti magi il sonno
di tomba.
Fu assolutamente come tutti
- identico fino alla nausea -
il giorno
del mio avvento a voi.

Da Viktor Sklovskij, Majakovskij, Il Saggiatore, Milano, 1967

La missione teatrale di Antonio Gramsci (di Edoardo Sanguineti)

Per il cinquantennale della morte del comunista sardo, nel 1987, “l’Unità” pubblicò un giallo volumetto intitolato Gramsci. Le sue idee nel nostro tempo. Nella sezione “Ricordi, studi, testimonianze”, spicca un magnifico saggio di Edoardo Sanguineti, che, rievocando le cronache teatrali del giovanissimo giornalista Gramsci e collegandole con alcune pagine dei Quaderni dal carcere, intravede in quell’apprendistato una funzione formativa e costitutiva del pensiero gramsciano. Ne posto qui gran parte. Con una titolazione mia, per mia comodità. (S.L.L.)  

È d'obbligo, volendo riflettere oggi sull'attività di Gramsci come critico teatrale, ripartire da quel piccolo gruppo di interventi polemi­ci del 1917, in cui egli protestava contro «il trust dei fratelli Chiarella», a Torino, contro «l'autocrazia del capitale monopolizza­to», e insomma contro quell'«industria teatrale» che doveva essere denunciata come responsabile «dell'abbassamento del livello esteti­co» nel mondo dello spettacolo. «Torino è diventata una fiera», scriveva Gramsci, si è trasformata nel regno di Barnum, e vi celebrano i loro trionfi esclusivi il varietà e l'operetta, i «vaudevilles» e i «fenomeni viventi», mentre «le grandi compagnie si dissolvono» e «gli attori sono costretti per vivere a dedicarsi al cinematografo».

Né cinematografo né letteratura
Occorre ricordare che, quasi un anno prima, nell'agosto del '16, Gramsci aveva dedicato un articolo rilevante al tema «teatro e cinematografo», dove la concorrenza tra le due industrie, quella del palcoscenico e quella dello schermo («si dice che il cinematografo sta ammazzando il teatro»), era salutata come benefica, se almeno si voglia credere a «una funzione artistica del teatro», poiché destinata a depurarlo dal compito improprio e inferiore di «pura e semplice distrazione visiva», di «bottega di paccottiglia a buon mercato». L'industria cinematografica, in altri termini, fungeva, nella polemica gramsciana, da potenziale liberatrice dell'involgarimento della scena industrializzata («gli spettacoli teatrali soliti non sono che cinemato­grafie»), in modi che ci inducono a pensare, credo inevitabilmente, e con ben poche correzioni, a certi momenti, a noi tanto più prossimi, del dibattito intorno all'industria televisiva.
Il cinematografo è assunto comunque, presso Gramsci, non come campo estetico, ma come spazio emblematico governato dal principio della semplice «curiosità visiva», industrialmente gestita. E Gramsci può dunque scrivere, rigidamente: «D'Annunzio, Bernstein, Bataille avranno sempre maggior successo al cinematografo; la smorfia, il contorcimento fisico, trovano nel film materia più adatta alla loro espressione». Che è poi uno dei fronti, su cui egli impegna la propria battaglia culturale. Opposto, e complementare, è quello di un teatro non letterario, per il quale egli si impegna assiduamente, così da augurarsi, nel medesimo contesto, che «le inutili, noiose, insincere tirate retoriche» abbiano presto a ritornare a «essere letteratura», e cattiva letteratura, «morta e seppellita nei libri e nelle biblioteche».
Contro il teatro industrialmente degradato alle sue dimensioni inferiori, e per così dire cinematografizzato, e contro il teatro oratoriamente libresco, Gramsci rivendica, per il palcoscenico, e questa egli sente come la sua vera missione teatrale, una insostituibi­le funzione culturale e morale, come concreta esperienza sociale, incarnata in parola e in gesto, attraverso il corpo presente dell'attore, in un atto di comunicazione che è dotato di una sua piena responsabilità ideologica e civile, con una sua assoluta rilevanza, finalmente, politica.

Il teatro e la “miseria italiana”
È quel Gramsci del '17, prima evocato, che scrive, dunque: «Il teatro ha una grande importanza sociale: noi ci preoccupiamo della degenerazione di cui è minacciato per opera degli industriali, e vorremmo reagire, per quanto ci è possible, a essa. C'è un gran pubblico che vuole andare a teatro: l'industria lo sta lentamente abituando a preferire lo spettacolo inferiore, indecoroso, a quello che rappresenta una necessità buona dello spirito». Ed è in questa «necessità» del teatro, il nucleo forte della riflessione gramsciana: «non è vero che il pubblico diserti i teatri; abbiamo visto dei teatri, vuoti per una lunga serie di rappresentazioni, riempirsi, affollarsi all'improvviso per una serata straordinaria in cui si esumava un capolavoro, o anche più modestamente un'opera tipica di una moda passata, ma che avesse un suo particolare cachet». E con questa polemica contro gli «industriali» dell'«industria teatrale», Gramsci poneva le basi di quella tematica, tanto più ampia e più complessa che si svilupperà nei Quaderni, come problema di una cultura «nazionale» e «popolare».
Il teatro è il luogo in cui Gramsci primariamente verifica, — come fenomeno di cultura le cui perversioni sono perfettamente individuabili e denunciabili nelle loro crude ragioni economiche, e insieme come perverso sbocco di una lunga tradizione di classe, esito ultimo e tangibile della storia di una specifica miseria italiana — verifica e denuncia, una debolezza civile, un guasto sociale, che soltanto una «riforma» radicale potrebbe risanare alle radici. Una «riforma», dirà più tardi, «intellettuale e morale». Perché non si tratta di una debolezza, di un guasto marginali. In causa, lo sappiamo, è quella «necessità buona dello spirito» che il teatro rivela e incarna, per la sua evidenza comunicativa e pubblica, meglio di qualunque altra forma di attività artistica e culturale.
Nel «nesso di problemi» che, sulla metà degli anni Trenta, aprirà le note gramsciane sulla «letteratura popolare», saranno subito accostate, sintomaticamente, come questioni primarie, quella «perché la letteratura italiana non è popolare in Italia», di ascenden­za bonghiana, e quella «se esiste un teatro italiano», replicando un interrogativo sollevato da Ferdinando Martini, e collegandolo con il problema della «maggiore o minore vitalità del teatro dialettale e di quello in lingua». Che sono i temi che ricorrono già, quanto al teatro, espliciti o latenti, con metodica insistenza, per tutto l'arco delle cronache giovanili.

Donne proletarie e cocottes potenziali
È comunque a partire da quel preciso suo impegno di lotta contro ogni degradazione confusiva, e contro ogni degradante confu­sione, che si svela appieno il nucleo profondo di verità che è depositato, in modi di sottile giuoco paradossale, nel notissimo e quasi proverbiale Elogio della pochade, che risale al gennaio 1916. Alla ingannevole serietà, nel teatro come nella vita, alle «truffe dell'arte seria», Gramsci proclama di preferire «l'impudenza sfacciata, la monelleria più scrosciante di allegria, anche l'abiezione che non ha vergogna di se stessa e si mostra trionfante alla luce del sole». Un «bagno di fango» è almeno salutare contro il «reumatismo della logica». E la «pochade» può riuscire, se non altro, igienica per i nervi. E poi, non va dimenticato. Gramsci sta pure optando per Feydeau, contro i Bataille e i Sardou.
Ma la scelta di fondo vuole essere assai più radicale, poiché l'industria del divertimento può vantare, per sé, una propria fredda legittimità industriale, appunto, una sua cinica forza affaristica, che lealmente si dichiara e si confessa. Ma l'industria culturale, l'indu­stria teatrale, è puro inganno, è ipocrita manipolazione. La «pocha­de», allora, scopre infine, con candida impudicizia, il miserabile segreto che la finzione seriosa del repertorio borghese si sforza di disonestamente dissimulare, e mette a nudo quella sostanza fieristica e barnumistica che oramai divora, sempre più insidiosa e maligna, come un cancro inarrestabile, l'universo della scena. E per questo riguardo, ormai, non resterebbe altro da fare, come si è già accenna­to, se non aggiornare la diagnosi gramsciana, se «gli spettacoli teatrali soliti» sono oggi televisionerie. E se, per toccare appena un altro punto, quei disinvolti riciclaggi dei classici in funzione del primattorismo esibizionistico alla Ruggeri, che riduceva a pretesti narcisistici qualunque copione, oggi possiamo vederli perpetrati, quando non ancora, semplicemente, in nome dell'interprete che si impone come «unico», a dominare la scena, in nome dell'anche più arbitraria e interessata egemonia registica.
Ma riaccostarsi al Gramsci cronista teatrale, conviene rilevarlo, ha soprattutto senso se non si limita il riesame alla sua pratica di recensore, per gli anni che vanno dal '16 al '20, ma se si punta, fondamentalmente, sopra il ripensamento che avviene, maturo, nei Quaderni, a distanza, di giudizi e di temi che sono affiorati sparsa­mente ma coerentemente dalle occasioni giornalistiche. Penso, per fare un unico esempio, a quelle riflessioni del Quaderno 21, quando egli si interroga sulle corrispondenze che possono ritrovarsi, «nel teatro e oggi nel cinematografo», con «alcuni tipi di romanzo popolare», e dove si osserva che «tutta una serie di drammaturghi, di grande valore letterario, possono piacere moltissimo anche al pubbli­co popolare». Ebbene, si esamini quanto Gramsci scriveva, nel marzo del '17, in La morale e il costume, a proposito di Casa di bambola di Ibsen, interpretata da Emma Gramatica, e lo si raffronti con le note sui Diversi tipi di romanzo popolare. Il Gramsci cronista denuncia­va la fondamentale sordità del pubblico, la sua sostanziale incom­prensione del dramma di Nora: «L'unica forma di liberazione femminile che è consentito comprendere al nostro costume, è quella donna che diventa cocotte. La pochade è davvero l'unica azione drammatica femminile che il nostro costume comprenda; il raggiun­gimento della libertà fisiologica e sessuale. Non si esce fuori dal circolo morto dei nervi, dei muscoli e dell'epidermide sensibile». Soltanto le «donne proletarie» sarebbero state in grado di intendere che Nora è una «sorella spirituale», e non quelle «cocottes potenzia­li», presenti in sala, che non sanno uscire dai limiti stretti del loro «costume di classe».
Nel Gramsci che rimedita in carcere, questo motivo civile e morale è ripreso all'interno di un più largo quadro teorico e analitico, come problema della «profonda risonanza» che un grande testo può suscitare nella «psicologia popolare». Il dramma di Ibsen è assunto a esempio di quanto debba propriamente intendersi come «teatro d'idee», come «rappresentazione di passioni legate ai costu­mi», con una catarsi «progressiva» che incarni la visione «della parte più progredita intellettualmente e moralmente di una società», che esprima «lo sviluppo storico immanente negli stessi costumi esisten­ti». Un «teatro d'idee» non è infatti un teatro «a tesi», non si risolve in un «discorso di propaganda», ma si cala, deve calarsi concreta­mente «nel mondo reale», raffigurandolo «con tutte le sue esigenze contraddittorie», innalzandosi sopra i «sentimenti assorbiti solo dai libri». Dove, non a caso, torna a comporsi, a distanza, quel doppio rifiuto che conosciamo, della degradazione dell'industria culturale e della insincera retorica letteraria, del fieristico e del libresco, in nome di un'idea dialettica del teatro: di un teatro dialettico.

Pirandello l’ardito
È questa strategia culturale che spiega, in Gramsci, il tormenta­to e complesso contegno dinanzi al nuovo teatro italiano dell'epoca, il suo rapporto difficile e sofferto nei confronti del grottesco, e soprattutto poi di Pirandello. Qui metteremo l'accento sopra due pagine tra loro lontane, nel tempo, e che permettono subito di misurare, in prospettiva, la fondamentale continuità del problema. Il giudizio critico sul teatro pirandelliano è raccolto con forza, presso il Gramsci in platea, nella recensione al Piacere dell'onestà, dove meglio che in altre occasioni si pone in luce il contributo decisivo di rinnovamento e di sovvertimento che quell’ "ardito" del teatro» ha recato con i propri testi: «Le sue commedie sono tante bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori e producono crolli di banalità, rovine di sedimenti del pensiero. Luigi Pirandello ha il merito grandissimo di far, per lo meno, balenare delle immagini di vita che escono fuori dagli schemi soliti della tradizione, non possono essere imitate, non possono determinare il cliché alla moda. C'è nella sue commedie uno sforzo di pensiero astratto che tende a concretarsi sempre in rappresentazione, e quando riesce, dà frutti insoliti nel teatro italiano, d'una plasticità e d'una evidenza fantastica mirabi­le».
Ma il senso di questo riconoscimento, e delle riserve che altrove nettamente emergono, si afferra poi appieno in quel passo del Quaderno 23, dove, prolungando alcune considerazioni su Capuana drammaturgo in dialetto e in lingua, Gramsci può ormai riflettere sul modo in cui Pirandello «ha acquistato una fisionomia culturale cosmopolitica, cioè è diventato italiano e nazionale in quanto si è completamente sprovincializzato ed europeizzato».
E qui non soltanto tornano in giuoco le categorie mature del «nazionale» e del «popolare», e in forma ricca e problematica, ma si pone, con simile prospettiva allargata, la questione della «nazionaliz­zazione del patrimonio linguistico», particolarmente urgente per la creazione di un vero «dialogo teatrale», e insomma per la vitalità autentica di un teatro italiano. Scrive Gramsci: «Dal palcoscenico il dialogo deve suscitare immagini viventi, con tutta la loro concretezza storica di espressione; invece suggerisce, troppo spesso, immagini libresche, sentimenti mutilati dall'incomprensione della lingua e delle sue sfumature». Il nostro teatro non è soltanto in cerca di personaggi e di autori. È in cerca di lingua drammatica. È in cerca di una lingua, tout court. E occorre nazionalizzare l'italiano.
Della «pochade», insomma, si può giungere, con un sottile e pure tranquillo paradosso, a tessere un caldo encomio. Ma dall'«italiano letterario», che librescamente ha paralizzato le nostre scene, non può ricavarsi nemmeno un marginale epigramma. Si deve passare anzi gravemente, direttamente, al tema ultimo della «riforma intellettuale e morale», alla nazionalizzazione e popolarizzazione della cultura. È a questa riforma civile che Gramsci approda, nel proprio itinerario, al di là di quella riforma teatrale, che pure è stata, per giusta sorte, il primo terreno di una concreta verifica intellettuale e sociale. La missione teatrale di Gramsci fu un momento necessario e costitutivo, e destinato a essere immediatamente, della sua più ampia missione politica.

29.9.12

Le libere donne di Naro. Ovvero le due porte del narese (S.L.L.)

Festa a Naro
Aviri du porti comu li narisi” è un’espressione diffusa a Racalmuto che Leonardo Sciascia cita e commenta nel suo magnifico Occhio di capraAl mio paese, che da Racalmuto e da Naro non è distante, il detto circolava (e forse ancora circola) nella variante al singolare, “lu narisi”.
Esso vale ad indicare la prudenza dei naresi, “cornuti” in gran numero forse, ma abbastanza saggi da lasciare agli “amici” delle mogli un’uscita secondaria, onde non essere costretti, per non perdere la faccia, a cruenti delitti d’onore con i loro inevitabili strascichi .
Il modo di dire segnala peraltro una libertà di costumi nelle donne di Naro che non era frequente in altri paesi. Non so se davvero si arrivasse a una sorta di libero adulterio, ma le ragazze di quel paese al Liceo Classico o alla Ragioneria di Canicattì, che in gran numero frequentavano, erano probabilmente le più disinvolte, le più aperte e serene nella conversazione con il maschio, e talora lo mettevano in imbarazzo con spavalda giocosità.
Sulle donne di Naro circola (o forse circolava) in tutto il circondario un altro lusinghiero motto: “A Naru, a Naru li fimmini beddi”, parte di una più lunga filastrocca sui paesi del circondario. Lo gridavano, con ironico slittamento di senso, certe comitive maschili che a Naro compivano spesso un pellegrinaggio parallelo a quello annuale diretto al santuario di San Calogero, grande procacciatore di miracoli: si recavano al postribolo, anzi “a lu burdellu di Naru”, la cui rinomanza risaliva al tempo in cui la monumentale cittadina, capitale della Comarca, teneva sotto di sé Canicattì, Sommatino, Delia, Camastra, Grotte, Racalmuto, Castrofilippo e Campobello di Licata.
Le "femmine" la cui bellezza la massima loda non sono in ogni caso le ospiti della prestigiosa “casa chiusa”, ma sono tutte le donne di Naro. Perché fossero considerate le più belle non so dirlo, ma non credo che dipendesse da ragioni genetiche, di stirpe; piuttosto congetturo che la bellezza fosse sorella della libertà, di quella predisposizione al dialogo e all’incontro, che spingeva le naresi, quand’anche fossero contadine povere o servette, ad una maggiore attenzione per il loro corpo.
Ora, con la diffusione dei condomini, le due porte nelle abitazioni non ci sono più neanche a Naro e i mariti tolleranti e saggi devono inventarsi altri stratagemmi per evitare rogne. In compenso i pianterreni con ingressi su strade parallele, a Naro come negli altri paesi della Comarca, con tanti poveri vecchi bisognosi di assistenza medica e sociale in giro, sono divenuti sede di ambulatori medici e patronati. Le due porte consentono al dottore o al sindacalista di far risparmiare lunghe code e snervanti attese a parenti, amici e amici degli amici.  

Ferragosto alla Capanna Mara. A scuola da Gramsci (di Ferruccio Rigamonti)

Quest'estate - mi pare - le summer school politiche nate dall'anglofilia secondorepubblicana non si sono svolte. Oppure si sono svolte in sordina. Sono finiti, per sempre spero, i fastosi raduni rutelliani. I partiti ladri e screditati non hanno quasi niente da insegnare e, se lo hanno, devono farlo di nascosto.
M'è accaduto di leggere, per caso, proprio in questi giorni sul libro Gramsci vivo nelle testimonianze dei contemporanei, pubblicato da Feltrinelli nel 1977 e curato da Mimma Paulesu Quercioli, nipote del comunista sardo, il vivido ricordo di un altro tipo di scuola estiva.
Chi racconta è Ferruccio Rigamonti, nato nel 1902 e morto nel 1979. Rilegatore, dirigente prima dei giovani socialisti poi dei giovani comunisti milanesi tra il 1920 e il 1927, attivo nella clandestinità, Rigamonti fu deferito a Tribunale speciale che, il 20 febbraio del 1929, lo condannò a tredici anni di reclusione. Alla lettura della sentenza, il giovane rilegatore gridò rivolto ai giudici: "Viva il comunismo!". Ebbe così una condanna supplementare di cinque anni. Grazie ad un'amnistia, Rigamonti fu scarcerato dopo sette anni di prigione. Nel corso della Guerra di Liberazione si impegnò nella Resistenza e, dopo la Liberazione, militò nel PCI milanese.
A Rigamonti accadde di partecipare ad una concentratissima esperienza di scuola politica, alla Capanna Mara nell'alta Brianza. Si trattava (e si tratta) di un rifugio prealpino, a circa 1200 metri di altitudine, ove gli escursionisti milanesi sostavano nell'ascesa del monte Bollettone. Le differenze tra quella scuola, che aveva come maestro Antonio Gramsci (assistito da Luigi Longo), e quelle di oggigiorno mi sembrano molto marcate. (S.L.L.)

Il sentiero che conduce alla Capanna Mara, che si intravede in fondo
La scuola ebbe luogo, nella settimana di ferragosto del 1925, alla Capanna Mara, ben nota ai milanesi perché meta di molte gite domenicali. Era situata in una posizione comoda, facilmente raggiungibile e allo stesso tempo abbastanza isolata per essere poco notata dalla polizia che allora già cominciava a perseguitarci.
Io e Bruno Monfrini rappresentavamo l'organizzazione di Milano. Tra gli altri partecipanti ricordo bene Celeste Negarville e Bustico Domenico di Torino, Agostino No­vella e Bensi Pietro di Genova, Porcari e Cavestri di Par­ma, Ferrari e Magnani Aldo di Reggio Emilia, Fontana e Peioni di Bologna, Guizzi e Castellani di Firenze, Lorenzo Cuoco di Padova, Mannini di Siena, un compagno di Trie­ste, un altro di Verona e altri ancora dei quali non ricordo il nome. C'era anche Altiero Spinelli in rappresen­tanza dei giovani comunisti romani. Eravamo più di una ventina, tutti sui vent'anni, alloggiati alla garibaldina; an­che perché si viveva già in piena clandestinità.
Mantenevano i collegamenti, facendo la spola tra la Capanna e Milano, Pietro Secchia col nome di battaglia di Bottecchia (perché correva sempre in fretta) e Edoardo D'Onofrio che chiamavamo papà, perché, pur essendo qua­si un nostro coetaneo, possedeva già una maturazione e un'esperienza politica molto superiore alla nostra e inol­tre aveva nei nostri confronti un atteggiamento quasi paterno.
Le lezioni cominciarono subito. Ci si allontanava un po' dalla Capanna e su un prato ci si sedeva a semicer­chio attorno a Gramsci ed a Longo. Longo, infatti, fun­geva da "supplente" e si alternava con Gramsci nell'inse­gnamento. Che ci fosse tanto bisogno del loro aiuto ci accorgemmo subito, in quanto le lezioni di Gramsci bat­tevano in breccia le convinzioni che fino allora ci era­vamo formate. Accidenti che snebbiata! Non avrei mai creduto che in solo otto giorni di scuola avrei dovuto fare piazza pulita di un bagaglio ideologico immagazzi­nato in quasi un quinquennio!
Altro che previsione catastrofica, secondo la quale la società capitalistica avrebbe finito coll'essere vittima delle sue contraddizioni, lasciando inevitabilmente il posto alla società socialista sua erede storica e naturale! Gramsci ridicolizzò questa specie di automatismo, dimostrandoci la non automaticità dell'evento e la conseguente necessità di formare un partito saldo ed omogeneo strettamente le­gato alle masse popolari. La funzione del partito era essenziale per portare le masse alla lotta e alla vittoria. Ma per ottenere questo risultato era indispensabile non una valutazione generale e generica del problema ma una acuta e minuta analisi della società italiana; l'individua­zione dei suoi diversi strati sociali; la necessità di saper trovare per ciascuno di essi parole d'ordine e programmi d'azione atti ad interessarli e a mobilitarli, portandoli nella sfera di influenza del nostro partito.
Cosi imparammo a distinguere fra proletariato e sot­toproletariato, fra contadini, braccianti e salariati agricoli, mezzadri e coloni, nonché cosa noi dovessimo intendere e fare verso il ceto medio e le sue numerose suddivisioni. Dovevamo insomma cessare di fare di ogni erba un fa­scio se volevamo conquistare alla nostra causa la maggio­ranza degli italiani, neutralizzarne un'altra parte e ridurre al minimo numero possibile gli avversari da combattere decisamente.
Proprio il contrario dei "molti nemici, molto onore" mussoliniano.
Certo la via che Gramsci ci indicava e che Longo riba­diva nelle sue lezioni era tutt'altro che facile ed esigeva un impegno di attività e di studio che si contrapponeva nettamente alla faciloneria e genericità nel lavoro alle quali eravamo stati abituati sino ad allora. Infatti, la convinzione che sino a quel momento ci aveva guidati era quella del partito dei "pochi ma buoni", che alla fine le masse avrebbero riconosciuto come quello giusto.
Gramsci ci proponeva invece un partito che deve andare verso le masse, deve guidarle nella lotta, ma essere avanti a loro di un passo e non di due. In modo da non staccarsi mai dalla loro mentalità e dalla loro capacità di intendere.
Secondo me fu questo il principale insegnamento che traemmo da quelle lezioni…
Come ho già detto le lezioni duravano tutto il giorno e si protrassero per otto giorni consecutivi. Al mattino si faceva colazione tutti assieme con un po' di pane, polenta e latte sul lungo tavolo nel salone. La Capanna era infatti una capanna montana con una grande sala, due o tre stanzette al piano di sopra e un ampio fienile dove dormivamo tutti noi e anche quelli che venivano per le gite domenicali. Distaccato dal corpo centrale c'era una specie di capanno dove si raccoglieva il fieno nel periodo di raccolta e al quale si accedeva per una scala di quattro o cinque gradini. Era questo uno dei luoghi di riunione: sul primo gradino in alto sedeva Gramsci con a fianco Longo, sui gradini più bassi tutti noi con le nostre matite e un quaderno sul quale prendevamo gli appunti.
La lezione del mattino durava tre ore, tre ore e mezzo, poi si interrompeva per il pasto. Anche a mezzogiorno si mangiava sul grande tavolo, tutti insieme, senza tovaglia; arrivava il piatto con la polenta calda e, dato che eravamo tutti giovani con molto appetito, non aspettavamo certo che venisse fredda. Finita la colazione, si andava fuori per una mezz'ora di ricreazione e li si esprimeva tutta l'umanità di Gramsci. Non era molto più vecchio di noi, anche rispetto al più giovane del gruppo ci superava di appena dieci anni, poteva essere un fratello maggiore, e come tale si comportava. Non si dava arie, scherzava e giocava; ci dava "lezioni" sul lancio dei sassi. Ricordava le scene della sua Sardegna dove i pastori lanciano i sassi alla pecora riottosa che si stacca dal gregge per costrin­gerla a rientrare. Egli lanciava i sassi dal sentiero che conduce alla Capanna Mara con una tale precisione e una tale forza da superare tutti noi che pure eravamo fisicamente molto più robusti di lui. Si facevano anche altri giochi di forza: per esempio, al "braccio di ferro" aveva una mano che pareva una tenaglia, stringeva il polso dell'avversario in modo tale da costringerlo a mol­lare. Poi si raccontavano le barzellette, noi e lui, e si rideva di gusto. Vivevamo dei momenti veramente lieti e, anche se eravamo tutti giovani, non sentivamo minima­mente i disagi dell'isolamento; poi devo dire che aveva­mo piena coscienza di assistere a delle lezioni che sareb­bero state di grande utilità per noi tutti.
Finita la ricreazione si riprendeva a studiare, e in ogni lezione veniva dato largo spazio alle domande, ai chiarimenti. Senza che mai Gramsci perdesse la pazienza. Alcuni di noi non riuscivano a capire immediatamente le cose; allora interveniva anche Longo, anche lui con molta calma; insomma volevano che il corso di lezioni desse i migliori risultati possibili. Alle cinque, quando comincia­va a venir buio, bisognava rientrare perché non avevamo mezzi di illuminazione. Si consumava il pasto della sera, quando eravamo soli, cioè quando non erano presenti altri escursionisti, allo stesso tavolo si continuava a di­scutere. Il proprietario era quasi un compagno, sapeva chi eravamo e in sua presenza si poteva parlare liberamente…
Vorrei dire ancora qualcosa di Gramsci come mae­stro: perché lo era nel vero senso della parola. Non met­teva in difficoltà nessuno; era sempre pronto ad ogni chiarimento che gli venisse richiesto. Era un grande capo di partito, perché non solo sapeva spiegare e chiarire, ma soprattutto dava l'esempio. Noi giovani eravamo di­sgustati dal contegno del Partito socialista di allora nel quale convivevano una quantità di tendenze e di concetti, in cui nessuno riusciva a capire cosa si dovesse fare. Anche molti dirigenti socialisti che predicavano bene raz­zolavano poi molto male. I giovani sono esigenti nei con­fronti dei loro capi: li riconoscono se vedono in loro anche un esempio di comportamento. E Gramsci fu pro­prio questo: un maestro che insegnava soprattutto con l'esempio. Fino alla sua morte in carcere.
La maggior parte dei giovani compagni che partecipa­rono al corso della Capanna Mara, furono arrestati. Ma anche nelle prigioni fasciste continuò la lezione di Gram­sci: sapevamo che era stato arrestato ma tutte le notizie che ci pervenivano su di lui erano di un comportamento esemplare, fiero, di grande serietà politica e morale…

Nazione, un’idea per tanti usi

Per i 150 anni dalla proclamazione del Regno d’Italia “il manifesto” pubblicò, tra il gennaio e il marzo 2011, tre inserti intitolati La Conquista. L’unità d’Italia nell’era della borghesia. Vi si ricostruiscono le diverse fasi del Risorgimento attraverso i saggi di tre diversi Marchi (Marco Meriggi, Marco Revelli, Marco Rossi Doria). I tre fascicoli contengono, oltre al saggio, schede concettuali, immagini, percorsi di lettura che approfondiscono i temi risorgimentali e collegano la storia italiana con quella europea e mondiale. Il tutto per la cura di Gabriele Polo. Dal primo fascicolo riprendo il percorso di lettura Sulla definizione e le battaglie culturali a proposito del concetto di «nazione». (S.L.L.)

Il primo tricolore a Firenze
Dopo la Rivoluzione francese e per tutto l’800,
il concetto di nazione diventa l’architrave
del pensiero e dell’azione politica.
Rivolte, insurrezioni, moti rivoluzionari
e, infine, guerre scoppiano in suo nome.
E a partire dalle sue molteplici interpretazioni

Il termine nazione ha avuto significati molto diversi col variare delle epoche storiche. Nel suo significato moderno - quello che è prevalso dalla Rivoluzione francese in poi - ha rappresentato uno dei più importanti fattori di condizionamento del comportamento umano; in particolare, l’attributo nazionale, accanto al sostantivo stato, ha dato vita alla realtà politica di maggior rilievo dagli inizi dell’Ottocento a oggi. Tuttavia, il concetto di nazione rimane di difficile definizione e mantiene un elevato grado d’ambiguità per l’intrecciarsi dei suoi significati storici e della sua portata ideologica.

Criteri
Secondo l’Enciclopedia Feltrinelli Fischer (volume 27 - Scienze Politiche, a cura di Antonio Negri, Feltrinelli 1970), è possibile raggruppare in tre categorie i diversi criteri con cui una nazione viene definita tale:
«1) La categoria comprende i dati naturali, quali l’elemento etnico (popolazione) e l’elemento geografico (territorio). L’elemento etnico è collegato con l’idea di razza, anche se tale concetto, nei teorici della nazione, non ha sempre un’applicazione biologico-scientifica. All’interno di questa categoria, i diversi criteri possono essere, in alcuni casi, contrastanti, come, ad esempio, per la regione dell’Alto Adige o Sud Tirolo, che, secondo il criterio territoriale, appartiene alla nazione italiana e secondo quello etnico, appartiene alla nazione tedesca (intesa in senso ampio).
2) La categoria comprende i fattori culturali, quali lingua, cultura, religione, Stato. Vi possono essere in alcuni casi stretti legami fra elementi della prima e della seconda categoria (ad esempio fra il criterio etnico e quello linguistico o culturale) e, in alcuni casi, criteri contrastanti: esistono degli stati con popolazione prive di unità linguistica (come la Svizzera) e popoli che dovrebbero appartenere a una sola nazione in base alla lingua o all’origine etnica, ma che sono, per ragioni storiche, divisi (come molti paesi dell’America Latina).
3) La categoria comprende i fattori soggettivi, quali la scienza, la volontà, il sentimento nazionale. In base a questi criteri il concetto di nazione non trova il suo fondamento in uno o più elementi precostituiti, bensì in un atto di volontà da parte del popolo che costituisce la nazione stessa».

Volontà
Secondo Federico Chabod (L’idea di nazione, Laterza, 1961) esistono due modi di concepire la nazione, quello naturalistico e quello volontaristico: il primo (corrispondente ai criteri delle prime due categorie della classificazione precedentemente riportate) sbocca quasi inevitabilmente nel razzismo, il secondo può avere sbocchi liberali. La classificazione di Chabod richiama la profonda diversità politica assunta dal concetto di nazione nel corso dell’Ottocento: in particolare sono stati alcuni pensatori tedeschi (da Herder a Schlegel) a sottolineare l’elemento naturale della nazione, legandola ai dati «del sangue e del suolo», esaltando l’importanza della purezza del ceppo etnico e dei costumi per la grandezza di una nazione. Concetti che Hegel usò per sviluppare la più conosciuta delle teorie di stato nazionale (fondato sulla realtà storica); ma concetti che troviamo anche alla base della pratica totalitaria del nazismo.
La chiave volontaristica di lettura dell’idea di nazione (quella fondata su «libere scelte» dei popoli) è stata invece particolarmente presente in Italia: per Mazzini la nazionalità è l’insieme di un pensiero e di un fine comuni, quelli della patria, in primo luogo come coscienza collettiva di essa e della necessità di sua esistenza. È un patriottismo ancora figlio delle rivoluzione francese e dei suoi principi di libertà, quello dei primi complotti rivoluzionari contro l’ordine della Santa Alleanza; una concezione che troverà la sua massima espressione nelle rivoluzioni europee del 1848. Infatti, benché il nazionalismo romantico dei primi decenni dell’800, sia figlio del rifiuto del cosmopolitismo illuministico della rivoluzione francese (soprattutto in avversione all’espansionismo napoleonico che di quei principi si diceva portatore), le principali correnti nazionalistiche di quegli anni non rinunciavano a quei principi di libertà indissolubilmente legati all’individualismo borghese che contrastava il legittimismo aristocratico. Secondo il citato volume dell’Enciclopedia Feltrinelli:
«La vita politica europea della prima metà dell’Ottocento si è svolta sotto l’egida dell’unione dei due principi di libertà e nazionalità: in seguito, però, nel processo storico che ha portato alle unificazioni nazionali, il principio di nazionalità ha prevalso sul principio di libertà. Questo è avvenuto in modo macroscopico in Germania, con il fallimento del parlamento di Francoforte nel 1848, e successivamente attraverso l’opera accentratrice di Bismarck: ma un simile processo si è avuto in larga misura anche in Italia (...); la sconfitta del federalismo repubblicano di Carlo Cattaneo ha significato la sottoposizione del principio di libertà a quello di nazionalità».

Ambiguità 
Una lettura particolarmente problematica del concetto di nazione è stata fatta da Etienne Balibar in Razza, nazione, classe - le identità ambigue (Ed. Associate,1991), che approfondisce la relatività storica del termine:
«La storia delle nazioni, a cominciare da quella francese, viene sempre presentata sotto forma di un racconto che attribuisce a esse la continuità di un soggetto. La formazione della nazione appare così il compimento di un progetto secolare, segnato da tappe e prese di coscienza che le diverse posizioni degli storici faranno apparire più o meno determinanti (a che punto situare le origini della Francia? all’epoca degli antenati Galli? della monarchia capetingia? della rivoluzione del 1789?), ma che comunque sono iscrivibili in uno schema identico: la manifestazione di sé della personalità nazionale. Tale rappresentazione costituisce certamente un’illusione retrospettiva, ma traduce anche realtà istituzionali coercitive. L’illusione è duplice: da un lato si crede che generazioni che si succedono nei secoli su un territorio approssimativamente stabile, con una denominazione approssimativamente univoca, si siano trasmesse una sostanza invariante; dall’altro si crede che l’evoluzione, di cui selezioniamo retrospettivamente gli aspetti, in modo da percepire noi stessi come suo punto d’arrivo, fosse la sola possibile e rappresenti un destino. Progetto e destino sono due figure simmetriche dell’illusione identità nazionale. I francesi del 1990 - di cui almeno uno su tre ha avi stranieri - sono legati ai sudditi di Luigi XIV (per non parlare di quanto sono legati ai Galli) solo da una successione di eventi contingenti, le cui cause non hanno nulla a che vedere con il destino della Francia, con i progetti dei suoi re, né con le aspirazioni del suo popolo».
Balibar non contesta il peso dell’identità nazionale nella storia dell’umanità; da questo punto di vista arriva a parlare di «mito che si ripercuote sull’attualità» e che conserva un grande peso nella vita politica, soprattutto dall’Ottocento in poi. Ciò che lo studioso francese contesta è l’esistenza di criteri assoluti attraverso cui determinare le identità nazionali, collocandole in un percorso storico i cui sviluppi sono tutt’altro che scontati:
«La formazione nazionale è il risultato di una lunga preistoria (dal medioevo, alla sacralizzazione del potere monarchico, alla Riforma) che differisce in modo essenziale dal mito nazionalista di un destino lineare. Essa consiste innanzitutto in una molteplicità di avvenimenti qualitativamente distinti, sfalsati nel tempo, nessuno dei quali implica i successivi. (...) Questi avvenimenti, ripetendosi, integrandosi a nuove strutture politiche, hanno avuto effettivamente un ruolo nella genesi delle formazioni nazionali. Ciò è dovuto al loro carattere istituzionale, al fatto che fanno intervenire lo stato nella forma che allora le era propria. In altre parole, alcuni apparati di stato non nazionali, con tutt’altri obiettivi (ad esempio dinastici), hanno progressivamente prodotto gli elementi dello stato nazionale o, se si vuole, si sono involontariamente nazionalizzati e hanno iniziato a nazionalizzare la società». Per Balibar questo processo storico si svolge in un contesto mondiale il cui carattere unitario è determinato dalla forma economica, in particolare ha un’accelerazione con il sistema capitalistico. In questo contesto la nazione viene vista come la forma più appropriata per permettere la circolazione del capitale e «tenere sotto controllo lotte di classe eterogenee facendo emergere delle borghesie di stato capaci di egemonia politica e culturale».
Rimane aperto il problema dell’ideologia nazionalista, un fenomeno concretamente evidente a partire dai primi decenni dell’Ottocento e variamente riemerso in forma prepotente nel secolo successivo. Per Balibar, a partire dall’assunto che una «formazione sociale si riproduce come nazione solo nella misura in cui l’individuo viene costituito, dalla nascita alla morte, come homo nationalis da una rete d’apparati e pratiche quotidiane», l’unità popolare attorno alla nazione abbisogna di «un modello unitario che deve anticipare questa costituzione: il processo di unificazione (di cui si può misurare l’efficacia nella mobilitazione collettiva in guerra) presuppone la costituzione di una forma ideologica specifica». Questa forma ideologica, per Balibar, può essere chiamata patriottismo o nazionalismo; in base a essa lo stato crea una coscienza popolare finalizzando a ciò tutti gli avvenimenti storici. La fabbricazione di una coscienza che affonda la propria efficacia anche nell’analogia con la religione, «facendo del nazionalismo e del patriottismo una religione, se non addirittura la religione dei tempi moderni». Creando quelle che Balibar chiama «etnicità fittizie» (la lingua, la razza), si costituisce - nell’immaginario popolare - una nazione ideale e si risponde anticipatamente alle esigenze d’appartenenza di comunità disgregate come quelle dell’epoca contemporanea.
Balibar può facilmente contestare il valore «nazionale» della lingua, sia perché essa può servire nazioni diverse, sia perché essa sopravvive alla scomparsa «fisica» delle popolazioni che l’hanno utilizzata (dal latino, al greco antico). La comunità di lingua ha così bisogno di un «supplemento di particolarità, o di un principio di chiusura o esclusione, la comunità di razza .(...) Il nucleo simbolico dell’idea di razza è lo schema della genealogia, cioè l’idea che la filiazione degli individui trasmetta di generazione in generazione una sostanza biologica e spirituale e, contemporaneamente, li iscriva in una comunità temporale che si chiama parentela». Il nazionalismo che si fonda sull’idea di comunità di razza compare, secondo quest’interpretazione, quando scompaiono i legami di parentela a livello di clan, di comunità o di classe sociale, ricostituendo - immaginariamente - una parentela sulla soglia della nazionalità.

da La Conquista. L’unità d’Italia nell’era della borghesia. Fascicolo I: Restaurazioni
Supplemento de “il manifesto” a cura di Gabriele Polo Febbraio 2011



Ora di religione (di Sara Dipasquale)

Recupero, conservo e propongo da fb la nota che segue, di una compagna palermitana, che, a commento di un recente intervento del ministro Profumo, fa chiarezza sull'ora di religione confessionale cattolica. (S.L.L.) 
I docenti di religione sono scelti dalla curia, a suo insindacabile giudizio (e quindi lo Stato paga lo stipendio a persone su cui non ha il minimo controllo). Per conservare il posto, gli insegnanti di religione devono chiedere, ogni dodici mesi, il nulla osta all’autorità diocesana, dalla quale possono essere revocati anche per ragioni che non hanno nulla a che fare con le capacità dell’insegnante, ad esempio, per “condotta morale pubblica in contrasto con gli insegnamenti della Chiesa”.
Come se non bastasse, esiste un’ordinanza ministeriale – n. 128 del 14 maggio 1999 – che sostiene che “lo studio dell’Irc o dell’ora alternativa possono concorrere a formare il cosiddetto credito scolastico, e quindi il punteggio di ammissione all’Esame di Stato”. Ordinanza che, nei contenuti, è stata confermata da tutti i ministri succedutisi negli anni e contro cui è stato presentato ricorso al Tar dai valdesi e dalle chiese evangeliche. Ricorso rigettato: perché? La ragione è di sostanza (si fa per dire): “Non hanno notificato le controparti”, vale a dire tutti gli studenti che si avvalgono dell’Irc!
Numeri. Per i docenti di religione lo Stato sostiene un costo pari a 1,25 miliardi di euro, ottenuto, moltiplicando il costo totale dell’istruzione scolastica per il rapporto tra insegnanti di religione cattolica (nel 2010, nella scuola statale erano 26.326 su un totale di 931.756) e il totale degli insegnanti.
Il ministro Profumo oggi ha detto una cosa non laicista, come la saluteranno certamente alcuni, e vi dirò, neppure laica: ha detto una cosa di buon senso. E il paradosso è che l’abbia detta un ingegnere elettrotecnico, non votato dagli italiani e che, per una volta, ha rappresentato tutti i cittadini e non solo alcuni.

28.9.12

Clima e raccolti. Le multinazionali dei semi e l’agricoltura contadina

Da un supplemento del “manifesto” del 2010 dedicato al “transgenico” recupero una pagina sul mutamento climatico, sui suoi effetti sull’agricoltura mondiale, sulla lotta sotterranea o esplicita tra multinazionali dei semi e piccoli produttori contadini. Credo che la scheda e l’articolo di cui la pagina si compone – l’una e l’altro opera di un esperto nordamericano – fornisca sulle questioni aperte notizie e chiarimenti utilissimi. (S.L.L.)
Nepal, La festa contadina della semina del riso.
Scheda
I dati su cui riflettere
Secondo un rapporto della Fao, un aumento della temperatura di 3-4 gradi Celsius potrebbe provocare un crollo dei raccolti del 15-35% in Africa e in Asia occidentale e del 25-35% nel Medioriente.
- Come conseguenza del cambiamento climatico, 65 paesi del Sud del mondo, soprattutto in Africa, rischiano di perdere 280 milioni di tonnellate di potenziale produzione di cereali.
- Gli aumenti di temperatura e i cambiamenti dei regimi di pioggia diminuiranno i periodi di crescita di oltre il 20% in molte zone dell’Africa sub-sahariana.
- Entro il 2060, i contadini delle zone aride dell’Africa sub-sahariana subiranno delle perdite di reddito del 25% per acro.
- I raccolti di riso asiatico diminuiranno drasticamente a causa di temperature notturne più elevate. Infatti, in presenza di condizioni climatiche più calde, la fotosintesi diminuisce o s’interrompe del tutto, l’impollinazione è ostacolata e si verifica la disidratazione. Secondo uno studio portato a termine dall’International Rice Research Institute, i raccolti di riso diminuiscono del 10% per ogni aumento notturno di un grado Celsius.
- La zona di maggiore produzione di frumento dell’Asia meridionale – l’enorme pianura indo-gangetica da cui proviene circa il 15% del raccolto mondiale di frumento – si ridurrà del 51% entro il 2050 a causa di condizioni atmosferiche più calde e asciutte e del peggioramento dei raccolti, una perdita che porrà almeno 200 milioni di persone a maggiore rischio di fame.
- Entro il 2055, l’America Latina e l’Africa assisteranno a un declino del 10% nella produzione di granturco.
- In America Latina, le perdite nella produzione di granturco alimentato a pioggia saranno di gran lunga superiori a quelle della produzione di granturco irrigato: alcuni modelli prevedono che le perdite raggiungeranno il 60% in Messico, dove circa 2 milioni di piccoli coltivatori vivono grazie alla coltivazione di granturco alimentato a pioggia.
- I raccolti selvatici saranno particolarmente vulnerabili all’estinzione causata dai cambiamenti climatici. Secondo uno studio delle specie di piante selvatiche connesse con i raccolti alimentari, il 16-22% dei parenti selvatici di cowpea (Vigna unguiculata), arachidi e patate si estinguerà entro il 2055 e il territorio geografico di coltivazione delle rimanenti specie selvatiche sarà ridotto di oltre la metà.
- A lunghissimo termine, nel 2070-2100, i modelli climatici prevedono dei cambiamenti climatici estremi e delle proiezioni impensabili per la sicurezza alimentare. Nel corso degli ultimi tre decenni di questo secolo, la temperatura media di molti tra i paesi più poveri del mondo oltrepasserà la temperatura massima raggiunta dagli stessi paesi tra il 1900 e il 2000. (p.r. m.)
Nepal, Contadina durante il raccolto del riso.
Per ogni clima
di Pat Roy Mooney
Le analisi recenti riguardo al rapporto raccolti-clima suggeriscono che i cinque anni più caldi del XX secolo saranno paragonabili ai cinque più freddi della fine del secolo in corso.
Dal Nepal all’Etiopia alla Bolivia, i contadini assisteranno a temperature elevate come non mai e nessuno può sapere con certezza se verdure e animali sopravviveranno: potrebbero scomparire le razze e i semi tradizionali che i contadini allevano e coltivano da sempre, oltre ai loro parenti che crescono selvatici nelle radure e nelle foreste, e con essi la biodiversità genetica che serve al pianeta per adattarsi ai cambiamenti climatici.
Le multinazionali di sementi, le prime 10 delle quali controllano il 57% delle vendite commerciali mondiali, sono certe che le loro varietà brevettate saranno “adattabili a ogni clima”, più di quanto non lo siano le varietà dei contadini. Per contro, i contadini sostengono che saranno proprio le fattorie industriali su grande scala a trovarsi in difficoltà, mentre i loro semi possiedono la robustezza e la resistenza per adattarsi ai climi in cambiamento, ai parassiti e alle malattie. Chi ha ragione?
Multinazionali come Monsanto, Basf, DuPont, Syngenta e Dow hanno in mano le redini del gioco. Sotto pressione da parte di trattative commerciali bilaterali, regionali e dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc), i governi nazionali del Sud del mondo stanno adottando norme sui semi applicabili alla nomenclatura, all’uniformità e alla manutenzione delle varietà, oltre che a leggi di mercato che stanno conducendo la biodiversità agricola locale all’estinzione.
Le licenze e le norme sui brevetti rendono quasi impossibile per i coltivatori la conservazione o lo scambio dei semi, le multinazionali trovano il modo di trarre profitto dalle future incertezze dei raccolti indotte dal clima.
Negli ultimissimi anni, le più grandi multinazionali biotecnologiche dei semi hanno applicato o ricevuto oltre 500 brevetti che, sostengono, aiuteranno i raccolti a rispondere a un’ampia gamma di situazioni critiche a cui saranno sottoposti – dalla tolleranza a sale, caldo o freddo, alle inondazioni. Parecchi di questi brevetti contengono individualmente molti – se non tutti – i raccolti del mondo e molte o tutte le forme di situazioni critiche; e s’impadroniscono di gigantesche sequenze genetiche che non hanno inventato ma scoperto. Il brevetto Us numero 7.161.063 della Basf, per esempio, rivendica una sequenza associata all’aumentata tolleranza allo stress ambientale che si trova in tutti i prodotti transgenici. Gli oltre 500 brevetti convergono attualmente in 55 di ciò che gli uffici dei brevetti definiscono “famiglie”, e 51 di queste sono di proprietà dei sei giganti dell’agrobusiness: Basf, Bayer, Dow, DuPont, Monsanto e Syngenta – oppure di piccole aziende biotecnologiche specializzate che lavorano con le grandi multinazionali. La Basf da sola possiede 21 “famiglie” ma ha stabilito una joint venture con la Monsanto, che ne possiede altre sei e, indirettamente, ha interessi in aziende che ne possiedono altre nove. In altre parole: la Basf e la Monsanto insieme possiedono direttamente 27 delle 55 principali famiglie di brevetto, e indirettamente 36.
Queste sei multinazionali sostengono, ovviamente, che né i coltivatori né la concorrenza sono obbligati a comprare o imitare i loro prodotti. Ma queste sei multinazionali insieme controllano il 73% delle vendite dei pesticidi mondiali, e quattro di loro oltre il 40% delle vendite globali di semi. È ovvio, quindi, che tutti sono costretti a seguire la direzione da loro intrapresa, ovunque essa conduca. E i principali ricercatori del settore pubblico stanno già dichiarando che le tecnologie d’ingegneria genetica e le sequenze genetiche “adattabili a ogni clima” possono essere la migliore risposta ai cambiamenti climatici.
Di fatto, alcuni tra i principali scienziati dipingono un’immagine incredibilmente pessimistica del futuro dell’agricoltura contadina. Sostengono infatti la possibilità di un “capovolgimento” relativamente veloce delle condizioni climatiche relative ai raccolti, che obbligheranno gli scienziati
agricoli a focalizzarsi sulle coltivazioni principali (frumento, riso, granturco, patata, soia) nelle maggiori aree di produzione, quali le pianure, le praterie, la pampa e la regione del Punjab. Ciò significa che 1,4 miliardi di persone che vivono nelle zone rurali, che dipendono dai semi conservati dai contadini e abitano territori marginali, saranno costretti a spostarsi nelle grandi città. In più, le grandi aziende biotecnologiche aggiungono che le colline abbandonate possono essere trasformate per la produzione del biocarburante.
Con la stessa velocità con cui i contadini dovranno riversarsi nelle città, la biodiversità agricola diventerà un ricordo. I semi dei raccolti che da oltre 12 mila anni sono custoditi dalle famiglie di agricoltori si estingueranno, schiacciati dai grandi raccolti trans geneticamente uniformi della biotecnologia, coltivati nelle regioni con i terreni più favorevoli, e dalla diffusione dei raccolti per combustibile, altrettanto uniformi e coltivati nei terreni più aspri.
Esiste un’alternativa realistica?
Assolutamente sì. Via Campesina – la più grande rete mondiale di piccoli coltivatori – ha unito le sue forze con i pastori, i pescatori e le popolazioni indigene, nel tentativo di promuovere un punto di vista, su cibo e agricoltura, all’interno del concetto di “sovranità del cibo”, che enfatizza la produzione e il consumo locale e promuove il rispetto per i produttori e i consumatori.
La sovranità del cibo valorizza la diversità genetica. Piuttosto che adottare un approccio iper-tecnologico, monopolistico e mai testato, ai cambiamenti climatici, i piccoli coltivatori stanno facendo pressione per lo sviluppo di raccolti “sotto-utilizzati”, che hanno mostrato grande plasticità di fronte alle situazioni di cambiamento, oltre a possedere considerevoli qualità nutrizionali.
Due decenni fa, in una serie che purtroppo descriveva “gli ultimi raccolti” dell’Africa e delle Ande, il National Research Council degli Stati Uniti ha richiesto lo sviluppo degli oltre 50 raccolti che sembrano essere adattabili alla temperatura, all’esposizione solare, all’altitudine e alle precipitazioni
che li rendono candidati eccellenti per ulteriori ricerche. Questi 50 raccolti non si sono quasi mai trovati nelle banche del gene nazionali o mondiali e attualmente sono protetti soltanto nei campi dei contadini.
Se riusciremo a collaborare con i piccoli coltivatori di tutto il mondo per sviluppare questa diversità, forse i nostri bambini non saranno destinati a mangiare la polvere.  

“il manifesto” Supplemento alimentazione - febbraio 2010