Un articolo di un anno fa, per farsi
un'idea del problema degli asili nido pubblici, sempre più grave. Credo che difenderli e rilanciarli sia una scelta di civiltà e di sinistra vera. (S.L.L.)
A Cesano Boscone, Comune
di poco meno di 25mila abitanti della cinta milanese, dal 25 marzo
gli asili nido pubblici non esistono più. Per risparmiare, la
maggioranza di centrosinistra ha votato la concessione dei servizi ai
privati. Più a Sud, a Empoli, il Comune da poco ha annunciato la
chiusura di uno dei due nidi della città. E a rischio chiusura c’è
pure il primo nido d’Italia, nato a Modena nel 1969, inaugurando
quello che sarebbe diventato il famoso “modello emiliano”. «Per
la prima volta a Modena i nidi chiudono anziché aprire», ha
commentato un consigliere comunale.
Era il 1 settembre 2014
quando il premier Matteo Renzi annunciava l’arrivo di «mille asili
nido in mille giorni». Da allora, mentre il governo lavora ancora ai
decreti della Buona scuola che vorrebbero aumentare la diffusione dei
servizi della prima infanzia (vedi l’altro articolo nella pagina
seguente), qualche nuovo nido è stato sì aperto tra Napoli, Firenze
e Milano, ma in altre parti d’Italia tante strutture stanno anche
chiudendo. Tra scarsità di fondi, ma anche di bambini. La ragione
non è solo il calo delle nascite. Con la crisi, a fronte di rette
mensili che nella media italiana sono sui 300 euro ma che in alcuni
casi superano i 500-600 euro, le famiglie ritirano i bambini o
rinunciano alle iscrizioni. E in molti casi l’uscita del figlio dal
nido significa anche la rinuncia al lavoro da parte della mamma (il
tasso di inattività femminile in Italia è del 46%).
In base ai dati
dell’associazione Cittadinanzattiva, in media una famiglia italiana
spende 311 euro al mese per mandare il bambino al nido comunale.
Nell’anno scolastico 2014-2015 la regione più economica è stata
la Calabria, con rette medie di 164 euro, la più cara la Valle
D’Aosta, con una spesa media di 440 euro.
A decidere il prezzo dei
nidi sono i Comuni. Ma mentre dal governo si spinge per la
costruzione di nuove strutture, i sindaci devono vedersela con la
riduzione dei trasferimenti statali e i limiti alle assunzioni. E se
le casse piangono, a rimetterci spesso sono i servizi. Ogni anno, nel
bilancio di previsione, le amministrazioni locali definiscono la
percentuale di copertura del costo che i genitori devono affrontare:
minori sono le risorse a disposizione, maggiori sono le rette
richieste. Secondo l’Istat, la percentuale di compartecipazione
alla spesa da parte delle famiglie è aumentata negli anni fino a
coprire nel 2012 un quinto del costo totale. E dopo ha continuato a
crescere. «Oggi la tariffa applicata agli utenti si aggira intorno
al 30% del costo», spiega Tina Napoli di Cittadinanzattiva.
E se i prezzi più
elevati si trovano nelle città del Nord Italia, è al Sud che le
amministrazioni comunali nell’ultimo anno hanno rincarato
maggiormente il costo dei servizi. Con picchi del +18% in Calabria.
Solo a Cosenza, il Comune ha aumentato le rette del 117,3 per cento.
«Molte volte», spiega Napoli, «le amministrazioni locali in
difficoltà decidono di non tagliare i servizi ma di aumentare i
costi, in alcuni casi evitando di chiudere un nido o di abbassare il
livello del servizio». È accaduto a Viareggio, ad esempio: il
comune commissariato aveva deciso di risparmiare aumentando le
tariffe dei nidi di circa 100 euro. I genitori sono ricorsi al Tar,
che ha annullato la delibera. A Imola, invece, l’amministrazione ha
rivisto il sistema a scaglioni in base all’Isee, aumentando le
rette sopra i 25mila euro. Al contrario, a Biella hanno cercato di
rispondere alla fuga degli iscritti abbassando la retta di 20 euro
per tutti. E la stessa cosa hanno fatto a Vercelli, dove le tariffe
massime sono calate ma le minime sono raddoppiate.
E così come variano i
prezzi, da Nord a Sud varia anche l’offerta. In base agli ultimi
dati Istat relativi all’anno scolastico 2012-2013, oltre la metà
dei nidi comunali si trova nelle regioni settentrionali, mentre solo
il 19% è nel Mezzogiorno. In media, i bambini italiani tra 0 e 2
anni che usufruiscono del servizio di asilo nido comunale sono solo
l’11,9 per cento. Percentuale ben lontana dagli obiettivi del
consiglio europeo di Barcellona del 2002, che prevedeva di
raggiungere la quota del 33% di bambini sotto i tre anni al nido
entro il 2010. E in alcune regioni i numeri sono ancora più
distanti: si va dalla copertura massima del 24,8% dell’Emilia
Romagna fino al minimo del 2% della Campania (secondo l’Osservatorio
di Cittadinanza attiva, su dati Istat).
Nel 2007 il governo Prodi
destinò per i nidi oltre 600 milioni di risorse statali in tre anni,
facendo aumentare i livelli di copertura dal 9 all’11 per cento. «È
la testimonianza che se si investono soldi, la domanda cresce», dice
Antonia Labonia, membro dell’associazione Gruppo nazionale Nidi e
infanzia. Finito il piano straordinario, però, i finanziamenti sono
tornati a galleggiare intorno ai 70-100 milioni l’anno. Fino al
vuoto della legge di stabilità del 2016, che non prevede
finanziamenti ad hoc per le strutture della prima infanzia.
Così, la vera novità a
proposito di nidi è che le famiglie hanno cominciato a rinunciarci.
Nel 2011, l’Istat per la prima volta dal 2004 ha registrato un calo
di iscrizioni ai nidi, continuato l’anno successivo con 8.400
bambini in meno. «I Comuni in difficoltà economiche hanno aumentato
i prezzi», dice Laura Branca, presidente dell’associazione Bologna
Nidi. «Ma non tutti possono permettersi questa spesa, così in tanti
decidono di rinunciarci». È un circolo vizioso: le rette salgono, i
genitori ritirano i bambini, e in alcuni casi i Comuni chiudono le
strutture per scarsità d’utenza. Per l’anno 2015-2016, come
riporta il report Mille nidi in mille giorni di Bologna Nidi, persino
a Reggio Emilia, famosa per la qualità dei suoi asili, sono rimasti
13 posti liberi e le strutture hanno cominciato a chiudere.
Ma in questo caso si
tratta di situazioni nelle quali l’offerta partiva da un livello
alto. Caso raro, in Italia. Nella media, nonostante il calo delle
iscrizioni il 19% dei bambini italiani resta in lista d’attesa, con
un picco del 67% in Basilicata. Secondo i calcoli della Funzione
pubblica Cgil, oltre 900mila bambini in Italia sono esclusi dai nidi.
Non solo: il tempo pieno in Italia è garantito nell’87% dei
capoluoghi italiani. In città come Potenza, Matera, Crotone, Lecce e
Cagliari, i nidi sono disponibili solo per sei ore al giorno. Senza
alcuna flessibilità oraria. Per il resto della giornata, le famiglie
devono arrangiarsi. «E in Italia alternative ai nidi non ce ne sono
molte», spiega Labonia. «Ci sono le ludoteche, ma solo dai tre anni
in su, e i baby parking, dove si può lasciare il bambino per qualche
ora ma senza finalità educative».
La legge di stabilità
del 2015 aveva previsto un finanziamento da 100 milioni di euro da
destinare ai nidi. Pochi spiccioli, che però sarebbero stati utili.
Peccato che le Regioni abbiano aspettato fino a maggio per accordarsi
sulla ripartizione dei fondi, che sono arrivati a destinazione solo a
dicembre. Non solo l’effetto non si è visto. Ma in molti casi i
Comuni hanno usato i soldi per coprire le spese già sostenute.
Per contenere le spese di
gestione dei nidi, i Comuni hanno spesso esternalizzato il servizio,
dandolo in concessione o in appalto a gestori privati e cooperative.
Da Nord a Sud, da Cesano Boscone a Catania. «Circa la metà dei
comuni che ha attivato il servizio di asilo nido comunale opta per
una gestione affidata a servizi terzi», spiega Tina Napoli. «La
ragione principale è sicuramente la maggiore sostenibilità a
livello di costo, soprattutto derivante dalla riduzione dei costi di
struttura». Con il passaggio dalla gestione diretta a quella
indiretta, la spesa per le casse comunali si dimezza: se i Comuni
spendono in media poco più di 9mila euro annui a bambino, con gli
appalti a terzi si scende a 4mila euro (anche se la retta per le
famiglie cala in media di soli 300 euro circa).
A Biella, la scorsa
estate i genitori hanno protestato contro la decisione
dell’amministrazione comunale di esternalizzare due dei quattro
nidi della città. Ma dal Comune hanno risposto che era l’unica
soluzione: il risparmio previsto è di 150mila euro in un anno. In
altre città, invece, come Ancona e Firenze, anziché appaltare tutto
il servizio, è stata data in concessione solo una parte: la mattina
i bambini sono con le educatrici comunali, il pomeriggio con quelle
del gestore privato.
«Il privato il più
delle volte ha costi inferiori per i risparmi effettuati sul
personale, che di solito ha contratti peggiorativi», dice Branca.
«Le educatrici dei gestori privati a volte sono meno formate di
quelle pubbliche. E con i contratti precari, c’è un turnover
continuo che certo non aiuta i bambini».
Per garantire una qualità
accettabile del servizio, il Cnel ha individuato il costo minimo per
bambino, che oscilla tra i 4 e i 6 euro all’ora. Per una spesa
totale di minimo 850 euro al mese. «Sotto questa cifra, il rischio è
che il servizio non sia di qualità», dice Labonia. «Significa che
si risparmia sui contratti e la preparazione del personale, sulla
qualità della struttura e degli alimenti». Eppure è accaduto che i
comuni abbiano dato in concessione i servizi dei nidi a prezzi
inferiori a questa cifra. A Roma, sotto la giunta Alemanno, i nidi
sono stati appaltati con una base d’asta di 480 euro al mese a
bambino. «Questa cifra di sicuro non permette il rispetto degli
standard minimi», dice Labonia. E il Comune, che è quello che
dovrebbe controllare la qualità dei servizi, è lo stesso che
sottoscrive le concessioni al ribasso.
Pagina 99 - 16 aprile
2016
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