Giorgio Amendola con Palmiro Togliatti |
Giorgio Amendola morì
nel 1980. Fece a tempo per dissentire da Berlinguer sull'intervento
sovietico in Afghanistan, difendendone il carattere progressivo, ma
non a farsi classificare come kabulista, essendo morto subito dopo.
Un paio di anni dopo la pubblicazione di ben due raccolte di suoi
scritti politici favorì un forte ritorno di attenzione e alcuni
convegni, in cui compagni e avversari con diversi accenti ne
esaltavano la personalità. Luigi Pintor pubblicò sul “l'Espresso”
l'intervento che segue, acuto e ottimamente scritto seppure non privo
di qualche acidità. (S.L.L.)
Giorgio Amendola con Giancarlo Pajetta nel 1946, davanti a Montecitorio |
Giorgio Amendola verrà
santificato? Se non fosse stato un laico assoluto, correrebbe questo
rischio. Tra tutti i dirigenti comunisti del passato, Togliatti
compreso, è quello che viene ricordato con più ammirazione e
simpatia, l’una e l'altra quasi incondizionate. I suoi libri di
memorie, con quel fitto intreccio di esperienza personale e vicenda
politica, lo hanno avvicinato alla sensibilità comune. Alla raccolta
di scritti e discorsi, anche occasionali, si accompagnano prefazioni
che farebbero arrossire il destinatario, sebbene non peccasse di
modestia. I suoi richiami alla responsabilità nazionale hanno
assunto un valore testamentario, immettendolo a pieno titolo nel
novero dei padri della Repubblica, anche se nella Repubblica il suo
partito non è legittimato a governare. Se fosse vissuto qualche anno
di più, e un presidente audace avesse prima o poi osato incaricarlo
di formare un governo, sarebbe stata una scelta molto imbarazzante.
È vero che, quando si è
scomparsi, si ricevono elogi che in vita non ci si sogna neppure
(sebbene ai più potenti capiti anche il contrario, di essere prima
idolatrati e poi dissacrati). È anche vero che la figura e le
posizioni di Amendola sono evocate volentieri a sproposito, per
polemiche di comodo. Ma, nel suo caso, non si tratta di
riconoscimenti postumi, la sua individualità essendo sempre apparsa
in una luce favorevole, e avendo sempre esercitato un'attrazione. Né
sarebbe serio spiegare la cosa con la battuta maliziosa che Mao mi
pare riservasse una volta al suo primo ministro (questo Ciù piace un
po’ troppo ai capitalisti...), perché se Amendola è lodato dagli
avversari non meno che dagli amici, a mostrarsi sensibile al suo
fascino è però l’insieme del mondo democratico, compresi molti di
quei giovani impazienti verso i quali non si può dire ch’egli
fosse indulgente.
È un fenomeno
comprensibile. Giorgio Amendola aveva infatti una personalità forte,
tanto quanto era imponente la sua figura fisica: molto più di una
"testa dura", come con civetteria si definiva, anche se
forte non vuol sempre dire ricca. Questa forza sconfinava volentieri
nella prepotenza, che però nell’arena politica è considerata una
virtù, un dovere e comunque una necessità, quando si accompagna a
salde convinzioni. Il suo itinerario politico, la sua migrazione dal
mondo familiare alla milizia rivoluzionaria, egli l’ha vissuto come
esclusivo, simbolico di un trapasso storico, il proletariato erede
della borghesia e classe dirigente nazionale: dalle sue pagine
autobiografiche si coglie benissimo questo pieno sentimento di sé.
Sebbene uomo di parte da
capo a piedi, aveva però un’attitudine diplomatica, una
comunicativa, che lo hanno mantenuto in consuetudine con uomini di
ogni formazione, rappresentativi di tutta la cultura politica
nazionale: in parte per privilegio di nascita, ma anche per
inclinazione e gusto suo. Negli "anni della repubblica",
infine, tutti sanno come queste virtù e altre cose abbiano
consentito ad Amendola di porre un suo "accento", come
prudentemente diceva, sulla politica comunista, un accento così
marcato da soverchiare gli altri: irruente e populista negli anni più
lontani, moderato e severamente pedagogico in quelli più vicini, per
lo meno all’orecchio di moltissima gente (e in politica, si sa,
l’apparenza è verità). Con questo bagaglio, non può stupire che
Amendola sia entrato nella memoria nazionale.
Confesso invece che mi
stupii alcuni anni fa quando trovai tra gli appunti di Giaime Pintor,
mio fratello, che con Amendola si era incontrato nei giorni
precedenti l’armistizio, un accenno all’impressione di
«eccezionali capacità, unite a un carattere in fondo assai
piacevole», che il leader comunista gli aveva lasciato. Capii il
giudizio sulle capacità, molto meno quello sul carattere. Ora, tendo
a credere che la diversa impressione sia dipesa dal fatto che quegli
incontri del 1943 non avvennero alle Botteghe Oscure, voglio dire non
avvennero all’interno di un rapporto di partito e del suo ordine
gerarchico. Una regola, un meccanismo, che col carattere delle
persone ha poco a che vedere, se non in quanto può oscurare
facilmente i dati migliori ed esaltarne i meno buoni.
Di lavorare con Amendola
non mi è capitato, tra i dirigenti del partito non era di quelli che
avessero contatti diretti con “l'Unità” e più tardi nel
comitato centrale credo mi considerasse più che altro un
rompiscatole. Quando però nacque la questione del “Manifesto”
ricordo il suo fastidio, una sorta di severo sprezzo (come racconta
di suo padre con lui, quando da scolaro tralignava). Non se ne occupò
affatto in termini politici, senza nascondere però di aver decretato
il nostro allontanamento dal primo momento, molto prima di
Berlinguer. E tolse il saluto.
Perché no, è quasi
impossibile essere uomo d’azione e di comando, un combattente e
fors’anche solo un politico di successo, senza adottare un certo
stile. Mi pare dì poter dire che nel vecchio gruppo dirigente del
partito, sotto questo aspetto, facessero eccezione solo Togliatti,
che aveva troppo profondo il senso della propria superiorità per
essere altezzoso o intimidatorio, e Grieco, di cui ricordo una
sensibilità diversa, un’altra indole, causa forse non ultima della
sua sfortuna politica. Eppure Amendola amava molto esortare al
coraggio e alla franchezza delle opinioni e deplorare la sconvenienza
del conformismo. Col sottinteso, tuttavia, che franchezza e pluralità
aprano solo contraddizioni secondarie, entro un ordine convenuto, le
contraddizioni primarie essendo per principio infeconde e insane in
un organismo politico (e perfino nella società, quando non ci sia
uno spirito giacobino pronto a governarle). Nonché alle modeste
discordie intestine degli anni '50 e '60, questo è il criterio di
valutazione che Amendola applica immancabilmente alle più insensate
vicende e la cerazioni degli anni '30, quando le sfiora, nella sua
storia del partito, per riportarle sempre a una regola rispettabile e
riscattarle tutte in una logica superiore. Che è, poi, la faccia
negativa della "diversità”.
Mi pare nel 1977, quando
lo rividi per un confronto sugli ultimi sussulti del movimento
giovanile, sul malessere della società e della Repubblica, anche a
me apparve invece benevolo. Disse «ho piacere di rivederti qui»,
accennò fuggevolmente alla pesantezza con cui capita a volte di
agire nella lotta politica, disse divertito che aveva perso tempo
cercando di spiegare a qualcuno «che strano animale è questo nostro
partito, né leninista né socialdemocratico» (o forse strano perché
leninista e socialdemocratico insieme, ma non osai tanto). Era ancora
in forma ma, credo, già malato, e l’incontro mi è tornato alla
mente quando nelle pagine di Una scelta di vita la figura del
padre appare al figlio appunto meno lontana, mutata nell’aspetto ma
anche nell’atteggiamento per l'avvicinarsi della fine. Di rado la
gentilezza si accompagna all’esuberanza e al potere, più spesso al
distacco.
Meno veemente, non era
però meno invulnerabile e impermeabile al dubbio. Impossibile farlo
convenire su quel che a me pareva e pare evidente, che i mali del
mondo non sono diminuiti ma cresciuti, fosse anche solo perché si
vedono molto di più, che le nuove generazioni non hanno maggiori ma
minori speranze, e che se troppi conti non tornano dovremmo pur
rifarli, per capire che cosa non funziona. Ogni argomento si
rovesciava nel suo contrario, basta saper misurare il cammino
compiuto non dimenticando il punto di partenza, e valutando prezzi ed
errori come un pedaggio che non può inficiare la direzione di
marcia. Nemico famoso delle "ricette” politiche, non se n’era
lasciata dietro le spalle nessuna delle sue che l’hanno reso
famoso, sulla produzione, il lavoro, lo studio, con le categorie
connesse della tenacia, della volontà, della disciplina. Anche
quella conversazione avrebbe potuto concludersi come un tempo, con
un’ombra appena di ironia, si concludevano i suoi discorsi — e
ora compagni al lavoro e alla lotta (che poi vuol dire basta con
le chiacchiere).
Credo tutto sommato che
questo ottimismo storico, questa linearità di giudizio, questo
apparato concettuale o atteggiamento che escludono ogni problematica
non riconducibile alle proprie certezze e finalità, sia il nocciolo
duro di tanta cultura comunista. Parrebbe paradossale, nel suo caso,
chiamare questo nocciolo dogmatismo e schematismo, perché in lui si
combinava a elasticità politica, e semmai era accusato di empiria.
Come parrebbe paradossale ridurre a settarismo, o peggio a faziosità,
il suo spirito di parte. È una cosa più complessa, una concezione
provvidenziale della storia e del partito, che chiamerei
giustificazionismo se non fosse una brutta parola. In questa ottica,
anche il socialismo possibile e sfumato del futuro e il socialismo
reale e plumbeo del passato si possono concepire come paralleli, o
complementari, o in armonica successione, oggi si direbbe senza
strappi, come fu per Amendola fino all'ultimo. Felice Fortunato (come
lui si nominò in clandestinità) è chi sia capace di questa
filosofia, di questa equazione di realtà e razionalità: ammirevole
non so, invidiabile certamente.
Forse, in passato, avrei
politicamente definito Amendola un «bolscevico di destra». Ma le
definizioni sono sempre arbitrarie, di rado pertinenti e spesso
deformanti. Di sicuro Amendola ha avuto una buona vita, e ha lasciato
di sé un’immagine forte. Eviterei di iscriverlo in una leggenda,
che non è rendere un buon servizio a nessuno, come forse anche tra i
padri della Repubblica, non perché non lo meriti o perché i padri
della Repubblica non siano tutti variamente degni, ma perché
gravemente sospeso è il giudizio sulla loro creatura. Questa
Repubblica non è una gran donna. Sarebbe meglio che soprattutto di
lei ci si preoccupasse, senza attribuire ai genitori scomparsi né
più virtù né più peccati di quel che loro spetta, senza
inventarci favolosi lasciti o comodi alibi.
L’ESPRESSO - 10 OTTOBRE 1982
L’ESPRESSO - 10 OTTOBRE 1982
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