28.2.13

La Bastiglia della Scienza. Prima durante e dopo (di Stefano De Rosa)

Lavoisier
Nonostante la presenza nella Rivoluzione francese di molti illustri scienziati, i rapporti dei Giacobini con la scienza furono improntati a ostilità. Richiamandosi alla filosofia di Jean Jacques Rousseau, essi consideravano i membri delle istituzioni scientifiche fondate dai re di Francia solo dei cortigiani privilegiati. La scienza, ai loro occhi, era una nuova forma di aristocrazia e l'eccellenza del genio scientifico una sorta di crimine contro gli ideali dell'eguaglianza; il tecnicismo scientifico era un velo ingiustificato interposto fra il popolo e la verità. L'immagine giacobina della scienza identificava quest'ultima con una subcultura aristocratica che continuava ingiustamente ad esistere in una società democratica e egualitaria.
Il rapporto intensamente conflittuale fra gicobinismo e spirito scientifico è stato uno dei punti di maggior interesse del discorso introduttivo di Paolo Rossi, presidente del Centro fiorentino di storia e filosofia della scienza, al convegno su La Rivoluzione francese e la scienza svoltosi a Firenze, presso l'Istituto Francese, il 22 e 23 maggio…
E' noto che i Lumi avevano favorito la crescita del sapere scientifico: Coulomb nei suoi fondamentali esperimenti sull'elettricità e Lavoisier, nei suoi attacchi all'antica teoria del flogisto e nell'enunciato di una nuova teoria del calore, avevano ricevuto uno stimolo preciso da una società ansiosa di rinnovamento. Si erano dilatati, come mai prima nel passato, i confini della fruizione sociale della scienza. Artigiani, insegnanti, professionisti, borghesi di buone letture, erano diventati espressione concreta di un'attenzione per il sapere da parte di nuovi soggetti sociali, come Galileo aveva preconizzato nel Salviati e nel Sagredo del Dialogo. Accanto al loro lavoro di ricerca gli scienziati avevano il pugnace gruppo dei philosophes. Come hanno ricordato Corsi, Bottazzini e Galluzzi esisteva un continuo travaso fra scoperte scientifiche e adeguamento del sapere filosofico. D'Alembert, in particolare, si assume il compito di dar vita a una storiografia della scienza i cui quadri fossero aggiornati ai tempi…
Il convegno ha messo in luce anche il modo in cui la Rivoluzione ordinò, materialmente, il mondo della ricerca scientifica.
Citando D'Alembert, Robespierre osservava che, pur avendo combattuto memorabili battaglie contro il clero, aveva pur sempre rinsaldato il potere del re, e le benemerenze acquistate durante l’Ancien Régime non potevano essere considerate valide nelle mutate condizioni. Si capisce bene pertanto come solo dopo il Termidoro e la caduta di Robespierre fu istituita una serie di grandi strutture scientifiche ed educative.
L'Institut de France, che ne era il culmine, fu fondato nel 1795, come 1'Ecole Normale e l’Ecole polytechnique. Ciò che cambiò radicalmente, e al convegno lo ha messo in luce Roger Hahn, fu la situazione degli scienziati. La ricerca si configurò, nelle nuove strutture educative e scientifiche, come una professione e un impiego a tempi pieno e retribuito al quale si accede dopo un periodo di formazione. All'Ecole polytechnique si entrava per concorso. Il curriculum aveva al centro l'insegnamento della matematica, seguito da quelli di fisica e di chimica. Agli scopi più strettamente professionali provvedevano, al termine del ciclo di studi, e dopo un finale, le écoles de application o di servizio pubblico dedicate ai ponti e alle strade, alle miniere, alla geografia, al genio militare, all'artiglieria, all'ingegneria navale. In questo senso mutò la domanda culturale rivolta alle Accademie.
Robert Fox, che ha studiato l'attività scientifica svolta dalle Accademie negli ultimi cinque anni dell'Ancien Régime e nei primi cinque successivi alla rivoluzione, ha osservato un progressivo mutare di indirizzi, un irrobustimento della spinta alla specializzazione del sapere. Fa eccezione solo la mirabile Accademia Linneiana di Bordeaux, isola di attento studio, impermeabile agli avvenimenti storici. Con Napoleone gli scienziati furono utilizzati per scopi politici e militari.
Il patrocinio offerto da Napoleone alla scienza fu oltremodo generoso. Mentre il regime napoleonico evolveva verso forme di autocrazia, la relativa indipendenza personale dell'uomo di scienza venne progressivamente ridotta. Quando, nel 1803, Napoleone impose una ristrutturazione all'Institut de France, se ne servì come di una copertura per ciò che veramente lo interessava: l'eliminazione della classe di scienze morali e politiche ove si annidavano gli ideologues, che erano i suoi critici più aspri e irriducibili.

Il ritaglio dell’articolo del “manifesto”, da cui ho desunto questo stralcio, è senza data, ma – come facilmente si desume – risale agli ultimi giorni del maggio 1989 o ai primi del mese successivo. (S.L.L.)

Robespierre il moderato e Marat l'estremista

Nel 1989 uscirono nella pregiata collana Sellerio "La memoria", a quel tempo diretta da Leonardo Sciascia, i ricordi di Charlotte Robespierre (1760 - 1834), sorella minore di Maximilien, l'Incorruttibile, uno dei più esecrati protagonisti della Rivoluzione Francese, esponente principe del giacobinismo rivoluzionario. Il libro è centrato sulle figure dei due fratelli Robespierre, Maximilian e Augustin, entrambi ghigliottinati insieme a Saint-Just il 28 luglio 1994, in seguito al colpo di stato del Termidoro.
Riprendo qui un brano sui rapporti tra il più celebre Robespierre e Marat, un altro dei capi rivoluzionari, scienziato e giornalista di vaglia, morto cinquantenne nella sua vasca da bagno per le pugnalate inferte da Carlotta Corday. (S.L.L.)
Spesso ho visto il nome di mio fratello associato a quello di Marat. E come quando si affiancano i ritratti di Voltaire e di Rousseau, quasi che i due grandi scrittori, in vita, fossero stati amici, mentre in realtà non si potevano soffrire. Non intendo sminuire i meriti di Marat né mettere in discussione la purezza della sua dedizione alla causa o delle sue intenzioni. Qualcuno ha osato dire che era venduto allo straniero, ma lo si è detto persino di mio fratello. Il campo dell'assurdo è vasto e senza limiti. Non si è raccontato che Robespierre aspirava alla mano della figlia di Luigi XVI?
Tornando a Marat, nego che sia stato un agente dello straniero come si è voluto. Marat era altamente cosciente delle infamie dell'ancien régime e della miseria del popolo; la sua fervida immaginazione e il suo temperamento focoso facevano di lui un rivoluzionario ardente, spesso addirittura imprudente, ma le sue intenzioni, ripeto, erano buone.
Mio fratello ne disapprovava le esagerazioni, gli eccessi, e come ebbe adirmi spesso, riteneva che la via che aveva scelto fosse più dannosa che utile alla rivoluzione. Un giorno Marat venne a trovare mio fratello. La visita ci sorprese perché di solito i due non avevano rapporti tra loro. Parlarono dapprima della situazione in generale, poi della piega che prendeva la rivoluzione; alla fine, Marat affrontò il tema del rigore rivoluzionario e si lamentò della moderazione e dell'eccessiva indulgenza del governo. «Tu», disse a mio fratello, «sei forse la persona che stimo di più al mondo, ma la mia stima sarebbe ancora maggiore se fossi meno moderato con gli aristocratici». «Rivolgo a te il rimprovero opposto», replicò mio fratello; «facendo cadere delle teste tu comprometti la rivoluzione, la fai odiare. Il patibolo è un mezzo terribile e sempre funesto; va usato raramente e solo nei casi gravi in cui la patria corre verso la catastrofe». «Ti compiango», disse allora Marat, «non sei alla mia altezza». «Non ci tengo ad essere alla tua altezza», replicò Robespierre. «Non mi capisci», disse allora Marat, «non potremo mai procedere insieme». «E' possibile», rispose Robespierre: «Tanto meglio». «Rimpiango che non ci si possa intendere», soggiunse Marat, «perché tu sei l'uomo più puro della Convenzione» …

da Charlotte Robespierre, Memorie dei miei fratelli, Sellerio, 1989

Gramsci. Eretico e comunista (di Rossana Rossanda)

Nel gennaio 1991, alla vigilia di un congresso che avrebbe sancito lo scioglimento del Pci e la coagulazione di un nuovo soggetto politico, il Pds, non classista e meno che mai rivoluzionario, Rossanda coglie l’occasione del centenario della nascita di Antonio Gramsci per individuare i nodi della sua ricerca di militante rivoluzionario e le lezioni ancora attuali. Un testo di grande concentrazione e di grande forza di persuasione. (S.L.L.) 
Non è senza imbarazzo che il Partito comunista italiano celebra l'anniversario di Antonio Gramsci alle soglie di quel XX congresso nel quale cambierà nome, simbolo e progetto politico. Paradossalmente è la natura decisamente antistaliniana di Gramsci a farne un personaggio non piegabile alle ragioni della «svolta» di Occhetto. Egli dimostra infatti come nessun altro che si può essere comunisti e non totalitari, comunisti e non giacobini, comunisti e non legati a uno schema impoverente di lettura della realtà, comunisti e sostenitori o portatori di un radicale dissenso.
Figura scomoda dunque per chi sostiene che comunismo e stalinismo sono la stessa cosa. O leninismo o trotzkismo. Gramsci non si può dire del tutto leninista («La rivoluzione contro il capitale») e per nulla trotzkista; nel 1926 si oppose alla condanna di Trotzki non perché ne condividesse le posizioni, ma per la rottura che Stalin induceva nel gruppo dirigente bolscevico mentre si spegneva ogni prospettiva di rivoluzione in Europa. A lui un partito comunista che volesse seriamente ripensare il suo metodo e trarre categorie di analisi non riducibili alla vulgata marxista, poteva davvero riferirsi: ma per restare comunista, non per cessare di esserlo.
E' questo che rende Gramsci non fungibile a qualsiasi uso politico. La duttilità dell'intelligenza si univa a una fermezza su alcuni principi, che pagò a costi altissimi: l'indisciplina del 1926, ce la diceva lunga su come egli concepisse un partito, fu deflagrante, Togliatti gli rispose aspramente, egli replicò non meno aspramente, e l'Internazionale spedì Humbert Droz a Genova per ricondurre i comunisti italiani sulla retta via. Non dovette penare molto: Gramsci non poté partecipare alla riunione perché era stato arrestato a Milano due giorni prima e non avrebbe più rivisto la libertà. Né avrebbe potuto mai più discutere con i compagni quel giudizio e la situazione che gliene derivava. Tanto da poter sospettare tormentosamente che, per quel dissenso, il Partito poco ormai si interessasse a lui, se addirittura non aveva contribuito - con la famosa lettera di Grieco - a «incastrarlo» al processo.
Il carcerato Gramsci è un comunista esente - e a che prezzo - da ogni coinvolgimento con lo stalinismo. E a Turi, un anno, dopo ne avrebbe dato una seconda prova: non accettò la «svolta» del 1929, la linea «classe contro classe» dell'Ic, con la conseguente individuazione del nemico principale nelle socialdemocrazie. Era ben vero che queste, spaccatesi sui crediti di guerra, avrebbero governato - come a Weimar - nel modo più rovinoso, ma stavano cadendo anch'esse e il fascismo cresceva. Rompere con gli interessi sociali e politici che esso ledeva, anche se non coincidevano con la classe operaia e il suo partito, era non solo scegliere l'isolamento ma non capire il mutare degli scenari storici.
Contestando la «svolta» Gramsci, diventò sospetto ai compagni detenuti, e da allora la sua solitudine fu immensa, e in essa doveva morire nell'aprile del 1937. Alla notizia del decesso, Togliatti annunciò da Mosca: si è spento il fondatore del nostro Partito.
Ma Gramsci morente non aveva certo immaginato che così sarebbe stato chiamato e da allora in poi sempre, fino a ieri. Lontani erano i giorni dell'Ordine Nuovo, che aveva promosso con Togliatti, Terracini e altri nella Torino dell'immediato dopoguerra ed era stato il nucleo della scissione consumatasi nel 1921 a Livorno, oltre che l'anima della battaglia per i «consigli di fabbrica». I «consigli» erano stati presto sconfitti e nel 1922 la marcia su Roma, nel 1924 le leggi eccezionali, oltre che rendere difficilissima la vita del giovane Partito e del suo gruppo di deputati, fra i quali appunto l'onorevole Gramsci - «un cervello da fermare», aveva detto Mussolini - obbligavano a riflettere sulla sconfitta delle rivoluzioni in Europa.
Nel carcere fu per Gramsci il problema centrale. All'opposto sia dell'irrigidimento francese (per tradimento o viltà) o della risposta socialdemocratica oggi fatta propria dalla maggioranza del Pei («perché le rivoluzioni sono un'ubbia»), Gramsci andò a una riflessione sulle specificità delle pur fragili democrazie occidentali. Fu il solo dirigente comunista che rivisitasse lo schema marxista della divisione in classi. Lo considerava la chiave fondamentale di intellezione dei grandi fenomeni sociali: grazie ad esso vide, differentemente dai meridionalisti  democratici, l'origine della arretratezza del mezzogiorno nel fungere da riserva di manodopera per l'industria crescente nel Nord. Ma non gli bastava una griglia interpretativa che oggi diremmo «economicista» per capire che cos'era l'Italia, e perché gli operai del Nord fossero rimasti isolati nel dopoguerra e un appoggio di massa fosse andato alla reazione di destra.
Tanto più che, diversamente dai socialisti (Mondolfo), Gramsci non si illuse che fosse un fenomeno transitorio. Ma perché era avvenuto? Come si formavano, nelle classi e accanto ad esse, i «ceti» e i «ruoli» sociali, e prima di tutto, decisivi in occidente, gli intellettuali, cerniera di opinione, elaboratori e trasmettitori delle idee della classe dominante, o dell'ideologia rivoluzionaria quando si facevano «organici» ad essa? E quali relazioni specifiche si creavano nella sfera politica, tanto da rendere impossibile di considerare lo stato moderno un semplice «braccio armato» della borghesia?
Da questa analisi Gramsci avrebbe derivato quel concetto di «autonomia del politico», sviluppato nei Quaderni del carcere che nel 1948, pubblicati dall'editore Einaudi, apparvero l'esatto opposto dello schematismo zdanoviano (e infatti gli altri partiti comunisti non li pubblicarono). Dallo stesso ragionamento veniva l'idea di «blocco storico» - nel senso di blocco delle forze che volta a volta in una società erano interessate al mutamento. Al Congresso di Lione «il blocco storico degli operai, degli intellettuali e dei contadini» sarebbe diventata la tesi ufficiale; ma si trattava, a Lione, del «blocco storico rivoluzionario». Durante la «svolta», da Turi, egli lo vide invece come schieramento che poteva portare avanti contro il fascismo la parola d'ordine della «Assemblea costituente» delle forze popolari democratiche interessate alla sua caduta. E la tenne fino alla morte, a lungo solo e fino in fondo senza sapere se ci sarebbe stato posto per lui fra i compagni a Mosca quando finalmente fosse uscito di galera. Lo sperò fino quasi all'ultimo, poi sentì che era finita. Morì poco prima di uscire: neppur sapeva bene dove andare.
Non sappiamo se nel VII congresso dell'Internazionale del 1935 vide nella linea dei «fronti popolari» antifasciste una tesi simile alla sua. Per molti versi non lo era, ma certo gli era più simile che non la linea «classe contro classe». E sicuramente per questo Togliatti poteva definirlo nel 1937 «fondatore del nostro partito», a questo si richiamò la resistenza comunista e si ispirò «il partito nuovo» dopo la Liberazione. Un Gramsci «depurato» dalla fase consiliare, messo in ombra nella contesa con la IC del 1926, analista della società italiana, dialogico nel metodo, d'una grande tempra morale ma anche umana - un comunista colto, non stalinista, sofferente - fu il riferimento culturale della sinistra italiana dopo il 1948. Le Lettere del carcere non solo sfondarono, assieme all'uscita dei «Quaderni», una certa vulgata comunista ma rimodellano il resto della cultura cattolica e delle terze forze.
Antischematico, antistaliniano, antieconomicista, dunque: una posizione non solo in bilico sull'eresia, ma utilizzata, attraverso diverse e opposte riduzioni della sua complessità, nella lotta politica interna. Nel 1956 il dissenso comunista assunse Gramsci come bandiera antigiacobina. Ma nel I Convegno gramsciano del 1958, Togliatti poteva opporre a questa lettura, basata anche su una riscoperta del Gramsci consiliare, il Gramsci del Machiavelli e del Moderno Principe, una riconiugazione originale del tema «Leninismo e potere». Nei primi anni 60, fu sotto il segno di Gramsci che rinacque nella sinistra comunista il tema della «rivoluzione italiana», ma, morto Togliatti, il nuovo gruppo dirigente ne sanzionò la sconfitta affidando a Bobbio e Garin le relazioni del II Convegno gramsciano nel 1967, perché ne fossero rilevate alcune dipendenze crociane e riletto l'antigiacobinismo in chiave democraticista.
E tuttavia quando ebbe luogo - era il 1976 - l'ultima vera discussione fra comunisti e socialisti sul mensile del Psi, “Mondo Operaio”, Norberto Bobbio ebbe ragione di affermare che se Gramsci aveva parlato di «egemonia» del Partito sulla società invece che di «dittatura del proletariato» (fondando la leadership del Partito nella capacità di comprendere e orientare, non nel comando), per lui il Partito restava «lo stato in nuce», lo stato rivoluzionato nel suo germe, il «moderno principe» d'una società in trasformazione: questo punto, di assoluta originalità rispetto al «come» non solo della rivoluzione e dello stato, ma della politica, toccando la questione direzione/consenso, spontaneità/norma, «forma» e «dissoluzione» dei soggetti portanti, fu allora lasciato cadere né ripreso dalla discussione successiva.
Così Gramsci fu poco amato dal «revisionismo» socialista in nome d'una democrazia delle regole e delle alternanze, ma anche dalle «nuove sinistre», che nell'uso che ne aveva fatto il Pei vedevano, e non a torto, un annacquamento della contraddizione di classe in nome di priorità tutte «politiche» e a volte «politiciste».
E oggi? Quali che siano stati i conflitti, a lungo celati, fra Gramsci e il Pci o fra Gramsci e Togliatti - per quel che si può leggere fra le righe delle lettere dal carcere o di quelle dell'economista Piero Sraffa e della cognata Tatiana Schucht, che furono il tramite tra lui e il Partito - è difficile separare Gramsci dal comunismo italiano e anche da Togliatti, se non nell'accento morale, nella mancanza assoluta di ogni distinzione fra etica e politica. Ma soprattutto dalla idea della rivoluzione in occidente. Se egli la vide in forme estremamente più complesse della vulgata marxista, essa fu - assieme all'abbattimento del fascismo - l'asse e l'oggetto della sua vita e della sua riflessione. E poteva essere anche la chiave d'una lettura dei processi dell'est che uscisse dalla tenaglia fra silenzio e strappi, ambedue non argomentati, del Pei dell'ultimo ventennio, l'arma teorica con la quale - solo fra i partiti comunisti - il Pei poteva affrontare la questione dei socialismi reali ritrovando in sé più che il germe d'un liberatorio ricominciamento.
Non è andata così. Ma nello stesso tempo, Antonio Gramsci non si può portare nell'Internazionale Socialista - né al cambiamento del nome del Partito. Il Pds, come si chiamerà fra qualche settimana, non può che rendergli omaggio ma collocarlo negli archivi della storia.

Case pignorate. Paul Auster a Napoli (di Adriana Pollice)

Nel sito del "manifesto", datata 7 novembre 2011, l'intervista che segue, in occasione di una presenza a Napoli di Paul Auster, l'autore di una splendida Trilogio di New York. (S.L.L.)
Paul Auster
Tra le carte di Leopardi in Biblioteca Nazionale e la visita al carcere di Secondigliano, un intero week end in città per lo scrittore newyorkese Paul Auster che ha ritirato il Premio Napoli, sezione “Letterature straniere”, per il suo ultimo romanzo Sunset Park (Einaudi).
“Sono stato in cella ma mai in prigione – racconta -. Questa esperienza avrà un grande impatto sulla mia vita, ci rifletterò per molto tempo. A pensarci bene tutto il mio lavoro è concentrato su personaggi che vivono in spazi ristretti”.
Un segno forte lo ha lasciato anche Leopardi: autore che Auster ha letto in più traduzioni, ma anche in originale, grazie agli studi al college e allo zio, Allen Mandelbaum, che lo ha introdotto alla poesia e alla cultura italiana: “Avevo 16, 17 anni e lui leggeva tutto ciò che scrivevo, giudicando con severità. Aveva passato dodici anni in Italia e ne aveva approfittato per tradurre Quasimodo e Ungaretti, che poi ho incontrato proprio con mio zio a New York, all’hotel Carlyle. In seguito, tornato in America, tradusse anche la Divina Commedia, le Metamorfosi, l’Odissea e l’Iliade”.
Leopardi ma anche Italo Svevo, per cui nutre una tale passione da averne abbracciato la statua a Trieste, nel 2009, in segno di affetto.
Sedici romanzi e quattro sceneggiature, ma il cinema per ora non è tra gli impegni: “Fare film indipendenti è diventato impossibile, siamo al collasso, non ci sono distributori se non per le pellicole da grandi incassi. L’ultima volta, quattro anni fa, avevamo così pochi soldi che abbiamo girato in Portogallo con quattro attori, alla fine ero distrutto”.
Gli Stati Uniti di Obama hanno sul tavolo ancora tutti i nodi dell’era Bush: “Non credo che uno scrittore debba impegnarsi necessariamente in politica. Alcuni dei più grandi non hanno mai avuto a che fare con la politica. E alcuni che invece facevano politica hanno lasciato libri bruttissimi. Piuttosto mi impegno a livello personale nelle campagna “Freedom to Write” per la libertà di parola di scrittori, saggisti e giornalisti. Ci sono casi famosi in Russia e in Cina ma è un grave problema anche in Messico, dove molti cronisti sono stati uccisi, e in molte altre parti del mondo”.
La realtà però irrompe nel racconto così il protagonista di Sunset Park si occupa di trashing out, cioè sgombera le casa pignorate, e intanto fotografa gli oggetti abbandonati dalla classe media travolta dalla crisi, fino a domandarsi “se valga la pena sperare in un futuro quando non c’è futuro”. “Obama è un politico di centro – spiega Auster – io sono più a sinistra, il problema è che tutte le sue riforme sono state respinte dalla destra. E’ troppo corretto, pulito. Lyndon Johnson ha ottenuto la legislazione sui diritti civili telefonando ai senatori e dicendo ‘vuoi che racconti alla stampa che vai a letto con i ragazzini?’ Se invece dici guardate nel fondo della vostra coscienza non funziona”. Sedici romanzi tutti scritti a mano e poi ricopiati su una macchina da scrivere usata: “L’unica cosa costante della mia vita. Per ora i nastri si trovano ancora a Brooklyn e quindi non c’è motivo di cambiare. Mi ero procurato un Pc per scrivere una sceneggiatura, perché era più semplice cambiare le battute, poi l’ho regalato a un mio amico poeta a corto di soldi. Avevo anche un telefono mobile ma non è che proprio lo volessi così quando mia figlia adolescente ha perso il suo terzo cellulare le ho dato il mio dicendo ‘è di tuo padre, mi raccomando…’. Non è che non usi internet o la tecnologia, è solo che se qualcuno vuole davvero contattarti trova sempre il modo di farlo”.
Il caso come motore della vita e la capacità di ascoltare i personaggi creati dalla penna di Auster: “E’ come se restassero vivi, intorno a me, e continuano tutti a parlarmi, è incredibile pensare che mi sopravviveranno”.

27.2.13

Palmiro Togliatti. Un patriota (di Luciano Canfora)

Nel 1992 – recuperata in archivi moscoviti - venne resa nota una lettera di Palmiro Togliatti a Vincenzo Bianco, funzionario dell’Internazionale Comunista, in cui si affrontavano tre temi: la probabile imminente invasione angloamericana dell’Italia, la questione delle frontiere italo-yugoslave da definire a guerra finita, il trattamento in Russia dei prigionieri italiani. Fu l’occasione di una dura polemica, specie sull’ultimo punto, contro il leader del Pci, accusato di insensibilità nazionale e di complicità con l’Urss di Stalin per le sofferenze subite e anche per le morti dei soldati italiani dell’armata d’invasione nei campi di prigionia dell’Urss. Il neonato Pds, il maggiore partito nato dall’eredità del Pci, cercò di sottrarsi alla pressione della stampa di destra e alla generalizzata richiesta di condanne e di autocritiche, accentuando la rottura con la tradizione rappresentata da Togliatti. E dire che il segretario del Pds, Achille Occhetto, alla morte di Togliatti nel 1964, in rappresentanza della Fgci aveva proclamato: “Compagno Togliatti, nel tuo nome l’Italia sarà socialista”. Sul “manifesto”, dopo la pubblicazione integrale della lettera, che fino ad allora era stata resa nota per brani, Luciano Canfora pubblicò questa brillante difesa del segretario comunista. (S.L.L.)

Per il testo della lettera vedi
La principale manipolazione di cui è stata fatta oggetto la lettera di Togliatti a Bianco del 15 febbraio '43 è consistita nell'estrapolarla dal suo contesto testuale e storico. Ora finalmente la conosciamo per intero ed è nota anche una delle lettere di Vincenzo Bianco cui essa risponde. (Credo che ce ne siano, o ce ne siano state altre, giacché la replica di Togliatti tratta
anche punti che Bianco non tocca). E possiamo finalmente capire, in primo luogo, che essa è profondamente unitaria e univocamente ispirata in modo lungimirante in tutte e tre le sue parti: quella sull'eventuale sbarco americano in Italia, quella sulla frontiera jugoslava e quella sui prigionieri dell'Armir. Il filo logico e motivo ispiratore è limpido e radicalmente antifascista e anti-imperialista.
1) Se ci saia l'invasione alleata dell'Italia «bisogna spiegare che non si tratta affatto di invasione, ma di aiuto che viene dato al popolo italiano per riconquistare la sua libertà».
2) «Noi siamo coi popoli della Jugoslavia contro Mussolini, cioè contro il governo italiano (…) sino alla partecipazione diretta del popolo italiano alla lotta armata contro le bande mussoliniane e contro l'esercito stesso». Onde ogni ridimensionamento delle conquiste territoriali operate dall'Italia nel '18 - se davvero si verificherà, a guerra finita - dovrà essere messo chiaramente sul conto della borghesia italiana, che, agevolando la disastrosa guerra mussoliniana, «avrà dimostrato anche in questo di essere una classe antinazionale».
3) I prigionieri. Qui Togliatti mette in chiaro ripetutamente che le perdite di vite umane si verificheranno eventualmente, nei campi di prigionia, a causa delle «condizioni oggettive»; lo ripete due volte: «in conseguenza delle dure condizioni di fatto», e ancora, alla fine, «nelle durezze oggettive». «Condizioni oggettive» per tutti: russi, prigionieri italiani, esuli politici (come lo stesso Togliatti). In Russia si muore di fame, si è allo stremo: in un paese distrutto dagli invasori e martoriato dalla guerriglia e dalla controffensiva il disagio materiale è estremo per tutti, dentro e fuori dei campi. Ma qui Togliatti soggiunge una considerazione in stretta sintonia con quanto detto prima: come l'invasione americana sarà benvenuta e sarà da considerarsi in realtà aiuto e liberazione, come la perdita di territori conquistati nel '18 dovrà risultare limpidamente frutto della politica irresponsabile del fascismo e delle classi che lo hanno sostenuto, così la tragedia dell'Armir - a somiglianza delle tragedie di Adua e di Dogali cinquant'anni prima - saranno la dolorosa medicina che farà ravvedere quei ceti, anche popolari, che hanno costituito la base di massa del fascismo e ne hanno approvato financo le aggressioni contro altri popoli, dall'Etiopia alla Francia alla Russia.
È il motivo che Togliatti svolge da Radio Mosca in discorsi notissimi da tanto tempo agli studiosi. Come quello del primo gennaio '43 (dunque di appena un mese precedente la lettera di cui oggi si discorre): «Colui che non lascerà Hitler a tempo, colui che non abbandonerà a tempo il bandito che lo trascina alla perdizione, sa ormai quale tragica catastrofe lo attende. Gli italiani già lo stanno provando. I popoli che non vogliono esser ridotti a un branco di schiavi in camicia nera sanno ormai che cosa debbono fare». Siamo al tornante decisivo della la guerra. Dopo Stalingrado. In Occidente si è prodotta, nel novembre '42, la prima grossa crepa nello schieramento nazifascista»:  l'ammiraglio Darlan, il più autorevole collaboratore di Pétain e suo «successore designato», si è consegnato, con la flotta francese, agli Alleati ad Algeri ed ha assunto il comando di quanto ancora restava dell'«impero» francese. Come risposta i nazisti rompono la finzione della Repubblica indipendente di Vichy e completano in un baleno l'occupazione dell'intera Francia metropolitana. E' l'inizio della Resistenza in grande stile. In questa situazione nuovamente in  movimento la principale preoccupazione e cura politica di Togliatti è che in Italia accada qualcosa di analogo, che dall'interno dell'Italia si sviluppi un moto di massa contro la guerra, che scardini dall'interno il regime fascista e salvi il paese dalla catastrofe.
Giustamente egli vede il colossale e criminale passo falso mussoliniano di mandare a morire in Urss centinaia di migliaia di giovani - in una guerra d'aggressione contro un paese che nessun motivo di contenzioso aveva o aveva avuto con l'Italia - l'inizio della fine del regime. I precedenti storici erano ovvi. Nel radio-discorso del 12 gennaio '43 rievoca il precedente napoleonico: «Napoleone organizzava una spedizione contro la Russia e trentamila italiani dovevano lasciare le loro ossa in un paese pieno di neve e di ghiaccio che non avevano mai visto né conosciuto».
Quello di Togliatti è dunque autentico «patriottismo», non già nel senso bieco, consono alla mentalità fascista che oggi rischia di tornare di moda con l'avallo dell'inquilino del Quirinale, ma nel senso più genuinamente progressista e internazionalista: «Quanto più largamente penetrerà nel popolo la convinzione che aggressione contro altri paesi significa rovina e morte per il proprio»: è questa la lungimirante premessa da cui muove, nel momento risolutivo del conflitto, l'antifascista Togliatti.

"Vasapacchiu". Un ricordo da Gela (S.L.L.)


Il Petrolchimico di Gela negli anni 70. Foto archivio l'Unità
Nel 1978 Rosario Crocetta, a quel tempo segretario della sezione PCI “Di Vittorio” di Gela, la sezione di fabbrica del petrolchimico, conduceva insieme ad Eleonora Privitera una trasmissione a RadioGela, la più seguita nella zona tra le “radio libere” appena nate. Io ero segretario di una delle sezioni territoriali, la “Togliatti”.
Fino a qualche tempo prima eravamo andati molto d’accordo: facevamo insieme un giornale dal titolo leninista “La nostra lotta”, di cui non conservo copie, ma che ricordo come ben fatto. Poi, nel 77, in pieno compromesso storico, lui si spostò verso posizioni libertarie, radicali, piene di tolleranza verso il movimento detto appunto “del Settantasette”, ferocemente ostile al Pci di Berlinguer. Tra l’altro, nella trasmissione di RadioGela, sposò la tesi della liberalizzazione delle droghe leggere, che a me, comunista ortodosso, sembrava sbagliata, almeno nella forma spericolata in cui la proponeva, cioè come diritto di libertà.
Intervenni rudemente per telefono e Rosario se l’attaccò al dito. Il programma imitava un po’ l’Alto Gradimento di Arbore e Boncompagni che al tempo andava tanto di moda: tra una telefonata e un disco si infilavano gli sproloqui di alcuni strani personaggi. Tra di essi fu inserito un “professor Lopesante”, il cui cognome si presentava come un evidente stravolgimento del mio e il cui tormentone era “ho fatto il Sessantotto, adesso faccio solo il Sessantanove”.
Amiche ed amici cui qualche tempo fa convivialmente raccontavo questa storia dei miei rapporti con il giovane Crocetta, oggi presidente della Regione siciliana, mi dicevano che non c’era niente di male in quella presa in giro: in fondo anche “fare il Sessantanove” non è cosa di cui vergognarsi e può dare soddisfazioni.
Io tuttavia – credo non a torto – a quel tempo leggevo nell’oscena boutade una accusa di appagamento, di imborghesimento: la figura del rivoluzionario in congedo e in ozio, esclusivamente dedito a piaceri privati, non mi garbava né punto né poco.
Oggi, a diversi decenni di distanza, m’è venuta una associazione di idee, che rende quel gioco di numeri e di parole ancora più insultante. Mi sono ricordato che allora, a Gela, una delle contumelie più umilianti era “vasapacchiu” (baciafiga), parola dall’evidente connotazione maschilista, forse un po’ mafiosa. Essa significava, in quella mentalità, il massimo dell’inettitudine, del servilismo e dell’abiezione: uno che si abbassava a rendere alla moglie, o a qualunque donna, quel servizio lì, non era considerato “uomo” e neanche “uminicchiu”, valeva ancor meno dei “quacquaraquà”.
Chissà se si dice ancora, a Gela, vasapacchiu     

Gianfranco Contini (di Massimo Raffaeli)

Quale fosse il lascito di Gianfranco Contini era già detto esemplarmente un mese dopo la scomparsa del maestro di Domodossola nel necrologio (più che un necrologio, oggi si direbbe un bilancio presago) firmato da Pier Vincenzo Mengaldo col titolo di Preliminari del dopo Contini («Paragone», 19, febbraio 1990, poi in La tradizione del Novecento. Terza serie, Einaudi ’91). Contini era Contini da oltre mezzo secolo, iscritto nel senso comune come stella fissa di una triplice costellazione che non tollerava accostamenti quanto alla dottrina (nel suo caso l’onniscienza nel campo della romanistica e dell’ecdotica), all’acume interpretativo capace di mobilitarsi con la più semplice escussione di un testo, infine a una scrittura che contraddiceva, quasi per felice colpa, la limpidezza degli assunti con le più deraglianti escursioni stilistiche.
Insomma Contini era il linguista che aveva dato saggi esemplari sull’antico francese, sul Petrarca e insieme sul dialetto di Varzo (minuscola enclave ossolana dove svernava da ragazzo con in genitori), come sarebbe stato presto l’interlocutore di Benveniste, di Jakobson e di Spitzer; era il filologo (allievo di Santorre Debenedetti e di Bédier nei pieni anni trenta, quelli del perfezionamento al Collège de France), l’editore giovanissimo delle Rime di Dante (1939), il grande imprenditore dei Poeti del Duecento (Ricciardi 1960), il teorico della cosiddetta variantistica in polemica, nel secondo dopoguerra, nientemeno con Benedetto Croce; egli era infine il compagno di via e il lettore primario (qualcuno ha detto un provvido suggeritore) di Montale e di Gadda come di una pletora di novecentisti (da Rebora e Boine a Pasolini, da Sinisgalli, Cecchi, Pierro a Pizzuto e decine di altri) cui riservava fin dai suoi vent’anni le attenzioni del critico militante che tuttora si legge nei volumi canonici, da Esercizi di lettura (1939, poi ’47 e ’74) a Varianti e altra linguistica (1970), fino alle raccolte terminali, alte procedure della meditazione e dell’affetto (per esempio Amicizie, Scheiwiller 1991) dove recupera la traccia del tempo trascorso eccellendo nell’arte del tombeau e cioè del ritratto in forma di necrologio.
Contini era dunque un prodigio concentrico di attitudini che nessuno aveva mai avuto in Italia prima di lui (tantomeno, per stare alla filologia romanza, un Pio Rajna o un Michele Barbi, impensabili da critici militanti) a eccezione ovviamente, nel campo delle arti figurative, ma con ben altra cautela nei riguardi dei contemporanei, di Roberto Longhi, il solo cui Contini, che gli fu amico e fedele studioso-antologista, abbia dato sempre l’impressione di guardare con un rispetto molto prossimo alla venerazione.
Fissandone il ritratto e rilevandone la natura di storico originale, come se la storiografia fosse in lui l’intersezione di linguistica/filologia/critica (sia pure da parte di uno storico nient’affatto evenemenziale e, al contrario, portato a segnare rapidi trapassi, luoghi aporetici e disgiunzioni insanabili: qui si pensi alla celebre opposizione di monolinguismo e plurilinguismo, «funzione Petrarca» e «funzione Dante» dedotte dal lungo periodo della letteratura nazionale), Mengaldo allora scriveva che lavorare dopo Contini equivaleva alla «impossibilità di formulare qualsiasi giudizio critico non solo senza la verifica di linguistica e filologia, ma senza il flusso nutritivo di queste, che è quanto dire senza il farsi sempre presente del testo nella sua materialità, spessore, storia», concludendone che, dopo avere riconosciuto a Contini il moltissimo che è di Contini, era inevitabile oramai attraversare Contini, come Montale aveva detto di Gozzano rispetto a D’Annunzio.
Quanto a ciò, nei vent’anni successivi non si è fatto tuttavia un passo avanti, perché Contini è rimasto più che altro un’auctoritas, persino un’icona, ma (a parte le pagine di alcuni suoi allievi e/o interlocutori storici, quali Dante Isella, Cesare Segre, lo stesso Mengaldo) la critica ha preferito eluderlo e aggirarne l’imponenza piuttosto che discuterlo, prima di andare da tutt’altra parte o da nessuna parte, limitandosi talora a mugugnare in un silenzio ipocrita (con la sola eccezione, fra i militanti più giovani, di Massimo Onofri in Ingrati maestri, Theoria 1995), pure se va detto che la filologia ha invece molto lavorato editandone alcuni carteggi (Gadda, Montale, Pasolini, Giulio Einaudi, Pizzuto, Luigi Russo, ora Aldo Capitini), recuperandone pagine disperse, come quelle relative alla partecipazione alla Repubblica dell’Ossola, nonché predisponendo strumenti essenziali come, a cura di Giancarlo Breschi, L’opera di Gianfranco Contini. Bibliografia degli scritti (Edizioni del Galluzzo, 2000).
L’occasione ora fornita dalle iniziative sorte per il centenario della nascita perciò sarebbe ottima. In attesa degli Atti del convegno tenutosi in dicembre tra Firenze e Pisa, Gianfranco Contini 1912-1990 (nel cui ricco parterre figuravano tra gli altri Luigi Blasucci, Luca Serianni, Franco Contorbia, Pietro Gibellini, Roberto Antonelli, Mario Mancini, Andrea Cortellessa, Paola Italia, Daniele Giglioli, Gloria Manghetti, Claudio Giunta e Margherita Ghilardi), vanno intanto segnalati tre volumi, usciti presso la SISMEL-Edizioni del Galluzzo: Gianfranco Contini. Una biografia per immagini a cura di Pietro Montorfani; Scartafacci di Contini (a cura di Claudia Borgia e Franco Zabagli); e, nella splendida curatela di Claudia Borgia, l’Inventario dell’Archivio di Gianfranco Contini (prefazione di Lino Leonardi, pp. XX-582, € 90,00), tutti editi col patrocinio della Fondazione Ezio Franceschini di Firenze che ne custodisce le carte dal 1997.
L’Inventario riordina un patrimonio straordinario censendo l’attività dello studioso (con le leggendarie schede autografe per le lezioni e i seminari a Friburgo, Firenze e Pisa, le stesure a macchina per i saggi e gli articoli), del conferenziere (negli anni trenta e quaranta furono veri e propri tour), del consulente ed editor (su tutti dell’amico Pizzuto, quasi un caso, quest’ultimo, di grafomania), del resistente e partigiano di Giustizia e Libertà (l’unica zona dell’archivio che Contini tenesse rigorosamente in ordine) e soprattutto di un epistolografo che annovera oltre duemila corrispondenti e conserva qualcosa come diecimila lettere…

alias – la talpa 24 febbraio 2013

La presa della Bastiglia (di Osvaldo Soriano)

Il brano è tratto da una più ampia rievocazione pubblicata sul “manifesto” del 14 luglio 1989, in occasione del secondo centenario dell’evento rivoluzionario. (S.L.L.)
La presa della Bastiglia in una stampa ottocentesca
La prigione era vuota, o quasi, e non oppose alcuna resistenza. Quando il carrettiere Tournay ed il bottegaio Pannetier - i primi a entrare da un ponte levatoio -, arrivarono alle celle, rimanevano solo sette prigionieri: quattro falsari di documenti, due pazzi e un libertino che si diceva discepolo di Sade. Tutti furono portati in trionfo e acclamati, e anche se i falsari alla prima occasione fuggirono, i pazzi e il libertino improvvisarono discorsi infiammati contro la tirannia e il dispotismo.
Il governatore del penitenziario, Monsieur de Launay, fu la prima vittima ufficiale della Rivoluzione; giustiziato senza troppe formalità, il suo cadavere fu trascinato fino a un ruscello che correva lungo il Faubourg Saint Antoine. Un sottufficiale che guidava i 954 ribelli scelse un giovane cuoco - «che conosceva il mestiere di macellaio» - perché separasse la testa dal corpo e la portasse per la città piantata su un palo. Intanto i vicini del quartiere di Marais cominciavano a demolire la Bastiglia.

Broadacre City. Utopia e disurbanistica di Frank Lloyd Wright (di Maurizio Giufrè)

Il progetto di città che diventerà il manifesto modernista

Broadacre City è la città che nel 1934 Frank Lloyd Wright immagina per combattere l’«atto disumano» rappresentato dalla congestione urbana, la soluzione concreta per «civilizzare » la vita cittadina. Un anno dopo ne esibisce il plastico al Rockfeller Center di New York in occasione dell’Industrial Arts Exposition.
Il modello ha le dimensioni di quattro metri per quattro, corrispondenti a due miglia quadrate, e illustra la edificazione distesa e ordinata in una maglia di isolati quadrati che contengono piccole aziende agricole e altre di medie dimensioni, mercati e centri civici disposti sugli assi stradali e circondati da zone boschive a disposizione per l’espansione futura, stadi e arene per fiere e manifestazioni all’aperto; ma anche edifici multipiano per le funzioni amministrative e poi scuole, teatri e motel, il tutto immerso in terreni coltivati perché la comunità urbana di Wright – si chiamerà
Usoniana – dovrà vivere e produrre superando l’opposizione tra città e campagna.
Nel 1958 Broadacre City, descritta e illustrata con disegni, rappresenterà il manifesto dell’«estetica organica» diWright nel saggio The Living City, tradotto da Enrica Labò nel 1966 per Einaudi con il titolo La città vivente e oggi fortunatamente riedito (Piccola Biblioteca Einaudi) dopo un decennio di assenza dalle librerie. Jean-Louis Cohen, nella sua chiara prefazione, sottolinea come Wright, durante gli oltre vent’anni dall’elaborazione all’effettiva divulgazione del suo pensiero urbanistico, non modificò mai le sue idee pur assistendo ai profondi cambiamenti del paesaggio, delle città e della società statunitense: l’evoluzione dell’abitare sarebbe stata ostinatamente orientata a una «spazialità decentrata».
Negli anni trenta Wright fu un critico convinto delle «inesorabili trappole commerciali» e dell’«esasperato perpendicolarismo» di New York; mentre con il suo libro The Disappearing City si schierò a favore dei programmi del New Deal rooseveltiano diretti a far «scomparire» dalla città le tragiche condizioni di vita dei quartieri poveri, attraverso l’integrazione dell’ambiente rurale con quello urbano.
Negli anni cinquanta, durante la Guerra fredda, avrebbe seguitato con altrettanta determinazione a promuovere il diradamento dei nuovi insediamenti in quanto funzionale alla difesa della nazione: «lo spazio serve alla sicurezza non meno che alla bellezza». In ogni caso la città orizzontale di Broadacre City si presenta come un modello idoneo e coerente, ma soprattutto «infinitamente estensibile e flessibile», diversamente dalle rigide
soluzioni prospettate dagli «europeimoderni», a cominciare da Le Corbusier con il Plan Voisin o la Ville Radieuse, per finire con la «città verticale» di Ludwig Hilberseimer: esempi di Machine-City troppo distanti da quel rapporto vitale con la natura che è alla base dei valori architettonici, quindi umani, sui quali si fonda l’«architettura organica» di Wright.
«Gli edifici, come gli individui – scrive l’architetto statunitense – sono creature solari, sviluppo nato al sole dalla Natura e con la Natura nata al sole». La natura, però, per Wright non è mai intesa come una mitica Arcadia. E a Chicago, nella comunità urbana di Oak Park, dove vivrà per circa vent’anni progettando per i suoi vicini comode e tranquille ville, sembrano prendere forma gli ideali del trascendentalismo di Henry David Thoreau o di Ralph Waldo Emerson (di quest’ultimo è inserito in appendice il suo Saggio sull’agricoltura) ai quali Wright farà sempre riferimento.
Per comprendere Broadacre occorre tenere presenti molti fattori, tutti inseriti nel dibattito intellettuale americano della fine dell’Ottocento: dall’ideologia agraria di Thomas Jefferson alle denunce contro la corruzione urbana di autori come Henry James o John Dewey; dall’affermazione del mito della frontiera come fonte di valori alle tesi dell’economista Henry George per combattere la povertà prodotta dalla cupidigia dell’industria.
Giorgio Ciucci – più volte citato da Cohen – ha spiegato con ricchezza di elementi in un suo memorabile saggio comparso nel volume collettaneo La città americana, dalla guerra civile al “New Deal” (Laterza, 1973) l’intreccio delle componenti politiche e culturali che sottendono la nascita di Broadacre. È un mistero il perché non sia menzionato nel contributodi Bruno Zevi pubblicato in fondo alla riedizione del saggio di Wright.
Il più autorevole sostenitore dell’architettura organica ripercorre l’«ostracismo verso il maestro di Taliesin» e critica l’accoglienza che da noi ha avuto la «città-territorio wrightiana», divisa tra lo «scetticismo» (Benevolo) e una «puntuale benché talora distorcente» interpretazione (Tafuri–Dal Co). Un «silenzio» ancora durevole, visto che il recente dizionario einaudiano, Architettura del Novecento, dedica solo poche righe a questa vicenda centrale dell’opera di un grande maestro, ma ciò a dimostrazione (mi riferisco al saggio di Ciucci) che solo pochi decenni fa, la ricerca accademica possedeva altre qualità e spessore.
Fa notare Ciucci: «Broadacre non è né utopica né reale, ma è solo fuori del tempo; nata in ritardo, è la risposta ai problemi dello sviluppo urbano degli ultimi anni dell’Ottocento e dei primi del Novecento così come li aveva colti Wright». Di questa «sfasatura» Wright non si accorge così come
non coglie il fatto che la questione della povertà non è risolvibile rendendo tutti possessori di un acro di terra da coltivare. La prospettiva del «capitalismo organico», cioè la condizione perché ognuno possa «scegliere e possedere tutto ciò che appare importante per la sua vita e per la vita di coloro che egli ama», si dimostra fragile nei confronti dei meccanismi di disuguaglianza che provoca la rendita fondiaria nella realtà urbana.
Ben altre soluzioni e di più immediata applicazione sono quelle studiate da urbanisti come Patrick Geddes, Ebenezer Howard o Joseph Stübben in Europa: tutte inconciliabili con l’intransigente «disurbanistica» di Wrigth, che prevede una comunità senza classi, un’ideale società preborghese alternativa sia alla società capitalistica sia a quella socialista, tutta da costruire come Broadacre City. È noto che davanti all’avanzare progressivo dello sprawl urbano, che a Chicago ha già inghiottito Oak Park, Wright fuggirà nel deserto dell’Arizona per riaffermare il suo bisogno di comunità, libertà e democrazia, e costruirà la sua casa-studio a Taliesin West. Tuttavia per la «città vivente» non possono esserci né condizionamenti né compromessi. Occorre solo attendere perché è inevitabile arrivarci «non meno del sorgere del sole domani mattina anche se pioverà».
Broadacre ha però bisogno che gli abitanti della città gradualmente scoprano il loro istinto di nomadi e agricoltori. Gli saranno di aiuto i «miracoli delle invenzione tecniche», ma soprattutto la consapevolezza che l’architettura organica si identifica con la «libera democrazia».
Lewis Mumford distingueva due differenti utopie: l’«utopia della fuga» e quella della «ricostruzione». «La prima – scrisse – lascia il mondo esterno così com’è; la seconda tenta di cambiarlo per mettersi in relazione con esso alle condizioni desiderate». È nella seconda situazione che «consultiamo un geometra, un architetto, un muratore, e iniziamo la costruzione di una casa». Quando il sociologo e urbanista statunitense scrisse la sua Storia dell’utopia era il 1922 e Wright doveva ancora immaginare Broadacre; ma alla «città vivente» in molti altri (senza «deliri») avrebbero ancora continuato a credere.

alias – la talpa 24 febbraio 2013

"Affaire Murri": un delitto italiano (di Michele Nani)

Augusto Murri
La vicenda di cui si tratta è un banale fatto di sangue: un uomo uccide il proprio cognato. Nemmeno il movente è particolarmente originale: l'omicida imputa alla vittima l'aggravamento delle condizioni della sorella e con l'assassinio intende troncarne il rischio della separazione definitiva, perché teme che il trasferimento del marito in un'altra città, figli al seguito, avrebbe portato al crollo psichico e fisico la donna; il proposito di allontanamento, ultimo atto di un distacco ormai consumato da anni, era maturato nel marito quando il suocero aveva esplicitato il rifiuto di chiamarlo a lavorare presso di sé, facendo crollare illusioni covate per lunghi anni di studio. Neppure la durezza del verdetto, infine, con le pesanti condanne comminate a tutti gli imputati, si distingue dall'operato consueto della giustizia. Tuttavia, a dispetto del carattere ordinario di questo delitto e delle passioni e miserie che concorrono a produrlo, la vicenda, svoltasi fra 1902 e 1905, diviene un «caso».
A un secolo di distanza, merito di Valeria Babini è l'averlo riaperto, non certo sul piano giudiziario, ma su quello storiografico, offrendo al lettore un ricco e avvincente studio (Il caso Murri. Una storia italiana, il Mulino, € 21). Nel ricostruirne le dinamiche, l'autrice si interroga costantemente sulle condizioni che hanno fatto di un «normale» episodio di cronaca nera un «caso», riconosciuto dai contemporanei nella sua paradossale saldatura di eccezionalità ed esemplarità.
Sugli sviluppi del «caso Murri» pesò all'epoca un precedente illustre, legato non tanto alla cronaca nera, quanto all'onor di patria e alla ragion di Stato: il caso, o meglio, l'«affare» Dreyfus, dal nome dell'ufficiale condannato alla deportazione per alto tradimento e riabilitato alla fine di un tortuoso iter giudiziario (ancora in corso ai tempi del caso Murri), dopo che un aspro scontro culturale e politico aveva ridefinito il profilo della Terza Repubblica d'Oltralpe. Di quella vicenda, che ebbe importanti ripercussioni internazionali, e rivelò la presenza di un robusto antisemitismo anche nella patria dell'emancipazione ebraica, il «caso Murri» ripropose alcuni tratti fondamentali.
In primo luogo si confermava, anche per l'Italia, il ruolo della stampa, protagonista dell'affaire Dreyfus. Se negli anni della crisi di fine secolo alcune testate come “L'Avanti!” e “il Secolo” avevano svolto una funzione democratica, agli inizi dell'età giolittiana il «caso Murri» mostrava le nuove implicazioni del «quarto potere». La peculiare versione italiana del giornalismo aggressivo e di inchiesta, che aveva i suoi epigoni negli Usa, insisteva sulla fascinazione che la cronaca nera, i processi e lo scandaglio nella vita privata (e sessuale) esercitavano sul crescente pubblico dei lettori, tanto da costringere a ripetuti interventi le autorità pubbliche. Proprio come in Francia e nel resto d'Europa, il principale mezzo di comunicazione dell'epoca era uno strumento di scontro politico e ideologico.
Durante il caso Murri in questo uso si distinsero i cattolici: l'occasione era propizia per sferrare una campagna di attacco alla scienza e all'istruzione laica, nutrita da una vera e propria inchiesta parallela, ma soprattutto da voci e presunte indiscrezioni sulla (movimentata) vita dei protagonisti, nei quali eccelse il bolognese “Avvenire d'Italia”, guidato da Rocca d'Adria (per inciso, uno dei protagonisti dell'antisemitismo cattolico fra Otto e Novecento). Non solo Tullio e Linda Murri, ma anche il padre Augusto, clinico di fama e gloria dell'ateneo felsineo, fautore di un approccio scientifico alle questioni sociali e impegnato politicamente su posizioni democratiche, a suon di calunnie e illazioni venne indicato dalla stampa cattolica come il vero, seppure indiretto, responsabile del delitto, istigato da una pedagogia dimentica dei valori cristiani.
Alla figura del medico l'autrice dedica un'umanissima comprensione per un padre che, già scosso da un dramma interiore, si trova per anni sulle prime pagine della stampa, e riesce a conservare la propria lucidità intellettuale e il proprio razionalismo. L'attacco ideologico al «positivismo» e al «materialismo», favorito dalla gran presenza di medici fra imputati e testimoni, tradiva precisi disegni politici: agitare le acque del «caso Murri» serviva a denunciare gli avversari elettorali nel momento in cui i cattolici si presentavano come forza politica e legittimava la prospettiva di un rovesciamento delle alleanze della borghesia liberale, esecrando l'immoralità e la perversione della massoneria e della sinistra democratica e socialista (Tullio era consigliere provinciale del Psi a Bologna). Stampa, ideologia e politica incisero pesantemente sulle lunghe vicende processuali, segnate dal pregiudizio contro i Murri e specie contro Linda, ritenuta l'origine di un complotto ai danni del marito. Alle sollecitazioni impresse dal contesto, che finirono col confondere pericolosamente il giudizio morale (e politico) con quello giuridico, si aggiunsero quelle legate alla dinamica del confronto in tribunale, con le strategie confuse degli avvocati e dei periti della difesa, che danneggiarono forse gli imputati, e certo la stessa percezione pubblica della scienza. Il processo segnò il paradossale trionfo di una «psicologia spontanea» ai danni di psichiatria e psicologia, non solo nel pubblico nutrito dalla stampa, ma anche in seno a una giustizia che ritrovava la propria autonomia dalle ipoteche poste nei decenni precedenti da nuove discipline, come l'antropologia criminale.
Le analogie con l'affaire Dreyfus si fermano qui. In Italia, nonostante qualche tentativo a opera di Augusto Bianchi, Guglielmo Ferrero e Cesare Lombroso, non si registrò un sussulto degli intellettuali: i panni di novello Zola mal si adattavano a Pascoli, che avrebbe dovuto pronunciarsi pubblicamente sul processo, e i giovani intelletti raccolti attorno alle nuove riviste primonovecentesche odiavano le masse, il socialismo e il «positivismo». Qualche reazione internazionale si ebbe solo a processo concluso, con gli interventi, fra gli altri, di Björn Björnson e Heinrich Mann. A differenza della Terza Repubblica l'Italia non uscì più democratica dal «caso Murri», ma per certi versi i ruoli furono rovesciati, con la vittoria simbolica e culturale proprio di quei settori sconfitti a Parigi dal rilancio repubblicano.
Mentre la Francia, cent'anni fa, proclamava la separazione della vita pubblica da quella religiosa, il «caso Murri» accompagnava il rientro dei cattolici nell'arena politica. Dopo la parentesi laica del primo cinquantennio unitario si apriva una storia gravida di sviluppi: di lì a poco le benedizioni alle truppe italiane in Libia e sul fronte orientale, i patti lateranensi, il sostegno della Chiesa e di gran parte del mondo cattolico al fascismo, la crociata anticomunista del dopoguerra. Un storia che insiste sul nostro presente, basti confrontare col resto d'Europa l'attenzione spasmodica dei nostri media per le vicende vaticane, il crocefisso negli spazi pubblici, i finanziamenti pubblici alle scuole private, l'ipoteca cattolica sulle questioni morali, specie in tema di sessualità e riproduzione.
A un uso accorto delle risorse del racconto storico, l'autrice abbina il rigore dell'indagine, che finisce inevitabilmente per sbalzare dalla cronaca nera il «caso» e per calarlo non solo in un contesto politico, ma anche nelle tendenze più profonde di quell'epoca.
Ad esempio le reazioni alla trasformazione del ruolo femminile, esemplificate dalla pluralità di interpretazioni di Linda, capro espiatorio su cui vennero proiettate ansie e fantasie (fu infine graziata nel 1906). In quel quadro, risultava più rassicurante la persistenza di una barriera di classe, evidente nel destino di Rosina Bonetti, la domestica di origini popolari amante di Tullio, l'unica a cui venne riconosciuta la semi-infermità mentale, ma anche l'unica fra gli imputati a non potersene giovare: finì i suoi giorni in manicomio. In questa prospettiva, la curiosità del lettore per il «caso» forse non dipende solo dalla persistenza di un'attenzione più o meno morbosa per sentimenti, delitto e sesso, ma anche da altre continuità che legano il nostro presente con gli scenari del primo decennio del `900, l'epoca della prima «globalizzazione», del consolidamento del divario fra paesi industrializzati e gran parte del resto del mondo, di espansione dell'opinione pubblica, di conflitti sociali, agitata da venti di guerre lontane che presto si sarebbero avvicinate nel conflitto «mondiale». Al termine del quale, in nome della concordia della nazione vittoriosa, la grazia raggiunse anche Tullio Murri e l'amico Pio Naldi.

il manifesto, 21 aprile 2005

26.2.13

Perché Bersani non ha vinto. Dialogo con Carmelo Asaro (S.L.L.)

Il mio caro amico Carmelo Asaro, con bello stile e argomentazioni apprezzabili, imputa al grigiore di Bersani, al suo realismo e razionalismo tortellinaro la (quasi) sconfitta del Pd.
Scrive in una nota fb: “Abbiamo bisogno di sognare, di immaginare che il futuro sarà migliore del presente, anche contro l'evidenza. Siamo esteti e passionali. Perché ci entusiasmiamo tanto a un romanzo, pur sapendo che la storia narrata non è vera? Abbiamo bisogno in ogni momento di comparare ciò che è a ciò che potrebbe essere e di anticipare con l'immaginazione questo secondo scenario, assegnandolo alla vita attuale. Bersani ha parlato alle nostre teste, senza alcuna colorazione emotiva. Grillo e Berlusconi hanno parlato ai rospi del nostro stomaco, ci hanno fatto assaporare il riscatto e la vendetta. Restituzione dell'IMU e l'intimazione "Arrendetevi!", pur provenienti da fronti opposti, hanno scatenato il medesimo ordine di pulsioni. L'errore principale della sinistra è stato quello di essere incolore. Le è mancato un leader visionario, che facesse immaginare una società migliore, non i circoli ARCI e i tortellini. Forse i calcoli di Bersani non erano irrazionali, ma sbagliati per eccesso di razionalità”.
E’, meglio articolata del solito, la perorazione del “facci sognare”, che si sente spesso a sinistra da quando Berlusconi è “sceso in campo”.
Oggi più che mai non mi convince.
Andrebbe ricordato, per esempio, che, sia pure con difficoltà spesso imputabili a interni sabotaggi, l’unico leader che finora abbia battuto Berlusconi è il professor Prodi, poco portato al sogno e alla narrazione.
E andrebbe ricordato, anche, che il mito ed il sogno con le paure e i velleitarismi che ne conseguono sono stati spesso le armi più potenti dell’arsenale ideologico e propagandistico delle destre (“Avanti gioventù, l’impossibile, l’inosabile non esiste” – faceva cantare Mussolini).
Di sinistra è invece la forza della ragione (do you remember Salvador Allende?), in particolare quella che combatte la disuguaglianza sociale alla ricerca di una organizzazione produttiva e civile non solo più equa, ma anche – appunto – più ragionevole.
Mi capita, qualche volta, di riascoltare qualche frammento, anche ampio, di Enrico Berlinguer: comizi, tribune televisive. Altri tempi, altre “regole d’ingaggio”, ma la sua sobrietà, il suo procedere per argomentazioni stringenti potrebbe essere ancora un esempio e sono convinto che sarebbe efficace. Ragionare per fare ragionare: i lavoratori, la gente comune, perfino l’avversario politico. Non nascondere la gravità dei problemi, non arretrare di fronte a verità sgradevoli, ma cercare nel ragionamento e nel dialogo le vie per la soluzione.
Non è stato di questo tipo il grigiore di Bersani, ma quello di chi pretende fiducia senza opzioni nette (l’IMI da “rimodulare”, il sistema delle indennità da “rivedere”), senza uno straccio di programma leggibile, ma solo vaghezze del tipo “faremo… vedremo… quella roba lì… quella roba là…”, senza decidere da che parte stare nello scontro sul “chi paga”.  E per di più con la pantomima dell’impegno di andare al governo con l’impopolare Monti, anche ottenendo la maggioranza assoluta.
E c’è al fondo della scelta per Grillo (sogni o non sogni, Berlusconi ha perso sei milioni di voti) anche qualcos’altro, che si stenta a dire, ma bisogna cominciare a dire.
Esemplifico. Penati, MPS, l’associazione a delinquere della Lorenzetti sugli appalti ferroviari. Presumo innocenti tutti gl’imputati, ma a buona ragione (e non per immaginazione) a tanti appare colpevole un modo di governare (del partito di Bersani) sempre più opaco, sempre più invischiato con l’affarismo, forse meno arrogante e pacchiano di quello delle destre, ma incapace di rappresentare un’alternativa di valori e di metodi.
Altro esempio. Si può sostenere un governo che strangola l’Italia, che sottrae redditi e diritti, presentandolo come assoluta necessità, senza pretendere da sé stessi, dal ceto politico di sinistra la rinuncia immediata a intollerabili privilegi?
Don Ciotti suole dire che in politica la distinzione non è tra credenti e non credenti, ma tra credibili e non credibili. Ecco cosa è mancato a Bersani e ai suoi: la credibilità. Altro che il sogno, l’immaginazione e la policromia.

Rocca d'Adria. L'ebreo antisemita

Cesare Algranati nacque da famiglia ad Ancona nel 1865 e fu – come d’uso - circonciso. Poco più che ventenne non solo si convertì al cattolicesimo ma, collaborando  e dirigendo diversi periodici cattolici, si distinse per diversi scritti a carattere antiebraico, atti ad alimentare il pregiudizio religioso, se non quello razziale. Tra questi il romanzo Nella tribù di Giuda (1895).
Partecipe dei primordi dell’organizzazione politica cattolica si schierò con la parte conservatrice. Da direttore dal 1901, a Bologna, del quotidiano “L’Avvenire d’Italia” si distinse per una feroce campagna clericale e reazionaria contro il grande clinico Augusto Murri, indicato per la sua massonica miscredenza e la sua fede nel libero pensiero come vero colpevole di un passionale delitto nel quale erano coinvolti i suoi figli.
Firmava con lo pseudonimo Rocca d’Adria le sue velenose e calunniose invettive compiute in nome della fede, mentre dava spazio a fasulle rivelazioni dei Sallusti clericali del primo Novecento.
Il carattere forcaiolo e reazionario di questo strano ebreo convertito all’antisemitismo si evince anche dal settimanale umoristico “Il Mulo”, da lui promosso e diretto in polemica contro il socialista e anticlericale “L’Asino”. Nella copertina che abbiamo recuperata la vignetta di prima pagina rampogna l’amnistia accordata agli agitatori socialisti che avevano dissanguato i proletari spingendoli allo sciopero. Algranati i socialisti li preferiva in galera, possibilmente per sempre.
Rocca d'Adria fu tra quei cattolici che dopo la Marcia su Roma videro in Mussolini il possibile artefice del rientro della gerarchia cattolica nei suoi perduti privilegi. Non si sbagliava, ma non fece a tempo a vedere tutti i frutti della sua campagna: morì nel 1925, mentre il Concordato liberticida clerico-fascista fu firmato qualche anno più tardi, l’11 febbraio 1929. 

Il gioco del calcio (di Pier Paolo Pasolini)

A Gubbio nella piazza principale
Il gioco del calcio è lo sport nazionale per eccellenza non solo in Italia; l’unico che unisce in un comune sentimento di entusiasmo e partecipazione tutte le fasce sociali e che riesce a tenere desta l’attenzione ben prima e ben dopo l’ora e mezza di durata della partita.
Che sia il mezzo televisivo o la visione diretta a comunicare le immagini del gioco, l’eccitazione del pubblico si mantiene sempre a un livello molto alto e la tensione quasi mai si acquieta con la fine del gioco, ma lo trascende e ha modo di scaricarsi nelle strade cittadine, coinvolgendo anche chi l’incontro agonistico non l’ha seguito.
È un gioco che, proiettato oltre gli stadi ufficiali, si reinventa quotidianamente nelle migliaia di campi sportivi più o meno improvvisati, nelle scuole e nei cortili delle case, ovunque si ritrovino un gruppo di ragazzi intorno a un pallone.

25.2.13

La poesia del lunedì. Cesare Genovese

IL SOGNO

Ho sognato stanotte, anche per vario
tempo, una scalinata linda e bella,
rassomigliante in modo strano a quella
che fa spicco sul vecchio calendario.

Fosse luce non so, ma c'era gente
che discuteva e mi passava accanto
ed io mi domandavo inutilmente
cosa cercasse e dove stesse andando.

Poi mi coglieva l'ansia e un improvviso
senso d'angoscia coinvolgeva i fatti:
guardavo intorno eppure nessun viso
mi mostrava, benevolo, i suoi tratti.

Penso, pure, allo strano scricchiolìo
delle scarpe, raschianti sul selciato
ed al vento, che un querulo fruscìo
produceva, nel perdersi sul prato

e alle donne, curate nell'aspetto
con vestiti eleganti non più in uso,
e a me che, avendo l'animo d'intruso,
camminavo accostato al parapetto.