31.8.13

Cendrars v/s Apollinaire. New York, Parigi e la nuova poesia (Salvatore Lo Leggio)

Da Il secolo morente, il libro che riprende ed amplia la mia lezione all’aperto (nel chiostro del Convento di Sant’Anna a Perugia) di addio all’insegnamento, “posto” una paginetta dalla terza parte, ove affronto una “questione” che quasi cent’anni fa ebbe qualche peso nel dibattito letterario: i rapporti tra la Pasqua a New York di Blaise Cendrars e Zona di Guillaume Apollinaire, i due testi da cui per convenzione si fa iniziare in Francia il Novecento poetico. (S.L.L.)


1.
La Pasqua a New York di Cendrars, composta e pubblicata nel 1912, fu oggetto di un’infuocata polemica. Allo stesso anno risale, infatti, la prima stesura di Zona, la poesia di Apollinaire che, nella sua forma definitiva, fece da apertura ad Alcools, nel gennaio del 1914.
Le somiglianze autorizzavano i sospetti di plagio. Gli autori, tra loro amici, tacquero: ritenevano la questione priva d’interesse. I contatti tra i due testi, i primi dell’“esprit nouveau”, rivelano in realtà il cameratismo di una battaglia combattuta insieme. Si può ragionevolmente ipotizzare che quel che appare plagio sia citazione, se non comune invenzione.
La Pasqua ha un metro tradizionale. Con l’eccezione di una sola quartina, è formata da distici. I versi, di varie misure, come l’alessandrino si compongono di due parti e la divisione è evidenziata dalla presenza regolare di rime o assonanze. Zona, nella sua forma definitiva, ha strofe disuguali di versi disuguali e le rime, pur numerosissime, non rispettano alcuna regola.
A legare i due testi è innanzitutto il problema religioso.
Cendrars racconta una vera e propria crisi. Alla vigilia di Pasqua, in un tramonto newyorchese, l’Eterno batte alla porta del poeta. Forse è quel Cristo che non ha mai pregato, ma ha ammirato nei quadri e nelle icone. Lo cerca invano sulle rive dell’Oceano, ove giungono, stivati come bestiame, gli emigranti, poi lo cerca nel quartiere dei ladri e in quello delle prostitute, tra le botteghe del ghetto ebraico e in un localaccio cinese.
Rientra a tarda sera, febbricitante e vacillante, pieno di terrore per le inquietanti presenze delle strade suburbane, ma non trova Dio neanche nella solitudine della sua stanzetta: pensa alle campane, agl’inni e alle liturgie e non ne avverte neanche l’eco. “Le gioie del Paradiso s’annegano nella polvere/ I fuochi mistici ormai non rutilano nelle vetrate”, la città moderna ha altre sonorità, altre luci.
Riesce all’alba, mentre la folla si riversa per le strade tra le sirene delle fabbriche e i rombi dei treni. Quando nuovamente ritorna a casa, pensa soltanto ai suoi desideri insoddisfatti, alle sue ore perdute. Nel giro di dodici ore, in una spoglia stamberga di periferia, è passato il mondo intero e si è consumata la morte di Dio.
La poesia, insieme a qualche caduta, ha molti pregi. La rappresentazione degli emigranti, “bestie da circo che saltano i meridiani”, delle periferie sudicie e abbandonate, del risveglio metropolitano è forte e convincente per la tensione espressionistica che la sorregge. Nella Pasqua la simultaneità compare di rado: non capiremmo pertanto l’impressione di novità che suscitò, se non ci soccorressero le riflessioni di Apollinaire. Per lui, lo “spirito nuovo” non è, come per tanti futuristi, una questione di tecniche, ma uno speciale rapporto con la modernità. Il poeta di spirito nuovo non fugge da essa, come spesso facevano maledetti, decadenti e simbolisti; piuttosto l’affronta, la penetra e la maneggia. Costruisce così la surréalité, una soprarealtà che non nasconde il mondo, ma s’innalza su di esso. Nella Pasqua accade.
Apollinaire, dal canto suo, fino al dicembre del 1913 rimaneggiava Zona. Era già stata pubblicata nel settembre la Prosa del Transiberiano di Cendrars, che probabilmente gli ispirò una maggiore consapevolezza teorica, guidandolo nelle ultime correzioni.
In Zona a lungo non s’intende donde provenga la voce recitante. Quasi sempre si rivolge ad un “tu” che coincide con il poeta. Lo sballottola nello spazio e nel tempo: “leggi i manifesti”, “non sei che un bimbetto”, “marci per Parigi”, “sei nel giardino di un albergo nei dintorni di Praga”, “eccoti a Marsiglia”, “a Roma”, “ad Amsterdam”, “a notte in un grande ristorante”.
Solo alla fine gli (ci) rivela che sta camminando verso Auteil e che presto verrà il mattino.
Era detto zone l’anello stradale che circondava Parigi e, per estensione, tutta la cintura tra la periferia urbana ed i paesi, in gran parte rurali, del circondario. Il poeta ne percorreva ogni giorno un tratto, di solito a piedi, al tempo della prima ideazione del poema, quando abitava ad Auteil. Lo spazio della poesia è, pertanto, in una “terra di nessuno” tra l’antico e il moderno, tra il passato e il futuro, tra la città e la campagna, tra il consapevole e l’automatico, tra la memoria e la fantasia.
Per questa via la simultaneità è condotta a un livello più avanzato che nello stesso Transiberiano e s’accosta alla tecnica del “flusso di coscienza”. “Alla fine sei stanco di questo mondo antico”, “sei stanco di vivere nell’antichità greca e romana”. Così si dice Apollinaire. Sono i cataloghi, i pieghevoli e i manifesti murali la poesia dell’oggi. I quotidiani, con le loro appendici di racconti polizieschi, ne costituiscono la prosa. Il problema religioso è pertanto affrontato in termini meno drammatici che nella Pasqua. Il papa è l’unico moderno in un’Europa così fortemente segnata dall’antichità classica e la sua fede, semplice “come i capannoni dell’aeroporto”, è l’unica all’altezza della modernità. A ragione pregano il suo Dio gli emigranti che impregnano del loro odore le stazioni parigine e sperano di tornare al paese dopo aver fatto fortuna in Argentina.
In Apollinaire il Cristo che ascende al cielo è un aeroplano, volteggia nell’ostia che i preti sollevano. Non può morire, continua anzi a risorgere nel moderno e a prosperare del moderno. A noi che viviamo alla fine del millennio rammenta papa Wojtila, i suoi voli, i suoi atterraggi tra folle osannanti e genuflessioni di potenti, le sue apparizioni televisive.

2. 
Verso la conclusione Zona recita: “…vuoi rincasare a piedi/ Dormire tra i tuoi feticci d’Oceania e di Guinea/ Sono Cristi di un’altra forma e di un’altra credenza/ Sono i Cristi inferiori dalle oscure speranze”. Quest’ultimo verso, più che ad una sorta di sincretismo religioso, rimanda agli esperimenti delle avanguardie. Pittori e scultori presto daranno al Crocifisso forme “primitive”, con scandalo di parroci e fedeli tradizionalisti. Qualche decennio più tardi, dopo il Concilio Vaticano II, toccherà ai preti missionari di incoraggiare i “selvaggi” convertiti, anche quelli che, avendo scelto l’assimilazione, forse non ne avevano più voglia, a rappresentare i miti cristiani secondo gli schemi della loro arte nativa.
Anche nella Pasqua c’è un brano che si colloca un passo più avanti, rispetto al Transiberiano, sulla via della cosiddetta “interculturalità”. Nella saletta da tè dei cinesi, tra cromi incorniciati di bambù, il poeta domanda al Signore: “Che sarebbe il tuo Volto dipinto da un cinese?”. In questa “contaminazione” il moderno incontra il barbarico con esiti espressionistici: lame ritorte segano le carni del Cristo, pettini metallici striano le nervature. Cendrars conosce la raffinata iconografia cinese (“Ho-Kusai ha dipinto cento aspetti di un monte”), ma la sua immaginazione di europeo la mutila, la riduce al ruolo di una forza primordiale, la cui unica funzione è di riattizzare fuochi mistici ormai spenti.


Da Il secolo morente, ovvero la fine delle lezioni, Giada, 2001

Blaise Cendrars, "mitobiografo" (di Jean-Louis Jeannelle)

Nel giugno scorso, in occasione della pubblicazione per l'editore Gallimard - nella prestigiosa "Bibliothèque de La Pléiade" - delle opere autobiografiche complete (Œuvres autobiographiques complete) di Blaise Cendrars (due tomi in cofanetto, più di duemila pagine), la recensione del quotidiano “Le Monde” è stata affidata alla bella penna di Jannelle. La posto qui nella mia traduzione. (S.L.L.)

Spesso Guillaume Apollinaire è stato chiamato "l'Enchanteur"  (“l’Incantatore”); l’epiteto potrebbe altrettanto bene applicarsi a Blaise Cendrars (1887-1961). Durante la sua giovinezza egli fu celebre soprattutto come poeta : nel 1912, la sua Pasqua a New York  fa ascoltare una voce potente, fino ad allora sconosciuta. Dopo la Grande Guerra, è un romanzo, L'Oro, qui gli procura il suo primo successo tra il gran pubblico nel 1925. Infine, a partire dagli anni Trenta, lo si conosce come reporter et "bourlingueur" (giramondo) ; è lui, da allora, a far entrare con il significato di “girovagare” il verbo "bourlinguer" nel dizionario francese. 
Sotto ciascuna delle sue facce, Cendrars est lo scrittore del movimento, di chi va, dell’inatteso. La Prose du transsibérien, il suo grande poema apparso nel settembre del 1913 nella forma di un libro verticale illustrato da une "armonia di colori" con la tecnica del pochoir (una sorta di stampino) da Sonia Delaunay, ne è il simbolo : "Allora ero nella mia adolescenza / Avevo appena sedici anni e non mi ricordavo più della mia infanzia / Ero lontano dal luogo di nascita, a 16.000 leghe di distanza". La musica era stata l'arte “sorella” della letteratura nell’epoca simbolista; all’inizio degli anni Dieci, sono la pittura e l’insieme delle arti plastiche a giocare questo ruolo: all’amore della melodia si sostituisce una ricerca di simultaneità. La vettura, il treno, l'aereo, il telefono, la radio ... : è il tempo della velocità.

Un tutto coerente
Non è né il poeta, né il romanziere d’avventure, né il giramondo che entra oggi nella "Pléiade", ma l’ultimo Cendrars, il più attraente forse, l’autore di quegli strani libri, che egli descrive come delle "Mémoires sans être des Mémoires..." ("memorie senza essere memorie"). 
L'Homme foudroyé (1945), La Main coupée (1946), Bourlinguer (1948) et Le Lotissement du ciel (1949) formano un tutto coerente, che alcuni sorprendenti testi giovanili completano. Accanto a loro si trovano in particolare i frammenti di un primo progetto autobiografico, al quale Cendrars aveva pensato di dare questo titolo luminoso: Sotto il segno di François Villon. Ma non stupiamoci: lo scrittore non ha mai seguito un piano; in ciascuno dei suoi libri egli inventa una maniera totalmente inedita di raccontarsi. La tetralogia propone nondimeno una voce particolare, che fa di Cendrars uno dei grandi autobiografi del secolo scorso, con André Gide, Jean-Paul Sartre, Michel Leiris o Nathalie Sarraute.
Già professore a Parigi-Nanterre, Claude Leroy realizza qui l'esito finale di tutta una carriera votata all’erudizione cendrarsiana. Una erudizione che tempera, in questa edizione della  "Pléiade", una vera empatia per lo straordinario "mitobiografo" che fu Blaise Cendrars. La sua amputazione, durante la guerra, del braccio destro ("son bras d'écrivain et de guerrier") costrinse il poeta a rinascere alla scrittura dal suo lato sinistro. Gli accadde allora di doversi reinventare nel dolore e nella goffaggine, ma liberato delle vane rivalità di Saint-Germain des Prés e dei canoni del buonsenso estetico.
In Cendrars la distinzione tra sincerità, mitomania e finzione non ha più corso. Rovesciando radicalmente ogni cronologia, egli tralascia i personaggi storici a vantaggio di sconosciuti che egli erige in figure indimenticabili. Per esempio un tal Oswaldo Padroso, il cui vero nome era Luiz Bueno de Miranda, proprietario della fazenda del Morro Azul nello Stato di San Paulo, che inventa une costellazione battezzata "Tour Eiffel sidérale" (mai riconosciuta, e a ragione, dalla Société astronomique de France), vissuto a lungo in reclusione a causa del suo amore per Sarah Bernhardt, cui scriveva ogni notte poemi nascosti con cura in una cassaforte.
Cendrars fa della propria vita una serie di episodi più sbalorditivi di quelli del romanzesco più sfrenato, ma lo stile è di una sofisticazione e di una bellezza pari a La Règle du jeu (1948-1976), di Michel Leiris. Tutto è soggetto a un incantamento simile a quello del giovane Cendrars che osserva a 11 anni, “pettinato, lustrato, cosmetico”, la bella Liane de Pougy, il suo primo amore da uomo, avenue Victor-Hugo : "Quando lei scendeva la scala dal suo mezzanino, io le cedevo il passo schiacciandomi contro il muro e le rivolgevo una grande scappellata arrossendo fino alla radice dei capelli, io m’inclinavo profondamente per nascondere la mia emozione ma anche per seguire con gli occhi la sua veste frusciante che gorgogliava dietro di lei, cadendo a cascata da un fianco sull’altro fino alla base della scala a chiocciola, il che mi riempiva di un turbamento fatto d’ammirazione e di costernazione e mi faceva girare la testa con più forza della vertigine dei suoi effluvi che turbinavano nella sua scia”.
Non è il caso di aggiungere che il suo “angelo” (la formula risale a Balzac) non lo ha mai notato. Marcel, il narratore di A la recherche du temps perdu, usava lo stesso sotterfugio per avvicinare la duchessa de Guermantes. In Cendrars, nessuna strategia per accedere ai salotti più esclusivi dell’aristocrazia, nessuna riconquista di un tempo perduto; il passato è da catturare a scatti, come quel colpo d’occhio sul frou frou di una veste. Egli è tenero e crudele, divertente e mistico, eterogeneo eppure sempre sorprendente come il primo sguardo.

" Le Monde", Le Monde des livres, 13.6.2013

Traduzione Salvatore Lo Leggio

30.8.13

"Brava gente", Il sig. Sosio e la memoria condivisa (Chiara Ottaviano)

Il ventitreesimo numero della rivista “Zapruder – Storie in movimento”, di settembre-dicembre 2010, aveva come titolo Brava gente. Memoria e rappresentazioni del colonialismo italiano. C’era una allusione, evidente nel mondo storiografico, a un libro importante, Italiani brava gente?, di Angelo Del Boca, sintesi di molti studi particolare, narrazione documentata e argomentata dei crimini del colonialismo italiano, denuncia delle rimozioni, confutazione delle interessate “narrazioni” di un imperialismo “buono”, oltre che straccione.
Tra gli articoli del numero ve n’è uno di Chiara Ottaviano, Riprese coloniali. I documentari Luce e la «Settimana Incom», che vorrebbe contribuire a capire come quelle narrazioni siano state costruite, per poi essere tramandate e consolidate da una generazione all’altra, anche attraverso cinegiornali e documentari proiettati al cinema sia durante il fascismo che nell’immediato dopoguerra.
Riprendo qui l’introduzione che mi pare ottimamente sintetizzi il carattere falso e autoassolutorio che caratterizza la memoria italiana del passato coloniale, una memoria al contrario di tante altre “condivisa” e negativamente efficace. (S.L.L.)

Quando nel giugno 2009 Gheddafi scese dalla scaletta dell’aereo che lo aveva portato a Ciampino per la prima visita ufficiale in Italia, dopo gli accordi dell’agosto e poi dell’ottobre 2008, l’attenzione di fotografi e teleoperatori fu attratta da una fotografia vistosamente appuntata sull’improbabile divisa del leader libico. In quell’occasione la stragrande maggioranza degli italiani sentì per la prima volta pronunziare il nome dell’eroe libico della guerriglia anti-italiana Omar al Mukhtar.
Nel corso della visita, poi, Silvio Berlusconi, a nome del popolo italiano, ebbe modo di ripetere le scuse per l’occupazione coloniale della Cirenaica e della Tripolitania, riconoscendo le «ferite profonde inferte» al popolo libico. Si spiegò allora che i termini dell’accordo economico (200 milioni di dollari all’anno per i successivi 25 anni sotto forma di investimenti in progetti infrastrutturali in Libia) erano motivati dal desiderio di porre fine a 40 anni di malintesi: «un riconoscimento completo e morale dei danni inflitti alla Libia da parte dell’Italia durante il periodo coloniale». Si è, dunque, trattato di una, sia pur tardiva, ufficiale ammissione da parte dell’Italia dei gravi torti inflitti alle popolazioni africane delle nostre ex colonie, e in particolare di quelle del territorio dell’attuale Libia.
Quale seguito hanno avuto quegli atti ufficiali nella più vasta opinione pubblica? Si è assistito, forse, all’inizio di un qualche processo capace di fare sperare nella crescita di una maggiore consapevolezza del nostro passato, da cui un nuovo senso comune storiografico più aderente alla verità storica di quanto non lo fosse il precedente, dominato dall’idea del “colonialismo buono” ad opera degli italiani “brava gente”?
Niente affatto, almeno per il momento. Infatti, leggendo sia molte cronache giornalistiche sia i numerosi commenti dei lettori consultabili sui siti internet dei principali quotidiani, quelle “scuse” sono state di norma interpretate come l’ennesima mossa a sorpresa dello scaltro premier italiano alla ricerca di vantaggi (anche personali) e, in molti casi, hanno suscitato indignazione e sentimenti di incredulità. Pochi i commenti dei lettori che, in risposta all’indignazione altrui, hanno ricordato le malefatte italiane ricorrendo all’autorità degli storici e facendo soprattutto riferimento all’opera di Angelo Del Boca.
In altre parole, quelle scuse sono state considerate dalla maggioranza degli intervenuti come discutibili affermazioni di comodo e non, piuttosto, come scomode verità con cui fare i conti. Neanche il carisma del leader Berlusconi sul suo più fedele elettorato (tale si presume, per esempio, quello costituito dai lettori de «il Giornale») sembra essere riuscito a scalfire le precedenti solide certezze secondo cui gli italiani in Africa sono stati protagonisti di una sorta di “colonialismo buono”, implicando tale aggettivo non tanto l’idea che gli italiani abbiano esercitato una qualche virtù positiva quanto piuttosto l’opinione che non abbiano saputo cogliere, al pari di altre potenze coloniali, le giuste opportunità per arricchire il paese Italia sfruttando adeguatamente le risorse dei paesi conquistati. Gli italiani, “buoni” in questo caso nell’accezione di fessi, avrebbero in quelle lontane terre costruito strade e acquedotti, dissodato e coltivato terre, costruito piazze e case, portando così la civiltà, senza ricevere in cambio né vantaggi durevoli né gratitudine da parte delle popolazioni locali.
A titolo esemplificativo, riporto il commento di un lettore pubblicato sul sito de «il Giornale» dopo la firma dell’accordo a Bengasi il 30 agosto 2008.
Pagliaroli Sosio, il 31 agosto 2008 alle ore 9:08 scrive: Sono nato nell’immediato dopoguerra, ma da quello che ho appreso dalla scuola, dalla storia, dalle mie letture, da mio padre e dai vecchi del paese; pare che gli italiani, in quella colonizzazione hanno fatto del bene e basta. Poi quelli che erano rimasti e si erano installati lì a continuare a far progredire i beduini; Gheddafi, dopo di averli depredati di tutti i loro averi, li ha rispediti in Italia sottoforma di profughi. Ora dobbiamo noi risarcire loro?.- Mi sa tanto che il senso degli affari del presidente questa volta abbia proprio toppato.
Il sig. Sosio indica una certa varietà di fonti, tutte convergenti, all’origine delle sue certezze: la scuola, i libri letti, i racconti di famiglia e quelli ascoltati da altri anziani nel paese. Dal suo punto di vista, sono state perfettamente coincidenti sia le versioni dei racconti tramandati oralmente, in ambito familiare e locale, sia quella della cosiddetta storia ufficiale, appresa sui banchi della scuola e attraverso qualche lettura. Ritengo sia del tutto secondario fare rilevare che forse quelle letture sono state rare o solo millantate (visti i problemi di grammatica, punteggiatura e sintassi mostrati nella scrittura). Ciò che è significativo è la presunta conoscenza di quello specifico periodo della storia italiana, data per scontata.
La lettera del sig. Sosio, che ben esemplifica il pensiero della stragrande maggioranza degli intervenuti sul sito del quotidiano (e pensiamo anche degli italiani), consente di mettere a fuoco un punto tanto dolente quanto rilevante: la storia delle colonie italiane, con poche voci dissonanti a partire solo dalla fine degli anni sessanta, è stata una delle rarissime pagine della nostra storia non controverse, esempio di una “memoria condivisa” su cui si sono addensate versioni concordi e silenzi diversamente consapevoli. Gli italiani, così profondamente divisi fra ex repubblichini e antifascisti, fra cattolici e laici, fra destra e sinistra, fra monarchici e repubblicani, rispetto alla storia del nostro passato coloniale sono stati straordinariamente concordi nel condividere una versione e un’interpretazione dei fatti tanto indiscussa quanto falsa...

da http://www.storieinmovimento.org/index.php 

29.8.13

Il cielo in me. Una poesia di Antonia Pozzi

Io non devo scordare
che il cielo
fu in me.

Tu
eri il cielo in me,
che non parlavi
mai del mio volto, ma solo
quand'io parlavo di Dio
mi toccavi la fronte
con lievi dita e dicevi:
– Sei più bella così, quando pensi
le cose buone –

Tu
eri il cielo in me,
che non mi amavi per la mia persona
ma per quel seme
di bene
che dormiva in me.

E se l'angoscia delle cose a un lungo
pianto mi costringeva,
tu con forti dita
mi asciugavi le lacrime e dicevi:
– Come potrai domani esser la mamma
del nostro bimbo, se ora piangi così? –

Tu
eri il cielo in me,
che non mi amavi
per la mia vita
ma per l'altra vita
che poteva destarsi
in me.
Tu
eri il cielo in me
il gran sole che muta
in foglie trasparenti le zolle

e chi volle colpirti
vide uscirsi di mano
uccelli
anzi che pietre
– uccelli –
e le lor piume scrivevano nel cielo
vivo il tuo nome
come nei miracoli
antichi.

Io non devo scordare
che il cielo
fu in me.

E quando per le strade – avanti
che sia sera – m'aggiro
ancora voglio
essere una finestra che cammina,
aperta, col suo lembo
di azzurro che la colma.
Ancora voglio
che s'oda a stormo battere il mio cuore
in alto
come un nido di campane.
E che le cose oscure della terra
non abbiano potere
altro – su me,
che quello di martelli lievi
a scandire
sulla nudità cerula dell'anima
solo
il tuo nome.

11 novembre 1933


(da Parole, 1939)

Abolire la povertà. Il metodo indiano (S.L.L.)

Dehli 2011
Sotto il titolo Poveri indiani e senza firma “il manifesto” del 30 settembre 2011 pubblicò nelle sue pagine economiche la seguente notizia: 
“Il problema della povertà è grosso, ma in India hanno trovato una soluzione - originale – per risolverlo: l’ha ridotta statisticamente, cioè sulla carta. E così ora in India può essere dichiarato povero solo un cittadino che vice in città e ha un reddito inferiore ai 49 centesimi di euro al giorno (meno di 15 euro al mese), mentre per chi abita nelle campagne è povero solamente se ha un reddito quotidiano inferiore ai 40 centesimi, 12 euro al mese, 144 euro l’anno. In altre parole: è stato sufficiente dire che si può campare con meno per essere cancellati dalla lista dei poveri. Con questa soluzione, le persone che vivono sotto la soglia di povertà passano dal 33% al 28% della popolazione. In cifra tonda, si tratta di 60 milioni di poveri in meno. Da notare che secondo i parametri delle nazioni unite la soglia della povertà è fissata a circa 90 centesimi di euro al giorno (è calcolata con riferimento al costo delle calorie quotidiane necessarie per vivere), il doppio rispetto a quella indiana. La conseguenza di quanto sopra sarà un risparmio sui sussidi pagati ai poveri”.

L’Italia in parte aveva preceduto l’India in queste pratiche, ma dopo la diffusione della notizia le ha progressivamente applicate ad altri aspetti delle necessità sociali, sotto tre successivi governi, Berlusconi, Monti e Letta. 
Così, da noi, mentre si abbassano le soglie per usufruire di sussidi e provvidenze riservate ai “poveri”, si alza la soglia per accedere alla pensione di vecchiaia o alle prestazioni sanitarie e sociale per invalidi e ammalati. Il governo ha deciso che se non hai 67 anni non sei vecchio, se non sei totalmente paralizzato non sei invalido, se non hai una malattia mortale non sei malato.
Il liberale-liberista Ernesto Rossi, in un suo aureo libretto, Abolire la miseria, aveva dato un appoggio sostanziale al programma laburista inglese di uno stato che assiste chi ha bisogno “dalla culla alla bara” ed evita per questa via il precipitare di una parte cospicua di popolazione nella povertà generatrice di ignoranza, violenza e illegalità. I governi italiani dei tempi nostri per abolire la miseria, la malattia e la vecchiaia scelgono invece il metodo dell’India, la progressiva riduzione statistica, la cancellazione sulla carta.

28.8.13

Repubblichini (di Roberto Monicchia)

Riprendo una voce dal tragicomico Dizionario della “politica moderna” che Roberto Monicchia curava, resa attuale dal ritorno sulla scena politica di Luciano Violante, cosa di cui in verità non si sentiva davvero il bisogno. (S.L.L.)
Repubblichini del vercellese.
Repubblichini: miliziani della repubblica sociale italiana (1943-1945), a lungo ritenuti autori di atti di rastrellamento dei civili, deportazione, tortura, al fianco degli occupanti tedeschi. Nel 1996 il presidente della Camera Luciano Violante ne ha rivelato la vera natura: si trattava di bande di giovani, non sempre educate e impeccabili, ma comunque ispirate all’amor di Patria. Da quel momento sono noti come “Ragazzi di Salò”.

micropolis on line, 6 giu 2011

Una sola volta. Una poesia di Anne Sexton (1928-1974)

Ann Sexton, Estate 1974
Una sola volta compresi lo scopo della vita.
Accadde a Boston, inaspettatamente.
Camminavo lungo il Charles
e vidi le luci duplicarsi, tutte
con il cuore al neon e vibrante,
spalancando la bocca come cantanti d’opera;
e contai le stelle, le mie piccole veterane,
cicatrici fiorite, e capii che stavo portando
il mio amore sulla sponda verde notturna, e in lacrime
aprii il cuore alle auto dirette a est e a ovest
e feci passare un ponticello alla mia verità
e la condussi a casa in fretta col suo fascino
e fino all’alba accumulai queste costanti
per scoprire poi che se n’erano andate.


da L’estrosa abbondanza, Crocetti, 1997- Traduzione di Edoardo Zuccato

Profilo di George Sand (Anna Tito)

 
«Ecco George Sand, nostra contemporanea» annuncia il mensile Magazine Littéraire in apertura del dossier dedicato, in occasione del bicentenario della nascita, che cade in questo luglio, alla scrittrice che si permise tutte le audacie, pubbliche e private: indossava abiti maschili, fumava il sigaro e la pipa, denunciava l’alienazione della vita matrimoniale e affermava il diritto all’amore-passione; ebbe non pochi amanti - «non più di una ventina» a suo dire -, credeva nel genio del popolo e scriveva secondo il proprio istinto. Combatté l’oscurantismo della Chiesa e rimase fedele agli amici e all’ideale di una Repubblica pacifica, contro l’oppressione delle dittature ma anche contro la violenza delle rivoluzioni. Credeva nella supremazia dell’arte e nella profondità delle tradizioni popolari, e in nome della missione sociale della letteratura inventò la moderna scrittura impegnata; odiava il culto del denaro, intravvedendo le malefatte che avrebbe causato l’onnipotenza dell’economia. Denunciò la schiavitù delle donne e lottò in favore della loro indipendenza.
Amandine Aurore Lucile Dupin – questo il suo vero nome - nacque a Parigi il 1° luglio del 1804, in pieno apogeo dell’Impero napoleonico, da una popolana, sarta al Palais Royal, e da un brillante ufficiale dell’esercito napoleonico. La nonna paterna, figlia naturale del maresciallo di Sassonia, crescendola del castello di Nohant, le insegnò i Lumi e la «grazia». Fra il popolo e l’aristocrazia, due modelli di vita e di cultura, scelse le convinzioni democratiche: «Sono figlia di un patrizio e di
una bohémienne. Io sarò sempre con lo schiavo e con la donna del popolo, mai con i regnanti e i loro seguaci» andava ripetendo.
Orfana di padre, e proprietaria del castello in seguito alla morte della nonna, correva nei boschi e si esprimeva in dialetto. Sposò nel 1822, per pura convenienza, il barone Casimir Dudevant da cui ebbe due figli. L’unione subito si rivelò male assortita: appassionato di cavalli e di caccia, Casimir, al contrario di Aurore, detestava la conversazione e la lettura. Non potendo divorziare, si separarono, e lei si fece apostolo del divorzio e della riforma del Codice civile napoleonico.
Conobbe Balzac, prese a collaborare a diverse riviste, e con il diciannovenne Jules Sandeau - il suo primo amante, sembra - scrisse Rose et Blanche nel 1831. Con Indiana (1832) quando per la prima volta utilizzò lo pseudonimo maschile di George Sand – estrapolato con acume e furbizia dalla prima sillaba di Sandeau e dal romantico George Byron di cui era fervente ammiratrice - dette inizio
a una fortunatissima carriera letteraria. Vendette un’infinità di copie e fu tradotto e diffuso all'estero. Fece colpo fra i contemporanei per l’energia della protesta e il vigore della denuncia della condizione femminile. Scrisse oltre un centinaio di romanzi, femministi - oltre a Indiana, Lélia, Valentine -, a sfondo sociale - Le compagnon du Tour de France, Le Meunier d'Angibault, La ville noire, e più raramente storici. E tutti si rivelarono dei best-sellers in Francia e non.
Nell’alta società guardavano con sospetto la giovane scrittrice, la cui vita si arricchiva di numerose, brevi, e non sempre fortunate relazioni amorose, fra lo scandalo dei benpensanti: il poeta Alfred de Musset fu il più romantico, lo scrittore Michel de Bourges il più politico, il teatrante Alexandre Manceau il più devoto, mentre con il musicista Friedrich Chopin, fragile e geniale, il rapporto durò per ben nove anni: «Non si può vivere senza amore» diceva lei. Fu amica di Flaubert e di Stendhal, con cui condivideva la sensibilità critica verso i valori dominanti dell’epoca.
Provocò tutto e tutti, lasciando marito e figli perché «annoiata», e dopo essersi innamorata di Sandeau diciannovenne lo abbandonò per de Musset, con il quale fece un viaggio d'amore a Venezia; all’Hotel Danieli in cui soggiornava con l’innamorato dilaniato dai dolori addominali dovuti al tifo, circuì, in men che non si dica, il medico Pietro Pagello. Di Chopin s’innamorò nel 1835, e questo lungo e controverso rapporto coincise con una straordinaria attività letteraria, con l’impegno politico e la fama a livello internazionale.
Trent’anni dopo, a quasi sessant’anni, era così stimata e famosa che Napoleone III voleva renderle omaggio, nonostante la sua conclamata opposizione al regime imperiale. Ma lei rifiutò, dando, nel rapporto con i potenti di turno, ancora una volta una modernissima lezione di stile.
Era la «camarade Sand», e la odiavano le signore dei salotti e dell’intelligentsia. Delle donne del popolo descrisse l’umiliazione e le sofferenze redigendo, fra gli altri, Consuelo (1841) e La palude del diavolo (1846) che ebbero successo per la finezza psicologica e la forte carica idealistica dell’autrice.
Consapevole della crescente importanza della stampa, creò alcuni periodici, quali “L'éclaireur de l'Indre”, “La Revue indépendante” e “La cause du Peuple”. Ben lontana dall’«arte per l’arte» cara a Flaubert, voleva rendersi utile e si impegnò in tutte le lotte dell’epoca: contro l'ingiustizia e la miseria, la pena di morte e il carcere, per l'emancipazione dei contadini, i diritti delle donne, il libero pensiero, il trionfo delle nazionalità, specie in Italia, e per la Repubblica «democratica e sociale» fondata sull’uguaglianza, il diritto universale, il laicismo e la non violenza.
Al tempo stesso scrittrice, donna, innamorata, repubblicana e femminista, era già un’icona nel corso della Rivoluzione del 1848, e le femministe che l’incensarono l’hanno in seguito arruolata nelle loro battaglie. Morendo, l’8 giugno del 1876 a Nohant all'età di settantadue anni, lasciò Albine, romanzo interrotto. Rifiutò l’estrema unzione, ma sua figlia Solange impose un funerale religioso, cui presero parte Flaubert, Dumas e il principe Napoleone…

"l'Unità", 19 luglio 2004

Ancora lui. Una nota di Francesco Mandarini

Luciano Violante
Il Mazzarino del Re quirinalesco ha trovato la soluzione per consentire al “pregiudicato” di guadagnare tempo e forse la salvezza dall’ignominia della decadenza dal Senato e della non candidabilità. L’inossidabile Violante suggerisce al PD una furbata all’italiana: mandiamo alla corte costituzionale il quesito sulla legge Severino. Letta guadagna tempo e il tempo aiuterà lo “splendido” governo a continuare a galleggiare tra i problemi. 
L’ex magistrato è un garantista a prescindere. Ritiene che Berlusconi debba difendersi anche se ai più sembrerebbe che non abbisogni di ulteriori argomentazioni dopo la condanna della Cassazione per frode fiscale. Per Violante tre gradi di giudizio non sono sufficienti a far decadere per immoralità il principe di Arcore. 
Francesco Mandarini
Importa poco che se il PD accetterà la colta tesi di Violante, Renzi o non Renzi, perderà qualche milione di voti. Con Berlusconi in campo sarà sempre possibile rendere stabile l’alleanza PD/PDL e i seguaci del fantasma di Monti. 
Dopo aver rivalutato “i ragazzi di Salò” Violante salverà anche Berlusconi? Al peggio non c’è mai fine, ma forse un barlume di intelligenza politica esiste anche nell’agglomerato chiamato PD. 
Si allenasse Violante per trovare una soluzione anche quando vi sarà il secondo grado di giudizio per il processo relativo agli eleganti balletti della villetta di Arcore.

Stato di fb, 28 agosto 2016

Monumento al corbezzolo! Alberi patriottici e frutti cardinalizi (Tiziano Fratus)

A parte il castagno e l’ulivo, gli alberi da frutto difficilmente vengono considerati alberi monumentali, anche perché ciliegi, peschi, peri, pruni, meli o cachi difficilmente raggiungono dimensioni ragguardevoli ed eccezionalmente superano il secolo di vita. Alcuni anni fa l'associazione «Patriarchi della natura» curò la pubblicazione di un doppio volume dedicato agli alberi da frutto monumentali in Emilia Romagna (scaricabile dal sito della regione o da www.patriarchinatura.it ) che ha tolto di mezzo ogni dubbio: monumentale non significa soltanto mastodontico.
E così abbiamo scoperto che nel paesaggio agrario italiano esistono peri e meli bicentenari, melograni tricentenari, viti di quattro e seicento cui abbiamo una prima definizione da anni (in Trentino). E carrubi millenari, come se ne segnalano e ne ho potuti abbracciare (con gli occhi) nelle tenutete del Ragusano, in terra di Sicilia. Una pianta che può superare i cento anni di età è quella che ai nostri occhi  raramente supera la soglia dell'arbusto, ovvero il corbezzolo (Arbutus unedo), già conosciuto dai romani, e di cui abbiamo una prima definizione Plinio parte dell'immancabile Plinio il Vecchio (editori, sveglia! Manca un'edizione integrale del suo Naturalis historia in versione tascabile). Proprio la seconda parte della nomenclatura botanica dell'albero, coniata da Carlo Linneo, cioè «unedo», deriva dal fatto che Plinio non lo reputasse un frutto di valore, e quindi mangiandone uno non si sarebbe percepito il bisogno di continuare. Quanto si sbagliava!
Se esiste un frutto dal sapore squisito, delicato e stimolante, è proprio il corbezzolo maturo. Ecco da dove nasce la popolare espressione «Corbezzoli!». Talvolta se ne trovano addirittura nei parchi di ville storiche, come è capitato a chi scrive mentre si trovava a Varese nel giardino di Villa Panza, dove esiste una colonia dominata da un esemplare ultrasecolare spaccato al centro. 
Ma se ne trovano soprattutto lungo la fascia prealpina, in Maremma e nei territori collinari dell'Appennino, fino alle isole, dove si segnalano esemplari con tronchi di 2 metri e mezzo di circonferenza. A fine novembre i frutti, di rosso cardinale, quasi macerante, pendono dai ramoscelli, si spolpano fra le dita e deliziano il palato di chi osa. 
Qualche lettore ricorderà che nel Risorgimento il corbezzolo era considerato un albero patriottico, perché a fine autunno presenta, contemporaneamente, il bianco dei fiori a forma di piccolo canestro raccolti in racemi, il verde del fogliame, il rosso dei frutti maturi, i tre colori della bandiera dell'allora nascente Italia.

Di nostalgia si vive (di Sarantis Thanopulos)

Della nostalgia si dice generalmente male. Ricordo la scena di un film con Macario (Come persi la guerra, credo) ove il comico dichiara: “Brutta malattia la nostalgia. Ho conosciuto a Cuneo uno che ne è morto”. Ma io ho l’impressione che invece, il più delle volte, la nostalgia aiuti a vivere.  
L’articolo qui postato efficacemente riflette e comunica ricerche recenti di psicologia sociale sull’argomento. A me ha riportato alla memoria letture importanti, seppure lontane, nella Gela degli anni 70, soprattutto di notte, confermandomi in una convinzione che ormai fa parte delle mie radici: l’intuizione straordinaria e anticipatrice dei processi che si compiono dentro le anime che possedeva Giacomo Leopardi. 
Invito a rileggere (o a leggere) lo Zibaldone. (S.L.L.)
Nel 1999 uno psicologo sociale di origine greca, Constantine Sedikides, si era da poco trasferito dall’Università del North Carolina all’Università di Southampton, in Inghilterra. Come ha raccontato recentemente al N.Y.Times, qualche volta, durante la settimana, era colpito improvvisamente da attacchi di nostalgia per la sua vita negli Stati Uniti e per i suoi vecchi amici. Uno psicologo clinico del suo dipartimento, con cui gli era capitato di parlarne, gli aveva diagnosticato uno stato depressivo. Solitamente la nostalgia è considerata come patologia, associata alla melanconia e alla depressione. Sedikides, tuttavia, non si sentiva depresso.
La nostalgia, ha dichiarato, gli fa sentire che la sua vita ha radici e continuità. Ciò fornisce una trama alla sua esistenza e gli dà la forza di andare avanti. Rifiutando di vedere nella nostalgia un sentimento negativo, ha impegnato il suo laboratorio di psicologia sociale in una ricerca decennale che ha coinvolto gradualmente ricercatori di tutto il mondo.
La ricerca ha mostrato che la nostalgia controbilancia la solitudine, la noia e l’ansia. Le persone si sentono più vicine e più contente quando condividono ricordi nostalgici. Clay Routledge dell’Universita del North Dakota dice: «La nostalgia ha un importante funzione esistenziale: porta alla nostra mente esperienze predilette che ci assicurano che siamo persone di valore che hanno vite significative».
Sono affermazioni quasi ovvie ma nondimeno importanti perché in controtendenza rispetto alla desoggettivazione dell’esperienza umana che regna indisturbata nel campo della psichiatria, sempre più dominata dalla psicofarmacologia (si può scommettere che in qualche laboratorio già stanno sperimentando un farmaco che curi la nostalgia).
Il dato più interessante riportato da Routledge è il fatto che le persone capaci di nostalgia riescono a gestire meglio la paura della morte. Non conosciamo la nostra morte che in modo indiretto (come presentimento) tramite le perdite che subiamo: se ne va un oggetto e/o un contesto amato e insieme una parte della nostra esperienza, una parte di noi. La nostalgia non è, tuttavia, lo strumento per curare la perdita ma la prova che la cura funziona, che ha fatto effetto. Dietro la nostalgia c’è il lavoro del lutto: l’assunzione interna dell’oggetto perduto e della relazione con esso che ci consente di farlo rivivere in noi e di ritrovarlo, al tempo stesso, nel mondo esterno in oggetti nuovi. Non è la ripetizione del medesimo ma l’incontro del consueto con l’inconsueto, la trasformazione del paesaggio interno in paesaggio esterno e viceversa. Il ricordo struggente di un tempo passato ci dice che si tratta di un tempo (di una storia) vivente che continua a essere in scena dentro di noi. La cosa perduta è diventata gusto, sentimento del vivere che più è radicato nel passato più si appropria del futuro. Interiorizzando le situazioni vissute intensamente, interiorizziamo anche la storia che le precede e le attraversa e il nostro sentire diventa parte della molteplicità dell’esperienza umana che trascende la nostra morte.


“il manifesto”, 20 luglio 2013

27.8.13

Un Papa «liberatore» (di Leonardo Boff )

Leonardo Boff
Leonardo Boff , francescano brasiliano, è considerato da molti l’esponente più significativo della “teologia della liberazione” e di quel cattolicesimo che nel subcontinente latino-americano aveva scelto di stare dalla parte dei poveri e delle loro lotte. Per questo aveva subito dal Vaticano  dei veri e propri processi e la sua opera era stata sconfessata e condannata soprattutto durante i papati di Wojtila e Ratzinger. A sorpresa oggi Boff, a pochi mesi dalla elezione a pontefice di Bergoglio, ha salutato in costui un vero innovatore, scrivendo addirittura un libro che lo connette al santo di cui porta il nome, Francisco de Assis e Francisco de Roma (Editora Mar de Ideias, Rio 2013). Una sorta di sintesi delle ragioni di Boff si ritrova nell’editoriale qui “postato” che “il manifesto” ha collocato in prima pagina, tradotto da Flora Misitano. La mia impressione è che egli affidi troppe speranze al nuovo papa. Non credo che la radicale rivoluzione che Boff già vede in atto sia nella volontà di Bergoglio e ancor meno nelle sue effettive possibilità. E tuttavia ritengo utile, nel mio piccolo, di far circolare le sue tesi, perché siano conosciute e discusse. (S.L.L.)
È azzardato fare un bilancio del pontificato di Francesco, è passato ancora troppo poco tempo per averne una visione d'insieme. In una sorta di lettura braille, che coglie solo i punti rilevanti, potremmo qui elencarne alcuni.

1. Dall'inverno ecclesiale alla primavera: veniamo da due pontificati che sono stati caratterizzati da un ritorno alla grande disciplina e dal controllo delle dottrine. Tale strategia ha dato luogo a una specie di inverno che ha congelato molte iniziative. Con Papa Francesco, venuto da fuori della vecchia cristianità europea, dal Terzo Mondo, è arrivata una ventata di speranza, di sollievo, di allegria di vivere e pensare la fede cristiana. La Chiesa è tornata ad essere una casa spirituale.

2. Da fortezza a casa aperta: i due Papi precedenti avevano lasciato l'impressione che la Chiesa fosse una fortezza, accerchiata da nemici dai quali avremmo dovuto difenderci, in particolare il relativismo, la modernità e la post-modernità. Papa Francesco ha detto chiaramente: «Chi si avvicina alla Chiesa deve trovare porte aperte, non dei doganieri della fede»; «Preferisco una Chiesa incidentata perché è uscita in strada a una Chiesa malata perché chiusa». Più fiducia, quindi, e meno paura.

3.  Da Papa a vescovo di Roma: tutti i Pontefici precedenti si consideravano Papi della Chiesa universale, portatori del supremo potere su tutte le altre chiese e su tutti i fedeli.
Francesco preferisce definirsi vescovo di Roma, recuperando la memoria più antica della Chiesa. Vuole presiedere nella carità e non come previsto dal diritto canonico, considerandosi solo il primo tra uguali. Rifiuta il titolo di Sua Santità, ricordando che «siamo tutti fratelli e sorelle». Si è spogliato di tutti i titoli di potere e onorifici. Il nuovo Annuario Pontificio appena uscito, sulla cui pagina iniziale dovrebbe esserci il nome del Papa con tutti i suoi titoli, reca semplicemente: Francesco, vescovo di Roma.

4. Dal palazzo al convitto: il nome Francesco è più che un nome, sta a indicare un altro progetto di Chiesa sulle orme di San Francesco d'Assisi: «Una Chiesa povera per i poveri», come ha detto, umile, semplice, con «l'odore delle pecore» e non dei fiori dell'altare. Per questo ha lasciato il palazzo apostolico per andare a vivere in un convitto, in una camera semplice, e mangia alla mensa con gli altri ospiti.

5. Dalla dottrina all'esperienza: Francesco non si presenta come dottore, ma come pastore. Parla partendo dalla sofferenza umana, dalla fame nel mondo, dagli immigrati africani sbarcati a Lampedusa. Denuncia il feticismo del denaro e il sistema finanziario mondiale che martirizza interi Paesi.
Con questi atteggiamenti riprende le basi della teologia della liberazione, senza bisogno di citarla. Dice: «Oggi come oggi, se un cristiano non è un rivoluzionario, non è cristiano; deve essere rivoluzionario per la grazia». E continua: «Coinvolgersi in politica è un obbligo per il cristiano, perché la politica è una delle forme più alte di carità». E alla Presidente Cristina Kirchner ha detto: «È la prima volta che abbiamo un Papa peronista», non ha infatti mai nascosto la sua simpatia per il peronismo. I Papi precedenti gettavano una luce sospetta sulla politica, adducendo un'eventuale ideologizzazione della fede.

6. Dall'esclusività all'inclusione: i Papi precedenti, e in particolar modo Benedetto XVI, hanno enfatizzato l'esclusività della Chiesa Cattolica, unica erede di Cristo, al di fuori della quale si è a rischio di perdizione. Francesco, il vescovo di Roma, preferisce il dialogo tra le Chiese in una prospettiva di inclusione anche con le altre religioni, per rinsaldare la pace mondiale.

7. Dalla Chiesa al mondo: I Papi precedenti davano centralità alla Chiesa, rafforzandone le istituzioni e le dottrine. Per Papa Francesco i punti cardine sono: il mondo, i poveri, la tutela della Terra e l'attenzione nei confronti della vita. La questione è: come le Chiese aiutano a difendere la vitalità della Terra e il futuro della vita?
Come si percepisce, sono un nuovo vento, una nuova musica, nuove parole per i vecchi problemi, che ci permettono di pensare ad una nuova primavera della Chiesa.

“il manifesto”, 23 luglio 2013

Scacchi e lotta di classe

«Ha fama di gioco intellettuale, ma basta fare una visita nei circoli e nelle sale dei tornei per scoprire che professori, avvocati e medici scarseggiano, mentre abbondano gli operai, gli impiegati, i pensionati, gli immigrati. Ragazzotti o uomini maturi originari di Paesi poveri, ma di grande tradizione scacchistica, come Albania, Serbia e Filippine, dopo aver trascorso la settimana a spostare cassette di frutta, o su un'impalcatura a costruire palazzi, nei weekend massacrano giovani neolaureati in filosofia o maturi manager».


da Anna Casale, Scacchi attrazione immortale, Aliberti, 2012
in “La Stampa”, 25 maggio 2012

Roma Pigneto. “Movida” e lotta di classe (Alberto Piccinini)

L’ultima pagina del manifesto ospita spesso, rubricate come  Le storie, inchieste su vicende  e situazioni particolari, ma – a loro modo – emblematiche. Questa, del luglio scorso, racconta la faticosa e lenta riaggregazione dei lavoratori dopo il disastro di fine e inizio millennio. Tutto questo avviene nella totale assenza della sinistra politica e – almeno per ora – anche del sindacato; rappresenta comunque una piccola speranza. Sempre meglio della disperazione. (S.L.L.)

La notte non è tenera.
Da un mese e mezzo un «gruppo di compagni» – così si definiscono quando li incontro - si sono messi in testa di organizzare i «lavoratori e lavoratrici della ristorazione» del Pigneto. Periferia scassata fino agli anni ’90 e da qualche anno unico autorizzato quartiere hipster di Roma: il nostro Williamsburg, la nostra Kreuzberg, si dice, e così si estende la fama internazionale del luogo. Un po’ per convincersi, un po’ perché è vero. E aiuta a non tirare in ballo la solita movida, che fa cafone.
Ma il «gruppo di compagni» non teme la parola: «Per chi ci lavora – scrivono in un volantino – movida significa operare a ritmi infernali in ambienti piccoli, fumosi e insalubri come molte cucine, finire il turno in piena notte, avere scombussolato il ciclo fisiologico».
Volantini, megafono all’ora dell’aperitivo, microassemblee fuori dai locali. Alcuni studenti di sociologia che fanno parte del gruppo lavorano intanto a un’inchiesta stile anni ’60 sul centinaio e passa di lavoratori nei bar e ristoranti del quartiere. Ogni giovedì all’una e mezza è convocata un’assemblea nei locali del centro di documentazione
Fucina 62. Li incontriamo qui. Sono in pochi, ma se ne fanno una ragione. Salvatore, baffoni e cappellino, ha memoria dell’intervento politico nelle fabbriche della zona, anni ’70, e parla con amarezza di «precarizzazione strutturale». Inizi da studente fuorisede per arrotondare, o da immigrato per campare; accetti di lavorare in nero o con finti part-time, e ti ritrovi imprigionato per dieci anni tra gli stessi tavolini, nella stessa cucina, davanti a una friggitrice che schizza con la cappa che tira male.
«Prendo 40 euro al giorno per 8 ore, dalle 6 del pomeriggio alle 2 di notte, ma le ore possono diventare anche 10», dice Daniele, ventenne cameriere in uno dei bar d’infilata nella zona pedonale del quartiere. Ci racconta della veloce rotazione dei colleghi, soprattutto con l’estate, della difficoltà di prendersi le pause anche solo per una sigaretta e del piccolo aumento ricevuto dopo 2 anni di lavoro. «Ma da quando hanno capito che non sono così docile – sorride subito – la mia capacità contrattuale è molto calata». Si legge ancora sul volantino dell’Assemblea: «Chiedere un miglioramento di carattere economico, rallentare i ritmi di lavoro, difenderci collettivamente».
Oltre le difficoltà oggettive di avere a che fare con un organizzazione del lavoro «tornata all’Ottocento», come si ripeterà in questa conversazione ogni dieci minuti, la forza dell’iniziativa è quella di essere davvero spiazzante in questo contesto. In questo ex quartiere «rosso» di ferrovieri, tramvieri e ex partigiani, con le casette basse santificate da Pierpaolo Pasolini, la tangenziale est di Fantozzi, i vecchi tram, le ferrovie, la nuova metropolitana in perenne costruzione.
E oggi contenitore meticcio di studenti fuorisede, ciclisti urbani, negozietti bangla, file di ristoranti di qualche pretesa, bio e vintage, accanto ai neon del kebabbaro, con l’angolo dello spaccio e il vecchio mercato al mattino. Certamente «alternativo». Tendenzialmente sensibile quindi a interrogarsi sul destino di chi sta in cucina o dietro il bancone, proprio come da tempo ci si interroga sulla provenienza dei cibi, delle scarpe da ginnastica, dei telefonini persino.
Allegro fino all’ora dell’aperitivo, il Pigneto si fa più cupo e punkabbestia nelle ore della notte, secondo il mood di quella che il Censis in una ricerca recente ha definito «malamovida». Il fenomeno riguarda un po’ tutta Europa. I dati rivelano che la percezione della stragrande maggioranza degli italiani nei confronti della movida è positiva, nonostante tutto. In 19 milioni, calcola il Censis, escono la sera e la notte. Più di quattro milioni, soprattutto venti-trentenni, frequentano con regolarità i luoghi della notte in città e provincia. Commissionata dalla Confcommercio, la ricerca punta il dito soprattutto sull’effetto deleterio della gran circolazione di alcool di cattiva qualità e basso costo, in barba a ogni regola. E non cerca, a dire vero, scappatoie: «La complessità non si governa a colpi di ordinanze, neppure creative».
Del resto, rispetto alla movida e alla sue degenerazioni, in molti avanzano ricette di ordine pubblico, altri tirano in ballo regole commerciali e qualcuno evoca buona educazione. Quasi nessuna di queste ricette ricorda quelli che stanno nella sala macchine del battello ebbro, per citare sportivamente Rimbaud. «Camerieri e cameriere bianche e carini fra i tavoli, e immigrati in cucina», spiega ancora Daniele.
E Lucia. Lucia si è aggiunta alla nostra discussione in ritardo. È magra e ha l’aria stanca. Lavora fino a tarda notte con altre ragazze nella cucina di quello che lei chiama un fast-food. «Prima ci siamo parlate tra di noi – racconta – e poi abbiamo telefonato ai capi». Risposte? «Tutte cazzate. I capi, in gran parte di questi locali, sono soltanto i proprietari, ci mettono i soldi e non sanno niente del lavoro di cucina». Eppure molti qui, intervengo, mettono in menù prodotti biologici, a kilometri zero, artigianali. «Noi saremmo in grado di fare cose molto più buone», continua Lidia, e parla con orgoglio ora, «se solo potessimo lavorare diversamente, con più lentezza. Ma in queste condizioni non è possibile».
Intanto alla nostra discussione, non invitata, si aggiunge Giulia Pietroletti, il nuovo assessore all’Igiene del Municipio. Sui trent’anni, eletta in una lista civica, nata qui nel quartiere. Sta cercando di farsi un quadro della situazione e annuncia la possibilità di intensificare i controlli della Asl e dei vigili nella zona. Lidia e Daniele la interrompono: «Lo sanno tutti come funzionano i controlli. Qualcuno avverte prima e come per magia è tutto a posto: i tavolini rientrano di dieci metri, chi è in nero sparisce». «Io non chiamerò mai vigili e Asl – insiste Lucia – l’ultima volta che si sono fatti vedere hanno preso 200 euro a testa e se ne sono andati».
La movida, raddoppio della precarietà del giorno fino nel cuore della notte, vive sul filo delle regole, spesso di espedienti. I residenti incolpano i consumatori e i vigili, i consumatori se la prendono coi prezzi alti e coi residenti, i gestori dei bar se la prendono con gli affitti, coi bangla che vendono birre da 66 sottocosto. «Noi vogliamo partire dall’organizzazione del lavoro», dice Salvatore. «I lavoratori sono in grado di rallentare la movida, di bloccarla del tutto, se trovano la forza necessaria». E annuncia prossime assemblee volanti nelle strade, picchetti, uomini sandwich davanti ai locali.
Intanto l’inchiesta va avanti, raccoglie storie e esperienze, scopre chi si comporta male e chi malissimo tra i gestori dei locali: chi licenzia, chi sottopaga e chi maltratta. Proprio in un quartiere nel quale le attività commerciali basano la propria attrattiva sull’autenticità dei luoghi e pure su una certa vaga memoria de sinistra, la rivolta dei mozzi della nave potrebbe avere effetti sorprendenti.

“il manifesto” 20 luglio 2013

I fratelli Grimm, le fiabe e le comunità (di Jack Zipes)

Nello scorso novembre 2012 la celebrazione italiana del secondo centenario delle Fiabe dei fratelli Grimm si svolse all’Istituto Goethe di Roma con un discorso dello studioso americano Jack Zipes, di cui “La Stampa” ha ripreso alcuni stralci. Quelli che qui sono “postati”. (S.L.L.)


Ciò che affascinava o imponeva ai Grimm di concentrarsi sull’antica letteratura tedesca era la convinzione che le forme culturali più pure e spontanee - quelle che tenevano insieme una comunità - fossero quelle linguistiche e che bisognasse rintracciarle nel passato. Essi ritenevano inoltre che la letteratura «moderna», per quanto assai ricca, fosse una creazione artificiale e in quanto tale incapace di esprimere l’essenza genuina della cultura del Volk, che scaturiva in modo spontaneo dalle esperienze degli individui e li teneva insieme. Per questo dedicarono tutte le loro energie alla riscoperta delle storie del passato. E per questo il loro amico, il poeta romantico Clemens Brentano, chiese loro di raccogliere ogni genere di racconto popolare con l’intento di servirsene per un volume di fiabe letterarie. Nel 1810 essi gli inviarono 54 testi che per fortuna ricopiarono. Dico per fortuna, perché Brentano finì col perdere il manoscritto nel monastero di Ölenberg in Alsazia e non utilizzò mai quei testi. 
Ma nel frattempo i Grimm continuarono a raccogliere le fiabe da amici, conoscenti e colleghi, e quando capirono che Brentano non avrebbe più utilizzato il loro manoscritto, decisero di seguire il consiglio del comune amico e autore romantico Achin von Arnim e di pubblicare la loro raccolta, che nel frattempo era arrivata a comprendere 86 storie - quelle che per l’appunto pubblicarono nel 1812 e cui si aggiunsero le altre 70, che pubblicarono nel 1815. Queste due raccolte costituirono la prima edizione, corredata di note e prefazioni scientifiche.
[...]
Pur non avendo ancora del tutto formulato la loro teoria del folclore e malgrado le differenze esistenti tra Jacob e Wilhelm - quest’ultimo avrebbe poi infatti optato per una più decisa revisione poetica dei testi raccolti - i fratelli si attennero in sostanza al loro intento originario dal principio alla fine del lavoro sui Kinder-und Hausmärchen: recuperare i resti del passato. In senso più generale, i Grimm cercarono di raccogliere e preservare come gemme sacre e preziose ogni genere e tipo di traccia del passato, vale a dire racconti, miti, canti, favole, leggende, epopee, documenti o altre forme di creazione - dunque non solo fiabe. L’intento era di rintracciare e cogliere l’essenza dell’evoluzione culturale e dimostrare come la lingua naturale, che sgorgava dai bisogni, dagli usi e dai rituali della gente comune, creasse legami autentici e contribuisse a modellare le comunità civili. È questa una delle ragioni per cui definirono la loro raccolta un manuale educativo (Erziehungsbuch), in quanto le fiabe richiamavano ai valori basilari dei popoli germanici e degli altri gruppi europei e l’uso di raccontarle aiutava gli individui a far luce sulle loro stesse esperienze.
[...]
I Grimm cercavano di valorizzare e sostenere la necessità di raccontare storie per creare legami tra gli individui i quali, proprio attraverso il racconto, mettevano in comune le proprie esperienze. Erano convinti che ogni storia e ogni sua variante fossero importanti per mantenere viva la tradizione culturale. Essi rispettavano la differenza e la diversità e allo stesso tempo affermavano che «lo scopo della nostra raccolta non era solo servire la causa della storia della poesia. Il nostro intento era che la poesia insita in essa producesse un effetto, quello di procurare piacere ovunque possibile, diventando perciò un manuale educativo».
[...]
Se c’è un’edizione delle fiabe dei Grimm che meglio rappresenta gli intenti e gli ideali che essi perseguirono fino al 1857 è senz’altro la prima, poiché essi non ne cesellarono né rifinirono le storie come fecero nelle successive edizioni. In esse riusciamo infatti a percepire distintamente le voci dei raccontatori da cui i Grimm le ricevettero e in questo senso le storie, alcune anche in dialetto, sono più autenticamente popolari e genuine, benché talvolta non esteticamente gradevoli come le versioni poi rifinite. In altre parole, i Grimm lasciarono parlare le storie stesse in un modo assai schietto se non proprio grossolano, il che dona a esse quel senso di verità pura e semplice o quel valore educativo voluto dai Grimm.
Soffermandosi sulle fiabe della prima edizione, la prima cosa che il lettore potrà notare è che molte storie furono eliminate dalle successive edizioni per varie ragioni, non narrative, ma in quanto sprovviste dei requisiti voluti dai Grimm, che in prima istanza si sforzavano di pubblicare fiabe di chiara origine tedesca. Per esempio, Il gatto con gli stivali, Barbablu, Principessa Pel di topo e Okerlo furono considerate in seguito troppo francesi per essere ripubblicate. Più tardi i Grimm capirono che questo era un criterio sbagliato, perché era e resta impossibile conoscere le origini certe delle fiabe popolari. Malgrado non sia oggi possibile sapere con certezza perché alcune fiabe furono poi omesse o spostate nelle note, di altre come La Morte e il guardiano d’oche sappiamo invece che venne levata per i suoi tratti letterari barocchi; La matrigna, per la sua natura frammentaria e brutale; Gli animali fedeli, per la sua derivazione dal Siddhi-Kür, una raccolta di fiabe della Mongolia. Col tempo, via via che continuavano a raccogliere varianti provenienti da fonti orali o scritte, ricevute da amici e colleghi, i Grimm rimaneggiarono alcune fiabe della prima edizione combinando le diverse versioni, sostituendo altre con le nuove e spostando altre ancora nelle note di commento.
La seconda cosa che il lettore potrà notare nelle fiabe della prima edizione è che molte di esse sono più brevi e incredibilmente diverse rispetto alle versioni pubblicate nelle successive edizioni. In esse c’è un sapore di oralità e di materia viva. Raperonzolo, per esempio, svela di essere rimasta incinta del principe; la madre di Biancaneve, e non la matrigna, vuole uccidere la sua bellissima figlia per invidia. In terzo luogo, il lettore noterà subito che tutte queste fiabe sono scarne e poco o per niente descrittive. L’enfasi è tutta sull’azione e sulla soluzione dei conflitti. Chi le racconta non mena il can per l’aia. È propenso a comunicare le verità che conosce e anche quando ci sono di mezzo magia, superstizioni, trasformazioni miracolose e brutalità, crede nelle sue storie. La metafora traccia una mappa della realtà di chi ascolta e spinge le persone a imparare dai simboli in che modo affrontare le loro realtà.


“La Stampa”, 30/11/2012