30.4.16

Ritratto di Céline (Alberto Capatti)

Nel 1932, la Francia si appassiona ad un «caso letterario». L’opera del dottor Ferdinand Destouches, Viaggio al termine della notte, successivamente fallisce il premio Goncourt, vince quello Renaudot e si rivela un best-seller. La personalità dell’autore, nascosto dietro lo pseudonimo Céline, vi ha molto contribuito: un medico, bello ed elegante, che esercita in un quartiere popolare; un quarantenne, romanziere per caso, solo per caso, che rilascia interviste e non polemizza con la penna; un ex-combattente infine, pluridecorato ma senza l’ombra di una fierezza marziale. Scrive in una lingua incanaglita dalle ascendenze popolari, indottrinata da un’arte fine del pastiche, sublime per la tensione retorica che l’anima. Vende e piace. Piace molto, anche ai rotocalchi. Il suo viaggio attraverso la guerra e il dopoguerra è di un pacifismo da codardi d’istinto; più che un viaggio, un monologo, ora esasperato ora piagnucoloso, che convince.
Dopo il Viaggio, Morte a credito: altro successo, sforbiciato dalla censura preventiva dell’editore, altra testimonianza, prima della grande guerra, vicina al cuore decrepito dell’800. La questione delle origini del XX° secolo, riviste con la memoria di un parigino di estrazione piccolo borghese, non è irrilevante: nel 1936, Hitler è già al potere, Parigi vacilla fra il Fronte Popolare, la guerra di Spagna e una destra rissosa. Céline canta la miseria e gli ultimi palloni aerostatici. Ma in lui non c’è nostalgia, o piuttosto lo anima una gioia feroce e distruttiva nei confronti di una Francia povera, sgangherata, malsana.
Il dottor Destouches, divorziato, cerca la compagnia delle ballerine, cura le malattie sociali e, nel 1937, misura, col metro della penna, l’entità del disastro europeo. Lo fa, con il linguaggio, l’intemperanza, l’accanimento di un discorso antisemita. Diventerà e resterà il suo stile discorsivo anche quando la prudenza o la vergogna avranno riconvertito i più fascisti. E Céline paga di persona, paga fino in fondo, con una rabbia senza respiro, tutte le persecuzioni verbali, prima inflitte da lui agli altri, ebrei, borghesucci, proletari, poi farneticate fra sé e sé, infine sancite dai tribunali. Dopo la guerra, un processo, una galera (in Danimarca) e un’amnistia, il medico in doppiopetto assomiglia ad un barbone: ne ha i tic, la diffidenza, lo sproloquio, tutto salvo l’alcoolismo. Continua a considerare i connazionali come una razza di degenerati. Torna il successo, prima di morire. È il pallido sole su un corpo scarnificato, scheletrito dall’odio.
Non c’è un solo motivo di onorare, studiare e divulgare Céline, se non se ne accetta, nella tragedia personale, la legittimità del delirio. Il suo razzismo fa parte della storia europea, degli annali novecenteschi, ma non come tale appare plausibile. Quando esplode, al di là di ogni ragionevole o razionale freno, allora diventa un indicatore di culture nazionali, alimentate dalla paura e dalla fobia, Invecchiate fra rimpianti omicidi. Le inclinazioni maligne, grette, crudeli dei suoi pazienti, il dottor Destouches le coltivava per necessità, pur sanandone il corpo. Aveva bisogno delle magagne e dei tradimenti, per credere almeno in qualcosa, o per avere l’impressione di curare, di pensare. L’inumano, nel cuore della più banale, scialba umanità, la morte, al centro della reazione più istintivamente vitale: un principio terapeutico ed etico distorto quanto certe ideologie totalitarie di destra.
Perseguitare per venire perseguitati, urlando sempre la propria innocenza. Nell’economia di un’esistenza, può sembrare una semplice, lampante, patologia paranoide. Non così, con due guerre, gli studi di igiene e la galera, un successo letterario e dieci anni di silenzio involontario, vergognoso. Céline, è chiaro, farnetica sempre, ma la chiave di lettura delle sue giaculatorie e dei suoi piagnistei, pare oggi la medesima che riserviamo alla declamazione dei grandi attori tragici. Barcollando fra la simulazione e la più schietta sincerità, ha detto tutto l’irripetibile, particolarmente in campo politico. Non c’è sconcezza razziale che non gli abbia servito da spunto; non c’è conformismo col quale non abbia fatto sbellicare dalle risa i propri lettori. Per questo, è uno scrittore che ancora oggi non funziona: insincero, disproporzionato, lercio, tagliente, squisito.
Vagheggiava la danza, il corpo perfetto delle ballerine, e riempiva di merda le trincee, le caserme, le case: neanche questa pazzia gli verrà perdonata. Che abbia sognato la bellezza, conferendo un ritmo, un passo giusto alla turpitudine, è stata l’ultima sua indecenza. Aveva tutto per piacere, ha tentato di farlo fino in fondo, fino al disgusto. È inutile riservargli una discreta e postuma ovazione. Del resto, dagli anni 50 in poi, amerà solo i cani e i gatti, rintanato in una villetta di periferia a scrivere Nord e Il ponte di Londra. Non voleva capir nulla delle automobili sempre più numerose, delle vacanze estive e della televisione. Lo intervistavano e sembrava uscito da un copione allucinato.
Quando Bébert, il suo micio più vecchio, muore, nel 1953, magro, sfiancato, pelle ed ossa, Céline lo sostituisce con un pappagallo, Toto. Gli vivrà accanto, negli ultimi anni. Era l’ultimo testimone, accettato, apprezzato, alla sua tavola di lavoro.


“l'Unità”, 2 luglio 1986

Comunicare i saperi. Retorica e linguaggio scientifico (Angelo Varni)

Musei Capitolini, Busto di Cicerone
Saper costruire un discorso persuasivo. Ordinare le proprie ragioni secondo una logica argomentativa in grado di suscitare l’adesione sentimentale e intellettuale dell’interlocutore. Riappropriarsi dei meccanismi del linguaggio capendone le connessioni, tanto più in presenza delle nuove strumentazioni tecniche amplificatrici all’infinito delle antiche forme espressive e gestuali. Appare oggi, cioè, più che mai indispensabile far proprie le modalità dell’antica retorica, come fu tanti secoli fa codificata da Aristotele, Cicerone, Quintiliano, perché solo conoscendone i meccanismi ci si può dotare degli antidoti in grado di farci guardare con consapevolezza critica alle tante insinuanti operazioni di manipolazione delle coscienze.
Bene, dunque, ha fatto il «Domenicale» ad aprire un dibattito sul tema, auspicando una sua diffusione scolastica, in grado di insegnare ai giovani la virtù del dialogo. Quella insostituibile relazione, cioè, dove l’uso meditato della parola faccia da ponte al rapporto con l’altro e consenta, in tal modo, uno scambio di considerazioni, insieme a un intreccio di valutazioni reciproche, in grado di rompere le barriere delle attuali finte socializzazioni, affidate a strumenti che favoriscono solo la moltiplicazione delle solitudini.
In particolare, nell’attuale realtà dominata da una sorta di “invasione” tecnologica, diventa quantomai indispensabile dedicarsi alla corretta diffusione di un linguaggio scientifico, che sgombri il campo dal considerare il discorso relativo ai temi della scienza immobile nella sua fissità, indiscutibile nelle sue acquisizioni valide una volta per tutte. Con un comportamento in tal modo opposto all’operare stesso degli scienziati, i quali maturano i loro risultati lungo un complesso itinerario storico e comunicativo non dissimile dai processi dialettici di tutte le altre discipline.
Il rischio di un tale comportamento, favorito da questa mancanza di comprensione del linguaggio scientifico, è – come accade – di accedere alle informazioni della scienza facendole proprie quali oracoli magici cui soggiacere in termini fideistici e di schieramento irrazionale. Basta pensare a quanto accade in materia di clima, di Ogm, di elettrosmog, di impiego delle staminali e così via.
Ma l’esigenza odierna di sensibilizzarsi a un percorso formativo attento a un corretto discorso scientifico, non è solo legato all’accresciuta dimensione quantitativa della presenza della “scienza” nella nostra quotidianità. Riguarda bensì l’avvenuto superamento – nella pratica dell’attività produttiva oltre che nella teoria – dell’antica dicotomia tra scienze “dure” e humanities ( di solito corredata dall’auspicio, sempre disatteso nei fatti nel nostro Paese, da un loro integrarsi) , in quanto i contenuti del saper fare in senso manuale e finanche artigianale nei nuovi terreni in corso di esplorazione dell’informatica, sono forniti da ambiti di linguaggio e di conoscenze critiche appartenenti appunto a settori conoscitivi diversi ed apparentemente lontani, che solo attraverso un fecondo confronto dialogico possono davvero interagire.
Ritengo, dunque, indispensabile, di fronte ad una simile esigenza, applicarsi con urgenza e fantasia concretamente creativa ad individuare traiettorie formative dei corsi universitari, dove si sfondi davvero una frontiera di incomunicabilità, dominata da pigra inconsapevolezza del reale, che ritiene sufficiente impartire agli allievi qualche nozione dell’uno e dell’altro mondo di conoscenze, per avviare invece un effettivo intreccio di competenze. Come si potrà altrimenti sperare che la fruizione dei nostri beni culturali possa davvero adeguarsi alle esigenze dell’oggi? Come pensare che la straordinaria capacità inventiva della nostra meccanica di precisione possa davvero reggere le sfide del futuro solo affidandosi all’indiscussa abilità dell’antica tradizione artigianale? E questo per parlare solo dei settori di più evidente importanza per il nostro Paese.
È certo un percorso impervio e da costruire con paziente applicazione, ma per il quale non si può prescindere dall’uso di un linguaggio criticamente avvertito, estraneo alle improvvisazioni, ai luoghi comuni, alle facili scorciatoie di affermazioni più rivolte a condizionare che a formare consapevolezze.


“Sole 24 Ore Domenica”, 1 marzo 2015

L'ultimo Hemingway (Massimo Bacigalupo)

«Noi poeti si comincia in allegria; / ma infine ne deriva abbattimento e pazzia» dice un celebre distico di William Wordsworth. Esso ha trovato numerose conferme nel Novecento, ad esempio nella «generazione perduta» degli anni 20: Pound, Fitzgerald, Hemingway... A richiamare alla mente il declino di Hemingway provvedono le opere postume che i suoi editori continuano a mettere fuori, e che del vigore del suo primo periodo conservano rare tracce. Da parte loro, i critici si sono accaniti sull’idolo crollato in maniera tutta hemingwayana.
Nel 1964 uscì Festa mobile, memoriale della bohème parigina, in cui si denunciarono livori e meschinerie. Nel 1970 fu il turno di Isole nella corrente, che piacque ancora meno. Arriva ora, giusto a 25 anni dalla morte, Un’estate pericolosa, rivisitazione della corrida per cui qualcuno ha parlato di «macelleria sbronza», mentre all’orizzonte si annuncia Il giardino dell’Eden, romanzo che più degli altri testi postumi e piaciuto ai critici americani, ma che è proprio la storia di uno scrittore fallito.
Un’estate pericolosa (trad. di Vincenzo Mantovani, Milano, Mondadori, pp. 275, L. 25.000) nacque nel 1959 come un reportage per «Life», che voleva ripetere il successo del numero tutto dedicato a Il vecchio e il mare nel 1952. Allo scopo inviò il sessantenne laureato Nobel nelle arene spagnole a vedere cos’era rimasto del mondo della corrida ai cui egli aveva ragionato in Morte nel pomeriggio (1932). Ma qualcosa non funzionò. «Ritornato alla Finca Vigìa (Cuba)» scrive Giovanni Cecchin nel suo utile Invito alla lettura di Hemingway (Milano, Mursia, pp. 180, L. 5.000), lo scrittore «cerca di mettere in ordine gli appunti, ma il progettato articolo di 10.000 parole si allarga smisuratamente sino a divenire un incubo di 688 pagine dattiloscritte che lo esaurisce. Deve ora ridurlo, non ce la fa da solo e ne è sconvolto. Si fa aiutare da Hotchner: “Hotch, sto crollando, non ce la faccio più a scrivere”».
Il canovaccio sfuggito di mano a Hemingway passò così ai redattori di «Life» che ne ricavarono, senza molta soddisfazione, ciò che serviva loro. Ora la Scribner’s ha tentato un altro restauro e pubblica una più ampia redazione di 200 pagine, facendola precedere da una prefazione di 50 pagine di James A. Michener, noto per i suoi best-seller sulla Spagna e altro. Il risultato è meno infelice di quanto non ci si possa aspettare e può essere un modo per avvicinare il precocemente vecchio Hemingway in crisi.
Il testo è tutto centrato sulla sfida fra due stelle dell’arena, Luis Miguel Dominguin, il favorito di Picasso, e suo cognato Antonio Ordonez. «Hem» cerca di tenersi equidistante, tanto più che Dominguin lo tratta con deferenza e dedica un toro alla moglie Mary, ma in realtà tifa sfacciatamente per Ordonez, su cui proietta tutta la sua volontà di primeggiare, laddove in Dominguin surclassato e amareggiato dal brillante cognato possiamo intravedere una parte più vera del vecchio reporter. Seguiamo i due matador da una plaza de toros a un’altra e sentiamo la prosa di Hemingway vibrare sulla lama del rasoio del momento della verità. Egli cerca delle espressioni semplici che risultino nuove e aderenti alla vita autentica dei suoi beniamini, i quali difendono una corrida classica in un contesto in cui essa sta rapidamente divenendo una farsa turistica. Fra l’uomo e il toro nell’attimo del passaggio di petto «non si intravede nessuna luce» (e formule analoghe); il toro «non si accorge di essere morto», tanto perfetta e indolore è stata l’uccisione. Fra l’uomo e l’animale c’è un patto profondo, non odio, giacché il primo deve insegnare al secondo a morire, spesso organizzandone ed educandone i riflessi prima di poter compiere i passaggi più pericolosi. Così la corrida, questa «faccenda di denaro e di morte», non è troppo lontana dalle cose che più premono agli uomini: il piacere, il dolore, il coraggio, il potere...
Tutto ciò però Papà Hem non lo teorizza, come aveva fatto con la voce un po’ chiocchia di Gertrude Stein in Morte nel pomeriggio, ma lo dà per acquisito nelle sue descrizioni di combattimenti, brevi conversazioni con Antonio e Luis Miguel, serate passate sulla spiaggia a mangiare e bere, qualche emozione ulteriore strappata alla meglio alle circostanze, le ragazze di Pamplona, il lupo di Saelices: «Ispezionammo il bestiame, il pollaio, le stalle e l’armeria, e io entrai nella gabbia di un lupo che era stato appena catturato nei paraggi e lo feci giocare, con grande spasso di Antonio. Il lupo sembrava sanissimo e le probabilità che fosse idrofobo mi parevano molto scarse e allora pensai che l’unico rischio che correvo era che mi mordesse: perché dunque non entrare nella gabbia a vedere se si poteva giocare con lui? Il lupo era molto simpatico e riconosceva chi amava i lupi». Hemingway un po’ recita la parte che si è scelta nella letteratura del secolo, ma la sua prosa descrittiva imitata dovunque non fa pesare la cosa, anzi rende memorabili questo e altri episodi.
Morte nel pomeriggio era un libro sconclusionato ma tutto di Hemingway. Con Un’estate pericolosa ci lascia perplessi sapere che abbiamo a che fare con una redazione voluta dall’editore, insomma con un falso. Michener ci dice che il testo «era prolisso, a tratti sconclusionato, e appesantito da inutili minuzie sull’arte della corrida», e che i redattori hanno deciso di tagliare tutti gli episodi riguardanti altri toreri per lasciare che i due contendenti campeggiassero in un duello tutto americano. Certo che così leggiamo pagine che altrimenti difficilmente avremmo conosciuto.
È una faccenda paradossale ed emblematica. Nella plaza de toros l’uomo è solo con l’animale, e così voleva essere Hemingway con la scrittura. Ma la celebrazione dell’ardimento solitario si compie in un’opera che è essa stessa una corrida fallita, nella quale lo scrittore non ha avuto ragione del materiale e ha dovuto chiamare a soccorso i suoi aiuti. Un’ingloriosa celebrazione della gloria, dunque, un barare delle circostanze, che cospirano a confermare che la corrida-letteratura è divenuta fenomeno di massa, turismo, merce. Il lettore-spettatore può illudersi che tutto sia regolare, ma le corna del toro sono state segate.
Le corrispondenze non finiscono qui. Hemingway tifava per Ordonez, in una proiezione di machismo che potrebbe celare un’attrazione omosessuale. E il primato, già dubbio, di Antonio, ebbe breve vita. «Negli anni che seguirono», dice Michener, «lo vidi battersi forse due dozzine di volte, e immancabilmente si coprì di vergogna... era goffo e sfuggente, terrorizzato — evidentemente — da ogni toro, se era un vero toro, col quale doveva misurarsi. Ricorreva a tutti i trucchi più spregevoli, proprio quelli che Hemingway disprezzava, usando malamente sia la cappa sia la muleta e uccidendo la bestia con un’ignobile botta al volo laterale».
Alla paura ai Ordonez possiamo porre accanto quella di David Bourne, l’eroe di Il giardino dell’Eden (il suo nome significa «limite»): «Quando quel giorno smise finalmente di scrivere era pomeriggio. Aveva cominciato una frase appena era andato in studio e l’aveva finita ma non riusciva a scrivere nient’altro. La cancellò e cominciò un’altra frase e di nuovo arrivò al vuoto completo. Conosceva la frase successiva ma non sapeva scriverla. Ricominciò con una semplice frase dichiarativa... In capo a due ore era ancora lì. Non gli riusciva di scrivere più d'un periodo, e i periodi erano sempre più semplici e banali. Lavorò quattro ore prima di riconoscere che la volontà non serviva... Lo ammise senza accettarlo, chiuse e ripose il quaderno con le file di righe cancellate».
Meglio comunque il silenzio dei trucchi. Meglio quel colpo di fucile che svegliò Mary Hemingway la mattina del 2 luglio di venticinque anni fa.

“l'Unità”, 2 luglio 1986

Non era un bersagliere l'amante di Lady Chatterley (Madeline Merlini)

Madeline Merlini si è occupata di viaggiatori e scrittori inglesi in Italia, pubblicando tra l’altro il manoscritto inedito del viaggio di C. A. Hinde in Italia nel 1819 (Slatkine, Ginevra). Nella collana «Invito alla lettura» dell’editore Mursia sta per uscire il suo volume dedicato a D. H. Lawrence. (Nota di “Tuttolibri-La Stampa”)
David Herbert Lawrence con la moglie Frieda in una foto "italiana" degli anni 20 del Novecento
Il capolavoro di Lawrence e la figura del guardiacaccia
È ritornata sulla stampa italiana (vedi ad esempio l’articolo di Laura Lilli sulla Repubblica del 16 maggio -http://salvatoreloleggio.blogspot.it/2016/04/era-un-bersagliere-il-focoso-amante-di.html ), la leggenda secondo cui l’originale di Mellors, il guardiacaccia dell’Amante di Lady Chatterley sarebbe stato il savonese Angelo Ravagli, ufficiale dei bersaglieri, che affittò la sua casa di Spotorno ai coniugi Lawrence dal novembre 1925 all’aprile del 1926. Già Alberto Bevilacqua nel suo Curioso delle donne (Mondadori, 1983) riporta un’intervista del 1970 coll’ottantenne Ravagli (diventato chissà perché, Ravigli), in cui, con una strizzatina d’occhio, il patetico vecchietto insiste: «Io sono sempre stato bersagliere. In tutto. Capisce cosa intendo?».
A soccorso di tale leggenda sarebbe intervenuta, secondo la Lilli, la scoperta di lettere finora sconosciute, scoperta avvenuta in sospetta concomitanza col trentaduesimo congresso filatelico italiano a Spotorno del maggio scorso. Tali lettere non risultano pubblicate in nessuna sede scientifica: comunque sia, anche se tali inediti esistono (cosa di cui dubitiamo), essi ben poco possono aggiungere a una storia ampiamente nota.
Spiace infatti contraddire i sostenitori della tesi del «latin lover» (bersagliere, per di più), ma Angelo Ravagli non ha nulla a che vedere con Mellors anche se è certamente cospicuo il ruolo che giocò nella vita di Frieda Lawrence, che fu sua amante, che egli raggiunse nel Nuovo Messico nel 1935, e che finalmente sposò nel 1950 (Frieda morì nel 1956 a settantasette anni). Ma tutto questo è cosa ben nota e documentata.
Non sappiamo cosa pensasse Lawrence di Ravagli. L’unico riferimento è in una lettera a Martin Secker, il suo editore, dove descrive «the Tenente» come «piuttosto lacrimoso e sconsolato». Se Lawrence avesse voluto attestare la sua antipatia ne avrebbe potuto fare un ritratto feroce come fece di Middleton Murry (pure amante di Frieda e più illustre di Ravagli in diversi racconti come The Border Line, The Last Laugh ecc. Certamente di un possibile amante di sua moglie egli non avrebbe fatto un eroe dell'eroe positivo com'è Mellors.Altrettanto fantasiosa sembra l'identificazione della capanna del guardiacaccia con la Villa Bemarda, la casa che Ravagli affittò ai coniugi Lauvence. La casa, come apprendiamo da una lettera dello scrittore a Middleton Murry, era una costruzione a quattro piani: qualcosa di molto diverso dalla capanna di un guardiacaccia dei Midlands.
La scelta del mestiere di guardiacaccia non è casuale ma ha un preciso significato simbolico. Durante gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza di Lawrence i boschi che si stendevano oltre la cittadina mineraria di Eastwood dove nacque furono per lui un santuario: custode del santuario era il guardiacaccia. Il ragazzo che si spingeva nei boschi per raccogliere campanule era un «trespasser» (trasgressore) e ne aveva coscienza. La sua opera è costellata di guardiacaccia e «trespassers». Infitti nel suo primo romanzo, Il pavone bianco, la voce profetica è affidata ad un guardiacaccia vedovo di un’aristocratica. Il suo secondo romanzo s'intitola The Trespasser. Un altro guardiacaccia compare nel racconto The Shades of Spring mentre nella novella The Ladybird, la protagonista, modellata su Lady Cynthia Asquith, amica dello scrittore ammette che avere un amante guardiacaccia non le spiacerebbe.
Il guardiacaccia ha una funzione simbolica nell’opera di Lawrence in quanto da una parte ha un più diretto, immediato contatto con la natura, dall’altra ha uno speciale rapporto con i « trespassers», cioè tutti quelli che oltrepassano un limite sia fisico che ideologico e di classe. Inutile sottolineare la coscienza che Lawrence aveva della sua opera in questo senso. Se identificazioni possono essere fatte esse riguardano piuttosto il padre dell’autore in quanto le varie figure del guardiacaccia rassomigliano a Arthur Lawrence. Il protagonista di The Shades of Spring si chiama infatti Arthur mentre Mellors è quasi un anagramma di Morel, padre del protagonista nell’autobiografico Figli e Amanti.
Lawrence, inoltre, attese a ben tre stesure dell’Amante di Lady Chatterley. Nella prima e seconda stesura il guardiacaccia si chiama Parkin. Il nome e soprattutto il modo di esprimersi ne denotano la provenienza dalle classi umili: egli è perfino segretario del locale partito comunista. Tutte cose ovviamente molto lontane da ciò che possiamo immaginare fosse Ravagli.
Mellors compare nella terza stesura con caratteristiche del tutto diverse: sotto la scorza apparentemente rude è un intellettuale che impersona le idee dello stesso scrittore: la liberazione dell’uomo attraverso una sessualità basata sulla tenerezza, il rifiuto della società industriale e un più diretto rapporto con la natura. Addirittura oltraggiosa per la memoria di Lawrence è l’affermazione di Bevilacqua che Sir Clifford (il gelido marito di Lady Chatterley, prototipo dell’eroe negativo) sia lo stesso Lawrence.
Comunque, ridurre la genesi dell’Amante di Lady Chatterley alla rappresentazione di una storia di corna è veramente un insulto immeritato che stupisce possa cogliere credito a cinquantaquattro anni dalla morte dello scrittore.


Tuttolibri – La Stampa, 30 giugno 1984

Era un bersagliere il focoso amante di Lady Chatterley (Laura Lilli)

Poco meno di 32 anni fa, nel corso del romanzesco 1984, apparve su “la Repubblica” la notizia che segue, raccontata e commentata con toni trionfali da Laura Lilli. La giornalista lasciava intuire, ma tralasciava di esplicitare l'ipotesi che nella figura di Lady Chatterley si potesse celare Frieda Von Richtofen, la moglie di Lawrence (che della pittoresca relazione adulterina sarebbe stato vittima o forse complice, in ogni caso testimone attento).
C'è inoltre qualche imprecisione sul ruolo che l'ex ufficiale dei bersaglieri ciclisti, Angelo Ravagli, svolgeva nel castello di Spotorno, al tempo della permanenza dei coniugi Lawrence. L'articolo lascia intendere che fosse il proprietario di un castello e invece – diverse altre fonti concordano - ai Lawrence aveva affittato solo una casa.
Non mancheranno nelle settimane successive negazioni e smentite su altri quotidiani: quella di Madeline Merlini, da “La Stampa”, potrà rintracciarsi in questo stesso blog http://salvatoreloleggio.blogspot.it/2016/04/non-era-un-bersagliere-lamante-di-lady.html?spref=fb ). (S.L.L.)
Angelo Ravagli nel 1923, quand'era bersagliere
Buone notizie per i latin lovers: l'amante di Lady Chatterley, il solitario e sanguigno Mellors, protagonista del celebre e, per l'epoca, tanto scandaloso romanzo di David Herbert Lawrence, era un italiano.
E, oltre che italiano, era anche un capitano dei bersaglieri.
La notizia, adombrata pochi anni fa da qualche critico letterario (molti si sono chiesti chi fosse questo misterioso amante, anche se la sua identità non riveste poi uno strepitoso valore letterario), è ora confermata da una raccolta di lettere scritte nel 1925 (il romanzo è del '26) dallo stesso Lawrence. La raccolta, scoperta presso un antiquario di Londra, verrà presentata in anteprima al trentaduesimo congresso filatelico italiano in programma sabato e domenica prossima a Spotorno, dove Lawrence compose il suo peccaminoso romanzo.
Il bersagliere-amante si chiamava Angelo Ravagli. Il "capanno" in cui incontrava la bionda e sensuale lady stanca di un marito assai poco incandescente, era in realtà il suo castello (di Spotorno, appunto), un vasto quadrilatero che risale al 1100 e che oggi appartiene agli eredi. Un film girato negli Stati Uniti, ma non ancora arrivato in Italia, sancirà infine anche cinematograficamente l'identità del latin lover. Protagonisti sono Ava Gardner e Maurizio Merli, nella parte del guardiacaccia Mellors, che nella vicenda cinematografica si chiama appunto Angelo Ravagli. Nessuno, di solito, pensa ai bersaglieri in termini erotici. Anche a rievocare gli entusiasmi di Porta Pia, anche a volersi sentire deamicisianamente patriottici, immaginando sfilate di corsa con le penne al vento, il tricolore che garrisce e le ragazze ridenti che lanciano fiori, l'eros rimane lontano. "Quando passano per via/ gli animosi bersaglieri/ sento affetto e simpatia/ pei gagliardi militari", recita una canzoncina dei primi del secolo. Affetto e simpatia, appunto; e magari un lungo fidanzamento, scandito da lettere d'amore un po' di maniera, con qualche "ti scrivo questa mia per farti sapere che ti penso sempre". Forse, qualche "grado" più alto, azzardava qualche pudico dannunzianesimo: "mia adorata... l'attesa mi consuma".
La "gagliardia" dei bersaglieri si traduce di solito, nell'immaginario collettivo, in imprese ginniche: cerchi di fuoco saltati a parate fasciste, biciclette, avanzate di corsa al suono di "Tripoli, bel suol d'amore...". L' amore, se fa capolino in queste fantasticherie, è piuttosto del tipo del film Amore e ginnastica: baffi a manubrio, magliette a righe, contorsioni dagli "anelli". Invece, ecco: ci sono (e comunque ci sono stati) bersaglieri decisamente, audacemente erotici.
Così era senza dubbio l'affascinante Mellors-Ravagli, che a Lady Chatterley intrecciava i peli sul pube. Essa gli correva davanti, nuda, sui prati fra le vigne, e poi egli la conduceva a intensi incontri d' amore, quasi fauneschi, scarsi di parole, nel capanno-castello. Oltre che dotato di una forte carica erotica, questo bersagliere-amante sapeva anche essere, nei lontani Anni Venti, audacemente non conformista. Erano infatti gli anni delle alcove, delle lampade velate, delle cineserie, delle vestaglie di seta e di velluto dei profumi d'incenso, degli "o mia divina" e insomma di tutte le possibili dannunzierie.
Il capitano di Spotorno, invece, era evidentemente un uomo che amava l'amore gioioso e pagano dell'aria aperta. Erba, il luccichio della riviera e un corpo nudo di donna fra gli alberi e i vigneti, "prima" del capanno. Era anche un uomo a cui, nel fare l'amore, piaceva giocare: dà veri e propri nomi agli organi sessuali, li anima, li fa vivere di una vita autonoma. Cose che questo secolo in realtà al suo inizio ancora tanto vittoriano (quando Lawrence scriveva si portavano ancora i cappelli a cilindro, e Wilhelm Reich veniva bollato come eretico della psicoanalisi), avrebbe pubblicamente, coralmente scoperto solo nei Favolosi Anni Sessanta, o negli "ecologici" Anni Settanta.
Dopo il 1930, quando Lawrence morì, Ravagli ne sposò la vedova. Un bersagliere-amante che non aveva paura di nulla: nemmeno delle istituzioni.


“la Repubblica”,18 maggio 1984  

29.4.16

Antichi oratori. Raffinati o effeminati? (da Aulo Gellio).

Il busto di Demostene del British Museum,
copia romana di una statua attribuita a Policleto
È noto che Demostene aveva un modo di abbigliarsi, e di curare in genere il corpo e la persona, raffinato ed elegante, fin troppo accurato. Da qui gli vennero le contumelie degli avversari che, oltre a rinfacciargli le “graziose mantelline” e le “morbide tunichette”, non gli risparmiarono parole turpi e disonorevoli, fino a farlo passare per un tipo poco virile e dalla bocca viziosa.
Allo stesso modo fu trattato Quinto Ortensio, che si può considerare il più importante oratore del suo tempo, Cicerone escluso. Siccome si vestiva con grande eleganza e meticolosa attenzione ai particolari e visto che le sue mani, quando parlava in pubblico, mostravano una vivacissima mobilità gestuale, fu colpito da molte insolenze e apostrofi ingiuriose nel corso dei processi e delle arringhe, come se fosse un guitto. Una volta Lucio Torquato, uomo rozzo e privo di spirito, mentre si trattava la causa di Silla, si lasciò andare davanti alla corte giudicante a un'offesa più grave e infamante, dicendo che non era neanche un istrione ma una soubrette e lo chiamò con il nome di una attrice-ballerina al tempo famosissima, Dionisia. Ortensio replicò con voce soave e calma: “Dionisia? Mi sta bene, preferisco essere Dionisia piuttosto che uno come te senza Muse, senza Afrodite, senza Dioniso, cioè senza cultura, bellezza ed amore, e sempre fuori luogo come chi va da inesperto ai riti dionisiaci”.

Noctes Atticae, Liber I capitulum V

La traduzione è mia. Per evitare annotazioni mi sono preso la libertà di inserire nel testo qualche elemento di spiegazione. (S.L.L.)


Da Le notti attiche (a cura di Giorgio Bernardi-Perini), UTET, 2007

"Costruire" libri (Leonardo Sciascia)

Vincenzo Consolo e Leonardo Sciascia
... Polemicamente, per aver sentito qualcuno dire, negativamente, che è un libro costruito: certo che lo è; ed è impensabile che i buoni libri non lo siano (senza dire dei grandi), come è impensabile che non lo sia una casa. L'abitabilità di un libro dipende da questo semplice e indispensabile fatto: che sia costruito e - appunto - a regola di abitabilità. I libri inabitabili, cioè i libri senza lettori, sono quelli non costruiti; e oggi sono proprio tanti.

Postilla
Queste considerazioni d'ordine generale si ritrovano in un breve saggio dal titolo L'ignoto marinaio, (in Cruciverba, Einaudi, 1985) riferite al romanzo di Vincenzo Consolo, Il sorriso dell'ignoto marinaio.

28.4.16

A quest'età. Una poesia di Carlo Betocchi (1899 - 1986)

A quest'età la vita che rallenta
si riveste di una grossa corteccia
entro la quale l'anima è non meno
tenera, ma soltanto più solitaria.
Ivi la vita sente e ripensa se stessa
con i medesimi palpiti; ma la dolce
fruizione dei sensi per lei va perdendosi
come in un torbido specchio le immagini.

Tutte le poesie, Garzanti, 1996

“1984” di Orwell e lo stalinismo (Aldo Natoli)

George Orwell
Il 28 aprile 1984, esattamente 34 anni fa, all'interno di un convegno-seminario su Il futuro come presente, organizzato dalla facoltà di Lettere della locale università, si svolse a Venezia un dibattito sul nesso tra il celebre 1984 di Orwell e lo stalinismo. Ne discussero Charles Bettelheim, Paul Seeezy e Aldo Natoli. Della relazione di quest'ultimo “il manifesto” propose ai lettori la parte centrale, quella che qui riporto. (S.L.L.)
Stalin
Hanna Arendt, ispirandosi al nazismo e al regime staliniano della seconda metà degli anni ’30, ha descritto un tipo di regime totalitario la cui vera essenza è il terrore. Tuttavia in tale regime la propaganda conserva ancora una funzione, sia pure soltanto come uno strumento nei rapporti con il mondo esterno. Ed anche l’uso del terrore ha una sua flessibilità, non esclude affatto l’esistenza di aree di consenso passive ed attive.
In 1984 invece (curiosamente Orwell è tptalmente ignorato dalla Arendt) non esiste più un mondo esterno, la propaganda ha cessato di esistere, come pure il consenso. Ci troviamo di fronte ad un regime di puro dominio, che non ha più bisogno di egemonia. Il terrore è una sorta di a priori, assoluto e permanente, non è più uno strumento, ma l’elemento costitutivo del potere. Solo per questo esso può scatenare processi di mutazione della natura stessa dell’uomo nel senso di abolizione della sfera della privatezza, dei rapporti interpersonali, dei sentimenti della memoria, della conoscenza autonoma. L’interiorizzazione del terrore riduce il singolo a mero oggetto del potere. Per Marx l’individuo era l’insieme dei suoi rapporti sociali. Nel mondo di Orwell l’individuo non può sussistere che come un insieme di rapporti statali. Società e privatezza sono totalmente assorbiti nella trama ubiquitaria del potere e questo si concentra nell’immagine di un capo onniveggente e infallibile, che in ogni luogo vede e parla da un teleschermo. Così pervade ed occupa la dimensione intima che già era stata quella della coscienza del singolo.
Ne consegue che i fatti della realtà presente e passata (la storia) perdono ogni consistenza oggettiva. Tutti possono essere rifabbricati secondo la sola verità ammessa dal potere, nessuna alternativa, variante o sfumatura è ammessa. La legge ha una corda sola, una sola lettera. A questo punto l’esigenza di un linguaggio stereotipato, che non lasci spazio alcuno alla espressione della fantasia, diventa una logica necessità. Se il verbo era all’origine dell’universo dell’uomo, il compiersi della disumanità deve coincidere con l’abolizione della parola. La totale alienazione implica la cessazione di ogni comunicazione, fuori dalle disposizioni anonime del potere. Ogni residuo conato espressivo è trasgressione. La privatezza è di per sé e in qualsiasi forma, trasgressione. Massima trasgressione sarà l’amore perché ricostituisce il microcosmo dell’individuo sensibile, avente il proprio fine in sé e nell’altro, nel quale è pronto ad annullarsi?
Ciò è incompatibile con l’universo statale-vegetativo di Orwell e il suo totale annientamento è la condizione per la sopravvivenza in quella dimensione. La tortura più orribile cui Winston, alla fine, sta per essere sottoposto, non ha lo scopo di strappargli alcun segreto (egli non ne ha mai avuto e non ne ha alcuno), ha lo scopo di sradicare e annientare in lui il desiderio e la capacità di trasferire le ragioni della propria vita in un altro essere, Giulia. Quando Winston arriverà a negare totalmente tale impulso, chiedendo che non lui stesso ma «l’altro» al suo posto sia sottoposto al supplizio estremo, questo cesserà immediatamente perché l’ultima scintilla di umanità sarà ormai estinta e con essa l'origine stessa della trasgressione.
Orwell proietta nel 1984 e su scala mondiale l’incubo del terrore totale. È l’espressione del profondo pessimismo e del rifiuto della utopia cui era approdato. Non proverà mai più l’improvviso fervore, la travolgente simpatia che ha sentito in un giorno del dicembre 1936 nella caserma Lenin di Barcellona, dove stava arruolandosi come miliziano, per un operaio italiano, che, anche lui è accorso volontario in difesa della repubblica e in nome dell’internazionalismo :
In 1984 questi moti del cuore sono semplicemente impensabili, non esistono mai e non possono esistere nel racconto perché essi sono da tempo estinti nel narratore e questi non riuscirà mai a rivivere una emozione paragonabile neanche in un solo attimo dell’avventura di amore di Winston e di Giulia.
1984 è la proiezione nel tempo e nello spazio, fino a pervaderli totalmente, della disumanità del potere e, anche e di conseguenza, degli effetti devastanti che quella produce nel cuore degli uomini. Il terrore come potere totale, ha la dinamica di un universo in espansione : invade tutto il pianeta, abolisce la storia dell’uomo, ne aggredisce la natura.
Fosca utopia della disperazione, contiene certamente un monito ma nessuna via di scampo. Orwell muore agli inizi degli anni ’50 e lascia ai posteri solo gli incubi della sua ragione, il suo teorema poggia su basi oggettive inoppugnabili, ma la sua dimostrazione non semplificherà fin oltre l’assurdo gli eventi di una storia che non è stata ancora abolita? Fra il 1948 e il 1949 egli aveva potuto riconoscere in Unione sovietica la nuova fase di terrore (l'«affa re» di Leningrado, la campagna antisemita condotta sotto l’etichetta della lotta contro il cosmopolitismo), che caratterizzò gli ultimi anni di Stalin e che, dopo la morte di Orwell, culminò in Unione sovietica con la fabbricazione del «complotto dei medici», in Cecoslovacchia e in Ungheria, rispettivamente, con i processi contro Slansky e Rajk.
Ma, a partire dalla primavera del 1953, subito dopo la morte di Stalin, fin dai primissimi atti dei suoi successori fu chiaro che la via della restaurazione del terrore assoluto veniva decisamente scartata (era infatti impraticabile), gli strumenti poliziesco-militari necessari per la sua attuazione erano ridimensionati e ricondotti sotto il controllo politico e il sistema del potere, senza perdere nel complesso le sue caratteristiche specifiche, veniva orientato verso una parziale ricerca del consenso.
I confusi conati riformatori di Khrusciov ebbero questo significato : i provvedimenti per il miglioramento delle condizioni di vita dei contadini, le prime modificazioni del rapporto fra industria pesante e industria leggera, i miglioramenti delle retribuzioni, la campagna per il dissodamento delle terre vergini.
Così pure le misure intese a combattere il prepotere della burocrazia (pur rimaste senza successo). Infine, e soprattutto, la denuncia clamorosa (al XX e al XXII congresso del Pcus) dei “delitti e delle violazioni della legalità2 commessi sotto Stalin. Quella denuncia aveva lo scopo di rendere impossibile un ritorno al regime del terrore assoluto, sconfiggendo definitivamente quelli che, nel gruppo dirigente del Pcus potevano esserne gli assertori. Chiaramente dirette alla conquista del più ampio consenso furono la svolta nella politica estera con la proclamazione della possibile apertura di un’epoca di coesistenza pacifica a livello mondiale e, sul piano interno, la redazione di un nuovo programma del partito che annunziava l’inaugurazione dell’era del comunismo a partire dal 1980.
Naturalmente non è possibile qui procedere ad una analisi dettagliata e profonda di questo periodo, lo si ricorda solo per sottolineare che esso, pur mantenendo intatte, lo ripeto, le strutture di potere e il rapporto stato-società che erano stati costruiti a partire dalla fine degli anni ’20, operava in quell’ambito una svolta profonda, nel senso di ricondurre il sistema ad una sua normalità repressiva di dominio ma anche di conati egemonici, escludendo il ricorso ad amministrare mediante il terrore. In questo senso si può dire che il khrusciovismo, riproponendo come attuali per quel sistema, la ricerca e la conquista del consenso passivo ed attivo, segnò un momento importante per la fuoriuscita dall’universo del terrore staliniano. Sottolineo «dal terrore staliniano», non dal sistema istituzionale-politico, non dal rapporto stato-società costruiti nel periodo staliniano.
Entro quell’ambito la inveterata rigidità del sistema cominciò ad essere intaccata dalla apertura di limitati spazi di iniziativa decentrata. Ciò avveniva con il controllo e per impulsi «dall’alto» per cui non si può parlare, a mio avviso, come pure da qualche parte si è fatto, di «pluralismo embrionale». È vero pero che la rinunzia al tenore come strumento essenziale del potere apriva la strada e rendeva possibile, e perfino necessaria una articolazione di snodi fra stato e società e all’interno di questa.
Il fatto più rilevante fu l’allentamento della pressione statale sui contadini (una volta assolti gli obblighi verso gli ammassi, adesso potevano decidere sull’uso delle proprie risorse, il che implicava una certa libertà nelle scelte produttive e una estensione di rapporti con la sfera di mercato); il fatto più vistoso fu un certo rilassamento del controllo ideologico cui corrispose una limitata ripresa di libertà intellettuale (il «disgelo») nelle arti e nella ricerca storica e scientifica, come pure una nuova, e più ampia circolazione di informazione (fu ripresa, fra l’altro, la pubblicazione dei resoconti stenografici dei dibattiti del comitato centrale del Pcus, che era stata interrotta dal 1928). 
Si riaprì anche la discussione pubblica sui problemi di fondo dell’economia, in particolare il rapporto fra pianificazione e mercato. Tutti questi spiragli saranno presto chiusi, già negli ultimi anni di Khrusciov, non senza però aver contribuito alla nascita di fenomeni come il “dissenso” e il “samisdat”.


“il manifesto”, 28 aprile 1984

25.4.16

La poesia del lunedì. Trilussa (Roma 1871 - 1950)

Er disarmo
- Se faranno il disarmo generale
- barbottava la Vipera! - è finita!
Er veleno che ciò va tutto a male.
Nun m'arimane che una via d'uscita
in una redazione de giornale... -

Er Porcospino disse: - Certamente
puro per me sarebbe un guaio grosso:
perché, Dioguardi je venisse in mente
de levamme le spine che ciò addosso,
nun resterei che porco solamente!

da Da la guerra a la pace (1914-1919), in Lupi e agnelli - Le favole . Nove poesie, Mondadori, 1952

Gli elogi funebri (Leonardo Sciascia)

In un vecchio, indimenticabile film di Duvivier che si svolge in una casa di riposo per attori, alla morte di Michel Simon (non ricordo i nomi dei personaggi, e perciò do loro quello degli attori), Victor Francen ne deve fare l’elogio: comincia col dirlo grande attore, inarrivabile interprete; ma ad un certo punto si ferma, dice: “No, non posso dire questo”; e allora sorge, dalla verità l’elogio più vero e commovente. E così dovrebbe essere sempre e per tutti.


Dal “Corriere della sera”, 12 settembre 1982 in A futura memoria, Bompiani/RCS libri, 1989/2012

Presidenti USA. Il “memento” delle oligarchie (Luciano Canfora)

Il 9 novembre 1992, all’indomani dell’elezione dopo la lunga era reaganiana di un presidente democratico, il «Wall Street Journal», influente portavoce degli ambienti economici non solo statunitensi, pubblicava la seguente diagnosi, che appariva anche come un memento: «Sebbene non eletti, anonimi, e spesso non americani, i grandi artefici di investimenti finanziari, dovunque nel mondo detengono ormai un potere senza precedenti, forse anche un diritto di veto, sulla politica economica degli Stati Uniti». Il nuovo presidente veniva, così, esortato a non illudersi di attuare liberamente la sua politica economica, argomentata e valorizzata durante la campagna elettorale.


Da Manifesto della libertà, Sellerio, 1994

Cervantes e la sua maschera (Carmelo Samonà)

Fra la vita di un uomo e la sua opera letteraria esiste una relazione complessa: legami che sentiamo intimi e irrevocabili e che tuttavia non hanno nulla di ovvio. Leggiamo un romanzo, un poema; indebitamente, forse, ma con umana curiosità, ci interroghiamo sull'individuo-scrittore che è dietro di essi; e il più delle volte ne siamo ripagati con un viaggio in un territorio infido, che spesso ci confonde le carte della lettura o ci costringe a grossolane approssimazioni. Il rischio, però, non ci scoraggia.
Quando l'artista di cui invochiamo un profilo attendibile si chiama Miguel de Cervantes (e perciò è in gioco una parte profonda della nostra stessa identità culturale) il problema si fa più acuto, ma nella sua incertezza, nella sua eventuale oscurità o torbidezza, anche più affascinante. Ed è logico che continuiamo a chiederci: chi era in realtà, come viveva, cosa pensava l'uomo dalla cui mente è uscito uno dei grandi miti della civiltà moderna?
Dopo secoli di ricerche pazienti, l'autore del Don Chisciotte è ancora, per noi, una personalità in controluce: una figura sfumata, sfuggente, che i dati in nostro possesso non affrancano da lacune insidiose, da pregiudizi tenaci e spesso contraddittori. Si è detto che era un borghese, un eroico soldato, un discendente di ebrei convertiti. Si è visto in lui un geniale improvvisatore (un ingenio lego), poi un letterato colto, di solida formazione umanistica. E ancora: un tendenziale laico con propensioni erasmiane, un cattolico di stretta osservanza, un reazionario, un ribelle. Le sue opere abbondano di memorie indirette dell'uomo così come dell'epoca in cui visse, ma sono un coacervo di ambiguità e di doppi messaggi per chi intenda ricavarne indizi, suggerimenti obbiettivi. E i presunti ritratti? Perfino questi ci ingannano: dei due attribuiti a Jauregui, uno è senza dubbio un falso, l'altro non ritrae Cervantes, a quanto pare, ma un certo conte de Uceda...
Com'era, dunque, il volto di questo autore che si nasconde al nostro sguardo, di questo hidalgo povero, che negli anni fra il Cinque ed il Seicento si sposta incessantemente per la Spagna di Filippo II e III e sembra simulare o rincorrere, scrivendo, la saldezza di un decoro sociale che stenta a realizzarsi? Probabilmente, il massimo poeta della letteratura spagnola fu anche un personaggio emblematico: un uomo che attestò con i suoi gusti, col suo carattere, con la sua stessa precarietà economica, un trapasso storico di mentalità e di culture.
Ma che cos'è in gioco esattamente, quando ne scrutiamo i pochi eventi che ci sono noti? La decadenza dell'universalismo cattolico e dell'egemonia spagnola in Europa? Quella disfatta o tramonto della seconda cavalleria che Arnold Hauser, in un'acuta pagina della Storia sociale dell'arte, vide non soltanto nel Don Chisciotte ma anche nei modi e nei disagi sociali del suo grande autore? O anche qualcosa d' altro?
[...] Immaginiamo Cervantes giovane poco dopo la metà del Cinquecento: oscuro cavaliere in cerca di fortuna, costretto, forse, a difendersi dalla taccia di cristiano nuevo (quell'origine ebraica che segna un discrimine sociale ineludibile, allora, per chiunque ne venga sospettato); transfuga, prima, in Italia, poi soldato nell'armata che sconfigge i turchi a Lepanto dov'è ferito e perde l'uso di una mano; quindi rapito dai pirati barbareschi e trasportato ad Algeri, dove resta in cattività per cinque anni, finché un riscatto non gli consente di tornare in patria e di iniziare, finalmente, la carriera letteraria. E' come leggere una vita romanzata, un novella d' avventure a metà fra picaresca e moresca...


“la Repubblica”19 luglio 1987  

Nessuno muore contento (Beniamino Placido)

Doveva essere il secolo della lucidità, della consapevolezza, della conoscenza di sè, questo secolo ventesimo che volge alla fine, il "secolo di Freud"; e invece è il secolo che è riuscito a realizzare la più colossale delle rimozioni: la rimozione della morte. Non ne parliamo, non ci pensiamo. L'abbiamo banalizzata, l'abbiamo ridotta a un evento privato, da liquidare con burocratica sveltezza. L'abbiamo sdrammatizzata. Ne abbiamo fatto un evento asettico, "normale". Chi di noi spende più di una parola - sbrigativa, per di più - con l'amico che ha perduto una persona cara? Ben venga quindi questo convegno milanese su La morte, oggi, che la Provincia di Milano (con la collaborazione del Centre Culturel Franais e con il patrocinio del Cnr) ha organizzato e che si apre oggi; durerà ancora domani e dopodomani. Ci sarà (in spirito) evocato in più di una conferenza, Philippe Ariès, lo "storico della morte". Ci sarà, di persona, Michel Vovelle, altro insigne "storico della morte". Ci saranno tanti altri; a parlare del nostro atteggiamento nei confronti della morte, e di come esso è cambiato nel corso della storia. È un convegno più che opportuno: se non si ha un buon rapporto con la morte, si finisce con l'avere un pessimo rapporto con la vita.
Ma qual è un buon rapporto con la morte? Ecco, qui si intravede un pericolo, già leggendo il programma del convegno. Il pericolo che corriamo - non per demerito del convegno o dei convegnisti, ne sono sicuro, ma per demerito nostro, che semplifichiamo tutto e troppo - è quello di costruire un altro discorso nostalgico (l' nnesimo). C'è stato un tempo in cui la paura della morte non c'era, e quindi non si avvertiva il bisogno di rimuoverne la consapevolezza. Poi è arrivata la società industriale... eccetera. Se questo dovesse accadere, avremmo commesso il solito errore. Avremmo appena smesso di sognare un paese lontano dove non esisteva la proprietà privata né la competizione: e tutti vissero felici e contenti, per costruire un altro paese non meno immaginario dove non c'era né timore né rimozione della morte: e tutti morivano felici e contenti. No, nessuno muore (né è mai morto, né mai morirà) felice e contento.
È vero, c'è stata una società preindustriale in cui la morte veniva vissuta in modo radicalmente diverso da come viene vissuta oggi nelle nostre città industriali o industriose. Chi l'ha conosciuta, quella civiltà, lo ricorda. Ed aggiungo subito: questo è l'unico punto in cui quelle società erano migliori, più ricche, più umane dell'odierna società urbana, industriale. Il pranzo del "consolo" Quando il corteo funebre attraversava la piazza del paese, il barbiere, il tabaccaio, il cartolaio staccavano dal muro le chiavi, abbassavano le saracinesche, chiudevano il negozio, si accodavano al funerale. Più tardi, al ritorno dal cimitero, i congiunti del defunto avrebbero trovato a casa il "pranzo del consòlo". Si supponeva che essi non avessero cuore né per cucinare né per mangiare (quasi che volessero lasciarsi morire anche loro...). Qualcuno - i parenti, gli amici - aveva pensato a loro, si era preoccupato della loro sopravvivenza. Così poco a poco, lentamente ma irresistibilmente, quella "festa di morte" si convertiva in una "festa di vita", di vitalità, di solidarietà. Questo rituale - bellissimo, efficace - non c' è più. Non solo perché si trattava di società contadine e paesane (in una società cittadina, industriale, il tabaccaio non può chiudere il negozio senza rischiare una denuncia; e altrettanto dicasi del benzinaio). Ma anche perché quelle erano società intensamente religiose. "E la morte che sarà? tutto il mondo è vanità", cantavano le fanciulle nelle processioni. Se si è religiosi, se si crede (ma se si crede davvero) nella trascendenza, la morte perde una parte almeno della sua terribilità.
Ma solo una parte, non tutta. "Tutti vogliono andare in paradiso, ma nessuno vuole morire", si diceva proprio in quelle società, che pure non erano sprovviste dei conforti della religione. Si può morire con maggiore o minore eleganza (elegantissima la madre di Goethe; alla cameriera che le portava l'invito per un ricevimento: "dica che non posso, ho da fare. Dica che la signora Goethe è occupata a morire"), ma proprio allegramente, proprio serenamente, morire non si può. Si potrebbe tutt'al più accettare la morte, ma a patto di non morire del tutto. A patto di poter assistere - curiosi - al proprio funerale. "Vorrei morire e non vorrei la morte; vorrei vedere chi mi piange forte", dice una vecchia filastrocca popolare. Morire da una parte per rinascere dall' altra: non è il tema del Fu Mattia Pascal di Pirandello? E non è anche il tema di una canzonetta di Jannacci? "Si potrebbe andare tutti insieme al tuo funerale/Per vedere se la gente poi piange davvero/E capire che per tutti è una cosa normale/E vedere di nascosto l' effetto che fa. / Vengo anch' io? No, tu no".
No, non si può assistere al proprio funerale. Anche per questo la morte non è una cosa "normale". Per nessuno, in nessuna società. E' questa irrimediabilità della morte (appena temperata dal fatto che ognuno di noi - come capiva Miguel de Unamuno -, anche il più miscredente, un filino di speranza in una vita ulteriore ce l' ha), è questo senso della irrimediabilità della morte, dicevo, che fa crollare miseramente tutti i tentativi di "consolazione filosofica", anche i più antichi, i più classici. Come quello del filosofo greco: che m' importa della morte? "Quando ci sono io, lei non c'è. Quando lei arriverà, allora non ci sarò più io". Che sciocchezza: ma è proprio questo che mi dispiace: di non esserci più, di scomparire, da un certo momento in poi. Come quello del mistico medievale: perché preoccuparsi del momento della morte? Si muore un po' ogni momento, si comincia a morire fin dalla nascita. Che consolazione: morire in una volta sola o un po' alla volta non fa una grande differenza: è il morire in sé, che non va giù. Come quello di non so chi (e anche di Croce), che suona: meno male che si muore; pensate quanto sarebbe insopportabilmente noioso vivere in eterno.

Spiegazione biologica
Beh, questo proprio non si può accettare. Se vivessimo in eterno, ne sono convinto, diventeremmo sempre più vecchi, più smaliziati, più saggi. Non avremmo più né guerre, né suicidii. Ci suicidiamo e guerreggiamo proprio per illuderci di rovesciare il nostro rapporto subalterno con la morte. Di passare noi dalla parte dei padroni (della vita). Io sono più forte della morte, sono io a darla. Io sono più forte della morte, sono io a darmela. Forse non faremmo nemmeno le rivoluzioni, le nostre rivoluzioni sempre sanguinarie e spesso inutili. Che sono motivate da tante cose, certo. Ma anche dalla voglia di rinascere, di rifare il mondo daccapo, di negare la morte (esiste un libro molto bello ed a me molto caro di Robert Jay Lifton. Si intitola: L'immortalità rivoluzionaria: Mao Tse-tung e la rivoluzione culturale cinese. Per ora ne accenno soltanto, ne parlerò semmai un' altra volta).
E devo dire che persino la consolazione letteraria (quella che fa dire a Proust che se ci si porta dentro fino alla fine una cosa bella come la "petite phrase" della Sonata di Vinteuil, la morte avrà "quelque chose de moins amer, de moins inglorieux, de moins probable"), persino questa consolazione letteraria non tiene. Non siamo Marcel Proust. Non tutti. E lo sappiamo benissimo.
La verità è che dobbiamo morire - è inevitabile - per far posto agli altri. "Preparati a far spazio agli altri come gli altri lo hanno fatto a te". Così dice Montaigne. E' una spiegazione biologica. Di fronte ad essa ci arrendiamo. Però, è sicuro che a noi è stato fatto abbastanza spazio, che ci è stato concesso abbastanza tempo? Non si potrebbe prolungare un pochino, non si potrebbe ottenere un rinvio?... ("Non c' è nessuno tanto vecchio che non speri di vivere un giorno di più". Cicerone). No, non c' è proprio nessuna cosa che ci possa rappacificare con l'idea della morte. Nemmeno il convegno di Milano. E in fondo la cosa più giusta sull' argomento è ancora quella detta da La Rochefoucauld: "La morte e il sole non si possono guardare in faccia". Oppure, per porla nei termini di Francesco di Sales: "quello della morte non è un pensiero con il quale si possa coabitare ogni giorno". E se lo diceva lui, vissuto in una società preindustriale dove c' era il "pranzo del consòlo", dove c' erano i conforti della religione (era un mistico, un santo), dev'essere proprio vero. No, non si può guardare fissamente il sole, non ogni giorno. Ma si può ricordare che c' è; si può raccontare a se stessi (tanto per consolarsi) che è lui, in fondo, a dare la vita; si possono di tanto in tanto sollevare gli occhi in su, socchiudendoli, per vedere se è ancora lì. Mi auguro che il convegno di Milano sia uno di questi momenti.


la Repubblica, 24 maggio 1984

18.4.16

La poesia del lunedì. Giovanni Giudici (1924 - 2011)

La ragazzetta che voleva mostrarmi una cosa
innocente benché misteriosa - noi due
sotto il letto accucciati sul freddo pavimento
- mi sussurrava « aspetta » - era soltanto un gioco
diverso un poco dagli altri - ma lì entrando
la sua sorella più grande alzò la coperta ci vide
gridò corse a chiamare venne gente
- mai più giocammo insieme noi che semplicemente...

Da La vita in versi. L'educazione cattolica, II in Poesie scelte (1957-1974), Oscar Mondadori 1975

Dopo il referendum (S.L.L.)

Sarebbe un errore attribuire l'insuccesso dei referendum petroliferi solo alla disinvolta e furbesca indicazione astensionistica del capo del governo, alla disinformazione organizzata e all'obiettiva, scivolosa, marginalità della materia. Il fatto è che, prodotto dalla crisi economica, dalla personalizzazione della politica, dalla fine dei partiti di massa, c'è un diffuso analfabetismo politico di ritorno e il nuovo analfabeta rifiuta la complessità, ha bisogno di semplificazioni. Sul tema particolare mi pare che abbia fatto presa l'argomentazione più immediata, quella secondo cui se il petrolio e il metano sono nei nostri mari è meglio estrarli e sfruttarli, invece di importarli, dato che per un periodo di alcuni lustri dei combustibili fossili non si potrà fare a meno per le automobili, il riscaldamento e molti impianti industriali. Probabilmente - e io me ne sono convinto - erano più forti le ragioni dei referendari; non di quelli che pretendevano l'immediata rinuncia al petrolio e al metano e un miracoloso, immediato passaggio di tutto il sistema di produzione e di consumo alle energie rinnovabili, ma di quelli che entravano nello specifico delle concessioni. Ma queste ragioni richiedevano argomentazioni complesse, che "la gente" non ha voglia di seguire.
Credo che questo sia un insegnamento per il prossimo referendum istituzionale. Sarà quasi impossibile vincere un referendum che ha per oggetto riforme che sembrano ridurre il peso degli apparati politici e semplificare le procedure attraverso l'abolizione delle province e il ridimensionamento del Senato. Si avrà un bel dire che si tratta di riforme pasticciate, che - connesse con la riforma elettorale - incidono sull'equilibrio dei poteri, sulla stessa democrazia. Servirà a poco: intanto perché il referendum sulle riforme costituzionali si svolge immediatamente e prescinde dalla legge elettorale, su cui si voterà (se si voterà) l'anno venturo.
Lo schema per cui il NO alle riforme renziane coalizzerebbe tutti i voti d'opposizione, da quelli leghisti, postfascisti e berlusconisti a quelli dei grillisti e della residua sinistra, non funziona. Gli elettori, in larga maggioranza, non seguono più le indicazioni dei partiti e votano in maniera diversa, al secondo del tipo di voto, politico, amministrativo o referendario. Non credo peraltro che nella campagna referendaria i leghisti, i berlusconiani o i grillisti metteranno più impegno e più risorse di quelli, scarsi, visti all'opera nel referendum antitrivelle.
La semplificazione ipermaggioritaria e autoritaria che viene disegnata dalle riforme costituzionali ed elettorali corrisponde alle aspirazioni delle vecchie destre e i 5 Stelle non hanno ancora deciso se contrastarla con tutte le loro forze o se rinviare alle elezioni politiche la "resa dei conti", avvantaggiandosi delle nuove regole che potrebbero favorirne l'affermazione e la "presa del potere".
Credo che s'illudano se pensano che Renzi, una volta acquisito un sì nel referendum costituzionale, sia disponibile a lasciarsi logorare. Forte dei suoi successi di "riformatore", dopo una finanziaria piena di demagogiche elargizioni e sconti fiscali, tenterà il colpaccio delle elezioni politiche con l'ITALICUM nei primi mesi del prossimo anno e procederà dopo alla "normalizzazione" definitiva con leggi antisindacali ed altre che riconducano all'obbedienza la magistratura, soffocandone l'indipendenza.
Questi sono, visibilmente, i progetti dei renzisti e dei poteri mondiali, europei e italiani che affidano allo "statista di Rignano" il compito di liquidare lo "stato sociale", di privatizzare tutto il privatizzabile, di impoverire, prima di diritti e poi di redditi, i poveri, di frantumare ulteriormente la resistenza del mondo del lavoro. Andranno in porto? Se ci fosse una situazione economica e militare stabilizzata nel mondo e in Europa, si potrebbe rispondere sì; ma chi non si rassegna allo svuotamento del patto costituzionale, al nuovo regime oligarchico, pur partendo da condizioni oggettive di debolezza, deve puntare sull'ipotesi più favorevole e lavorare per non trovarsi impreparato alle opportunità che potrebbero aprirsi.
La prima cosa da fare è rafforzare la mobilitazione intorno alle riforme costituzionali ed elettorali. La scadenza del referendum costituzionale è determinante, non solo per l'importanza oggettiva della posta in gioco, ma anche per l'opportunità che offre di far crescere nuove energie democratiche intorno alla difesa dei valori costituzionali e alla loro attualizzazione nelle nuove condizioni dell'Italia e del mondo.
Giovedì a Perugia discuteremo all'Archivio di Stato una bella raccolta di "Scritti politici" di Capitini, grande pensatore democratico e socialista talora dimenticato talaltra frainteso: credo che alcune delle sue indicazioni di metodo possano risultare utilissime nella situazione attuale, specie quelle sull'esperienza dei COS, sulla formazione e sull'educazione politica delle moltitudini come fondamento del "potere di tutti". Da lì bisogna ripartire, dal basso, da esperienze diffuse di partecipazione e di lotta politica e sociale.

L'ode oraziana per la morte di Cleopatra nel mio dialetto

Moneta di Cleopatra
Ora putiemmu viviri e abballari
senza pinsera e addrumari cannili
a tutti li putenzi di lu celu.
Vinni l'otta, cumpagni.

Primu nun si putiva mancu ràpiri
lu vuttacciuolu di lu vinu viecchiu
ch’era sarbatu ‘nni la cantineddra.
Ora si po' scialari.

Nun si putiva quannu la rigina,
ccu ddri mpistati ca purtava appriessu,
foddri vulìa abbissari Campidogliu,
suttamintiri Roma.

S’avìa ‘mbriacatu di bona furtuna
e ci parìa lu munnu tuttu chianu;
ma di tutti li navi ch’iddra avìa,
si la scansà una sula,

ca tutti l’atri distrudì la vampa
e ci fici capiri a la spustata,
ch’era futtuta ‘ntesta pi lu vinu,
chiddru c’avìa a capiri.

L’assicutava di l’Italia Cesari,
cu tutti li so navi com’un ticciu
c'assicuta un palummu o un cacciaturi
ca va appriessu a lu liebbru.

Cesari lu vuliva ncatinari
stu castigu di ddìu, ma la rigina
nun si scantava mancu di la spata
e morsi comu n’omu.

La vosi la so morti e nun circaiu
un pirtusu, na cala ammucciateddra,
d'unna fujrisinni cu la varca.
Ma senza tuculiari

taliavia lu palazzu ca s'abbissa
e nun si spagnava di maniari
lu schirsunieddu ca la muzicà
di niuru vilenu.

Morsi superba e nun ci vosi dari
lasu a Cesari di purtarisilla
ncatinata ppi sfreggiu strati strati,
iddra ch’era rigina. 

Riveduta e corretta.