Per il cinquantennale della morte del comunista sardo, nel 1987, “l’Unità” pubblicò un giallo volumetto intitolato Gramsci. Le sue idee nel nostro tempo. Nella sezione “Ricordi, studi, testimonianze”, spicca un magnifico saggio di Edoardo Sanguineti, che, rievocando le cronache teatrali del giovanissimo giornalista Gramsci e collegandole con alcune pagine dei Quaderni dal carcere, intravede in quell’apprendistato una funzione formativa e costitutiva del pensiero gramsciano. Ne posto qui gran parte. Con una titolazione mia, per mia comodità. (S.L.L.)
È d'obbligo, volendo riflettere oggi sull'attività di Gramsci come critico teatrale, ripartire da quel piccolo gruppo di interventi polemici del 1917, in cui egli protestava contro «il trust dei fratelli Chiarella», a Torino, contro «l'autocrazia del capitale monopolizzato», e insomma contro quell'«industria teatrale» che doveva essere denunciata come responsabile «dell'abbassamento del livello estetico» nel mondo dello spettacolo. «Torino è diventata una fiera», scriveva Gramsci, si è trasformata nel regno di Barnum, e vi celebrano i loro trionfi esclusivi il varietà e l'operetta, i «vaudevilles» e i «fenomeni viventi», mentre «le grandi compagnie si dissolvono» e «gli attori sono costretti per vivere a dedicarsi al cinematografo».
Né cinematografo né letteratura
Occorre ricordare che, quasi un anno prima, nell'agosto del '16, Gramsci aveva dedicato un articolo rilevante al tema «teatro e cinematografo», dove la concorrenza tra le due industrie, quella del palcoscenico e quella dello schermo («si dice che il cinematografo sta ammazzando il teatro»), era salutata come benefica, se almeno si voglia credere a «una funzione artistica del teatro», poiché destinata a depurarlo dal compito improprio e inferiore di «pura e semplice distrazione visiva», di «bottega di paccottiglia a buon mercato». L'industria cinematografica, in altri termini, fungeva, nella polemica gramsciana, da potenziale liberatrice dell'involgarimento della scena industrializzata («gli spettacoli teatrali soliti non sono che cinematografie»), in modi che ci inducono a pensare, credo inevitabilmente, e con ben poche correzioni, a certi momenti, a noi tanto più prossimi, del dibattito intorno all'industria televisiva.
Il cinematografo è assunto comunque, presso Gramsci, non come campo estetico, ma come spazio emblematico governato dal principio della semplice «curiosità visiva», industrialmente gestita. E Gramsci può dunque scrivere, rigidamente: «D'Annunzio, Bernstein, Bataille avranno sempre maggior successo al cinematografo; la smorfia, il contorcimento fisico, trovano nel film materia più adatta alla loro espressione». Che è poi uno dei fronti, su cui egli impegna la propria battaglia culturale. Opposto, e complementare, è quello di un teatro non letterario, per il quale egli si impegna assiduamente, così da augurarsi, nel medesimo contesto, che «le inutili, noiose, insincere tirate retoriche» abbiano presto a ritornare a «essere letteratura», e cattiva letteratura, «morta e seppellita nei libri e nelle biblioteche».
Contro il teatro industrialmente degradato alle sue dimensioni inferiori, e per così dire cinematografizzato, e contro il teatro oratoriamente libresco, Gramsci rivendica, per il palcoscenico, e questa egli sente come la sua vera missione teatrale, una insostituibile funzione culturale e morale, come concreta esperienza sociale, incarnata in parola e in gesto, attraverso il corpo presente dell'attore, in un atto di comunicazione che è dotato di una sua piena responsabilità ideologica e civile, con una sua assoluta rilevanza, finalmente, politica.
Il teatro e la “miseria italiana”
È quel Gramsci del '17, prima evocato, che scrive, dunque: «Il teatro ha una grande importanza sociale: noi ci preoccupiamo della degenerazione di cui è minacciato per opera degli industriali, e vorremmo reagire, per quanto ci è possible, a essa. C'è un gran pubblico che vuole andare a teatro: l'industria lo sta lentamente abituando a preferire lo spettacolo inferiore, indecoroso, a quello che rappresenta una necessità buona dello spirito». Ed è in questa «necessità» del teatro, il nucleo forte della riflessione gramsciana: «non è vero che il pubblico diserti i teatri; abbiamo visto dei teatri, vuoti per una lunga serie di rappresentazioni, riempirsi, affollarsi all'improvviso per una serata straordinaria in cui si esumava un capolavoro, o anche più modestamente un'opera tipica di una moda passata, ma che avesse un suo particolare cachet». E con questa polemica contro gli «industriali» dell'«industria teatrale», Gramsci poneva le basi di quella tematica, tanto più ampia e più complessa che si svilupperà nei Quaderni, come problema di una cultura «nazionale» e «popolare».
Il teatro è il luogo in cui Gramsci primariamente verifica, — come fenomeno di cultura le cui perversioni sono perfettamente individuabili e denunciabili nelle loro crude ragioni economiche, e insieme come perverso sbocco di una lunga tradizione di classe, esito ultimo e tangibile della storia di una specifica miseria italiana — verifica e denuncia, una debolezza civile, un guasto sociale, che soltanto una «riforma» radicale potrebbe risanare alle radici. Una «riforma», dirà più tardi, «intellettuale e morale». Perché non si tratta di una debolezza, di un guasto marginali. In causa, lo sappiamo, è quella «necessità buona dello spirito» che il teatro rivela e incarna, per la sua evidenza comunicativa e pubblica, meglio di qualunque altra forma di attività artistica e culturale.
Nel «nesso di problemi» che, sulla metà degli anni Trenta, aprirà le note gramsciane sulla «letteratura popolare», saranno subito accostate, sintomaticamente, come questioni primarie, quella «perché la letteratura italiana non è popolare in Italia», di ascendenza bonghiana, e quella «se esiste un teatro italiano», replicando un interrogativo sollevato da Ferdinando Martini, e collegandolo con il problema della «maggiore o minore vitalità del teatro dialettale e di quello in lingua». Che sono i temi che ricorrono già, quanto al teatro, espliciti o latenti, con metodica insistenza, per tutto l'arco delle cronache giovanili.
Donne proletarie e cocottes potenziali
È comunque a partire da quel preciso suo impegno di lotta contro ogni degradazione confusiva, e contro ogni degradante confusione, che si svela appieno il nucleo profondo di verità che è depositato, in modi di sottile giuoco paradossale, nel notissimo e quasi proverbiale Elogio della pochade, che risale al gennaio 1916. Alla ingannevole serietà, nel teatro come nella vita, alle «truffe dell'arte seria», Gramsci proclama di preferire «l'impudenza sfacciata, la monelleria più scrosciante di allegria, anche l'abiezione che non ha vergogna di se stessa e si mostra trionfante alla luce del sole». Un «bagno di fango» è almeno salutare contro il «reumatismo della logica». E la «pochade» può riuscire, se non altro, igienica per i nervi. E poi, non va dimenticato. Gramsci sta pure optando per Feydeau, contro i Bataille e i Sardou.
Ma la scelta di fondo vuole essere assai più radicale, poiché l'industria del divertimento può vantare, per sé, una propria fredda legittimità industriale, appunto, una sua cinica forza affaristica, che lealmente si dichiara e si confessa. Ma l'industria culturale, l'industria teatrale, è puro inganno, è ipocrita manipolazione. La «pochade», allora, scopre infine, con candida impudicizia, il miserabile segreto che la finzione seriosa del repertorio borghese si sforza di disonestamente dissimulare, e mette a nudo quella sostanza fieristica e barnumistica che oramai divora, sempre più insidiosa e maligna, come un cancro inarrestabile, l'universo della scena. E per questo riguardo, ormai, non resterebbe altro da fare, come si è già accennato, se non aggiornare la diagnosi gramsciana, se «gli spettacoli teatrali soliti» sono oggi televisionerie. E se, per toccare appena un altro punto, quei disinvolti riciclaggi dei classici in funzione del primattorismo esibizionistico alla Ruggeri, che riduceva a pretesti narcisistici qualunque copione, oggi possiamo vederli perpetrati, quando non ancora, semplicemente, in nome dell'interprete che si impone come «unico», a dominare la scena, in nome dell'anche più arbitraria e interessata egemonia registica.
Ma riaccostarsi al Gramsci cronista teatrale, conviene rilevarlo, ha soprattutto senso se non si limita il riesame alla sua pratica di recensore, per gli anni che vanno dal '16 al '20, ma se si punta, fondamentalmente, sopra il ripensamento che avviene, maturo, nei Quaderni, a distanza, di giudizi e di temi che sono affiorati sparsamente ma coerentemente dalle occasioni giornalistiche. Penso, per fare un unico esempio, a quelle riflessioni del Quaderno 21, quando egli si interroga sulle corrispondenze che possono ritrovarsi, «nel teatro e oggi nel cinematografo», con «alcuni tipi di romanzo popolare», e dove si osserva che «tutta una serie di drammaturghi, di grande valore letterario, possono piacere moltissimo anche al pubblico popolare». Ebbene, si esamini quanto Gramsci scriveva, nel marzo del '17, in La morale e il costume, a proposito di Casa di bambola di Ibsen, interpretata da Emma Gramatica, e lo si raffronti con le note sui Diversi tipi di romanzo popolare. Il Gramsci cronista denunciava la fondamentale sordità del pubblico, la sua sostanziale incomprensione del dramma di Nora: «L'unica forma di liberazione femminile che è consentito comprendere al nostro costume, è quella donna che diventa cocotte. La pochade è davvero l'unica azione drammatica femminile che il nostro costume comprenda; il raggiungimento della libertà fisiologica e sessuale. Non si esce fuori dal circolo morto dei nervi, dei muscoli e dell'epidermide sensibile». Soltanto le «donne proletarie» sarebbero state in grado di intendere che Nora è una «sorella spirituale», e non quelle «cocottes potenziali», presenti in sala, che non sanno uscire dai limiti stretti del loro «costume di classe».
Nel Gramsci che rimedita in carcere, questo motivo civile e morale è ripreso all'interno di un più largo quadro teorico e analitico, come problema della «profonda risonanza» che un grande testo può suscitare nella «psicologia popolare». Il dramma di Ibsen è assunto a esempio di quanto debba propriamente intendersi come «teatro d'idee», come «rappresentazione di passioni legate ai costumi», con una catarsi «progressiva» che incarni la visione «della parte più progredita intellettualmente e moralmente di una società», che esprima «lo sviluppo storico immanente negli stessi costumi esistenti». Un «teatro d'idee» non è infatti un teatro «a tesi», non si risolve in un «discorso di propaganda», ma si cala, deve calarsi concretamente «nel mondo reale», raffigurandolo «con tutte le sue esigenze contraddittorie», innalzandosi sopra i «sentimenti assorbiti solo dai libri». Dove, non a caso, torna a comporsi, a distanza, quel doppio rifiuto che conosciamo, della degradazione dell'industria culturale e della insincera retorica letteraria, del fieristico e del libresco, in nome di un'idea dialettica del teatro: di un teatro dialettico.
Pirandello l’ardito
È questa strategia culturale che spiega, in Gramsci, il tormentato e complesso contegno dinanzi al nuovo teatro italiano dell'epoca, il suo rapporto difficile e sofferto nei confronti del grottesco, e soprattutto poi di Pirandello. Qui metteremo l'accento sopra due pagine tra loro lontane, nel tempo, e che permettono subito di misurare, in prospettiva, la fondamentale continuità del problema. Il giudizio critico sul teatro pirandelliano è raccolto con forza, presso il Gramsci in platea, nella recensione al Piacere dell'onestà, dove meglio che in altre occasioni si pone in luce il contributo decisivo di rinnovamento e di sovvertimento che quell’ "ardito" del teatro» ha recato con i propri testi: «Le sue commedie sono tante bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori e producono crolli di banalità, rovine di sedimenti del pensiero. Luigi Pirandello ha il merito grandissimo di far, per lo meno, balenare delle immagini di vita che escono fuori dagli schemi soliti della tradizione, non possono essere imitate, non possono determinare il cliché alla moda. C'è nella sue commedie uno sforzo di pensiero astratto che tende a concretarsi sempre in rappresentazione, e quando riesce, dà frutti insoliti nel teatro italiano, d'una plasticità e d'una evidenza fantastica mirabile».
Ma il senso di questo riconoscimento, e delle riserve che altrove nettamente emergono, si afferra poi appieno in quel passo del Quaderno 23, dove, prolungando alcune considerazioni su Capuana drammaturgo in dialetto e in lingua, Gramsci può ormai riflettere sul modo in cui Pirandello «ha acquistato una fisionomia culturale cosmopolitica, cioè è diventato italiano e nazionale in quanto si è completamente sprovincializzato ed europeizzato».
E qui non soltanto tornano in giuoco le categorie mature del «nazionale» e del «popolare», e in forma ricca e problematica, ma si pone, con simile prospettiva allargata, la questione della «nazionalizzazione del patrimonio linguistico», particolarmente urgente per la creazione di un vero «dialogo teatrale», e insomma per la vitalità autentica di un teatro italiano. Scrive Gramsci: «Dal palcoscenico il dialogo deve suscitare immagini viventi, con tutta la loro concretezza storica di espressione; invece suggerisce, troppo spesso, immagini libresche, sentimenti mutilati dall'incomprensione della lingua e delle sue sfumature». Il nostro teatro non è soltanto in cerca di personaggi e di autori. È in cerca di lingua drammatica. È in cerca di una lingua, tout court. E occorre nazionalizzare l'italiano.
Della «pochade», insomma, si può giungere, con un sottile e pure tranquillo paradosso, a tessere un caldo encomio. Ma dall'«italiano letterario», che librescamente ha paralizzato le nostre scene, non può ricavarsi nemmeno un marginale epigramma. Si deve passare anzi gravemente, direttamente, al tema ultimo della «riforma intellettuale e morale», alla nazionalizzazione e popolarizzazione della cultura. È a questa riforma civile che Gramsci approda, nel proprio itinerario, al di là di quella riforma teatrale, che pure è stata, per giusta sorte, il primo terreno di una concreta verifica intellettuale e sociale. La missione teatrale di Gramsci fu un momento necessario e costitutivo, e destinato a essere immediatamente, della sua più ampia missione politica.