30.1.18

Amendola. La festa di San Giorgione (Luigi Pintor)

Giorgio Amendola con Palmiro Togliatti
Giorgio Amendola morì nel 1980. Fece a tempo per dissentire da Berlinguer sull'intervento sovietico in Afghanistan, difendendone il carattere progressivo, ma non a farsi classificare come kabulista, essendo morto subito dopo. Un paio di anni dopo la pubblicazione di ben due raccolte di suoi scritti politici favorì un forte ritorno di attenzione e alcuni convegni, in cui compagni e avversari con diversi accenti ne esaltavano la personalità. Luigi Pintor pubblicò sul “l'Espresso” l'intervento che segue, acuto e ottimamente scritto seppure non privo di qualche acidità. (S.L.L.)
Giorgio Amendola con Giancarlo Pajetta nel 1946, davanti a Montecitorio
Giorgio Amendola verrà santificato? Se non fosse stato un laico assoluto, correrebbe questo rischio. Tra tutti i dirigenti comunisti del passato, Togliatti compreso, è quello che viene ricordato con più ammirazione e simpatia, l’una e l'altra quasi incondizionate. I suoi libri di memorie, con quel fitto intreccio di esperienza personale e vicenda politica, lo hanno avvicinato alla sensibilità comune. Alla raccolta di scritti e discorsi, anche occasionali, si accompagnano prefazioni che farebbero arrossire il destinatario, sebbene non peccasse di modestia. I suoi richiami alla responsabilità nazionale hanno assunto un valore testamentario, immettendolo a pieno titolo nel novero dei padri della Repubblica, anche se nella Repubblica il suo partito non è legittimato a governare. Se fosse vissuto qualche anno di più, e un presidente audace avesse prima o poi osato incaricarlo di formare un governo, sarebbe stata una scelta molto imbarazzante.
È vero che, quando si è scomparsi, si ricevono elogi che in vita non ci si sogna neppure (sebbene ai più potenti capiti anche il contrario, di essere prima idolatrati e poi dissacrati). È anche vero che la figura e le posizioni di Amendola sono evocate volentieri a sproposito, per polemiche di comodo. Ma, nel suo caso, non si tratta di riconoscimenti postumi, la sua individualità essendo sempre apparsa in una luce favorevole, e avendo sempre esercitato un'attrazione. Né sarebbe serio spiegare la cosa con la battuta maliziosa che Mao mi pare riservasse una volta al suo primo ministro (questo Ciù piace un po’ troppo ai capitalisti...), perché se Amendola è lodato dagli avversari non meno che dagli amici, a mostrarsi sensibile al suo fascino è però l’insieme del mondo democratico, compresi molti di quei giovani impazienti verso i quali non si può dire ch’egli fosse indulgente.
È un fenomeno comprensibile. Giorgio Amendola aveva infatti una personalità forte, tanto quanto era imponente la sua figura fisica: molto più di una "testa dura", come con civetteria si definiva, anche se forte non vuol sempre dire ricca. Questa forza sconfinava volentieri nella prepotenza, che però nell’arena politica è considerata una virtù, un dovere e comunque una necessità, quando si accompagna a salde convinzioni. Il suo itinerario politico, la sua migrazione dal mondo familiare alla milizia rivoluzionaria, egli l’ha vissuto come esclusivo, simbolico di un trapasso storico, il proletariato erede della borghesia e classe dirigente nazionale: dalle sue pagine autobiografiche si coglie benissimo questo pieno sentimento di sé.
Sebbene uomo di parte da capo a piedi, aveva però un’attitudine diplomatica, una comunicativa, che lo hanno mantenuto in consuetudine con uomini di ogni formazione, rappresentativi di tutta la cultura politica nazionale: in parte per privilegio di nascita, ma anche per inclinazione e gusto suo. Negli "anni della repubblica", infine, tutti sanno come queste virtù e altre cose abbiano consentito ad Amendola di porre un suo "accento", come prudentemente diceva, sulla politica comunista, un accento così marcato da soverchiare gli altri: irruente e populista negli anni più lontani, moderato e severamente pedagogico in quelli più vicini, per lo meno all’orecchio di moltissima gente (e in politica, si sa, l’apparenza è verità). Con questo bagaglio, non può stupire che Amendola sia entrato nella memoria nazionale.
Confesso invece che mi stupii alcuni anni fa quando trovai tra gli appunti di Giaime Pintor, mio fratello, che con Amendola si era incontrato nei giorni precedenti l’armistizio, un accenno all’impressione di «eccezionali capacità, unite a un carattere in fondo assai piacevole», che il leader comunista gli aveva lasciato. Capii il giudizio sulle capacità, molto meno quello sul carattere. Ora, tendo a credere che la diversa impressione sia dipesa dal fatto che quegli incontri del 1943 non avvennero alle Botteghe Oscure, voglio dire non avvennero all’interno di un rapporto di partito e del suo ordine gerarchico. Una regola, un meccanismo, che col carattere delle persone ha poco a che vedere, se non in quanto può oscurare facilmente i dati migliori ed esaltarne i meno buoni.
Di lavorare con Amendola non mi è capitato, tra i dirigenti del partito non era di quelli che avessero contatti diretti con “l'Unità” e più tardi nel comitato centrale credo mi considerasse più che altro un rompiscatole. Quando però nacque la questione del “Manifesto” ricordo il suo fastidio, una sorta di severo sprezzo (come racconta di suo padre con lui, quando da scolaro tralignava). Non se ne occupò affatto in termini politici, senza nascondere però di aver decretato il nostro allontanamento dal primo momento, molto prima di Berlinguer. E tolse il saluto.
Perché no, è quasi impossibile essere uomo d’azione e di comando, un combattente e fors’anche solo un politico di successo, senza adottare un certo stile. Mi pare dì poter dire che nel vecchio gruppo dirigente del partito, sotto questo aspetto, facessero eccezione solo Togliatti, che aveva troppo profondo il senso della propria superiorità per essere altezzoso o intimidatorio, e Grieco, di cui ricordo una sensibilità diversa, un’altra indole, causa forse non ultima della sua sfortuna politica. Eppure Amendola amava molto esortare al coraggio e alla franchezza delle opinioni e deplorare la sconvenienza del conformismo. Col sottinteso, tuttavia, che franchezza e pluralità aprano solo contraddizioni secondarie, entro un ordine convenuto, le contraddizioni primarie essendo per principio infeconde e insane in un organismo politico (e perfino nella società, quando non ci sia uno spirito giacobino pronto a governarle). Nonché alle modeste discordie intestine degli anni '50 e '60, questo è il criterio di valutazione che Amendola applica immancabilmente alle più insensate vicende e la cerazioni degli anni '30, quando le sfiora, nella sua storia del partito, per riportarle sempre a una regola rispettabile e riscattarle tutte in una logica superiore. Che è, poi, la faccia negativa della "diversità”.
Mi pare nel 1977, quando lo rividi per un confronto sugli ultimi sussulti del movimento giovanile, sul malessere della società e della Repubblica, anche a me apparve invece benevolo. Disse «ho piacere di rivederti qui», accennò fuggevolmente alla pesantezza con cui capita a volte di agire nella lotta politica, disse divertito che aveva perso tempo cercando di spiegare a qualcuno «che strano animale è questo nostro partito, né leninista né socialdemocratico» (o forse strano perché leninista e socialdemocratico insieme, ma non osai tanto). Era ancora in forma ma, credo, già malato, e l’incontro mi è tornato alla mente quando nelle pagine di Una scelta di vita la figura del padre appare al figlio appunto meno lontana, mutata nell’aspetto ma anche nell’atteggiamento per l'avvicinarsi della fine. Di rado la gentilezza si accompagna all’esuberanza e al potere, più spesso al distacco.
Meno veemente, non era però meno invulnerabile e impermeabile al dubbio. Impossibile farlo convenire su quel che a me pareva e pare evidente, che i mali del mondo non sono diminuiti ma cresciuti, fosse anche solo perché si vedono molto di più, che le nuove generazioni non hanno maggiori ma minori speranze, e che se troppi conti non tornano dovremmo pur rifarli, per capire che cosa non funziona. Ogni argomento si rovesciava nel suo contrario, basta saper misurare il cammino compiuto non dimenticando il punto di partenza, e valutando prezzi ed errori come un pedaggio che non può inficiare la direzione di marcia. Nemico famoso delle "ricette” politiche, non se n’era lasciata dietro le spalle nessuna delle sue che l’hanno reso famoso, sulla produzione, il lavoro, lo studio, con le categorie connesse della tenacia, della volontà, della disciplina. Anche quella conversazione avrebbe potuto concludersi come un tempo, con un’ombra appena di ironia, si concludevano i suoi discorsi — e ora compagni al lavoro e alla lotta (che poi vuol dire basta con le chiacchiere).
Credo tutto sommato che questo ottimismo storico, questa linearità di giudizio, questo apparato concettuale o atteggiamento che escludono ogni problematica non riconducibile alle proprie certezze e finalità, sia il nocciolo duro di tanta cultura comunista. Parrebbe paradossale, nel suo caso, chiamare questo nocciolo dogmatismo e schematismo, perché in lui si combinava a elasticità politica, e semmai era accusato di empiria. Come parrebbe paradossale ridurre a settarismo, o peggio a faziosità, il suo spirito di parte. È una cosa più complessa, una concezione provvidenziale della storia e del partito, che chiamerei giustificazionismo se non fosse una brutta parola. In questa ottica, anche il socialismo possibile e sfumato del futuro e il socialismo reale e plumbeo del passato si possono concepire come paralleli, o complementari, o in armonica successione, oggi si direbbe senza strappi, come fu per Amendola fino all'ultimo. Felice Fortunato (come lui si nominò in clandestinità) è chi sia capace di questa filosofia, di questa equazione di realtà e razionalità: ammirevole non so, invidiabile certamente.
Forse, in passato, avrei politicamente definito Amendola un «bolscevico di destra». Ma le definizioni sono sempre arbitrarie, di rado pertinenti e spesso deformanti. Di sicuro Amendola ha avuto una buona vita, e ha lasciato di sé un’immagine forte. Eviterei di iscriverlo in una leggenda, che non è rendere un buon servizio a nessuno, come forse anche tra i padri della Repubblica, non perché non lo meriti o perché i padri della Repubblica non siano tutti variamente degni, ma perché gravemente sospeso è il giudizio sulla loro creatura. Questa Repubblica non è una gran donna. Sarebbe meglio che soprattutto di lei ci si preoccupasse, senza attribuire ai genitori scomparsi né più virtù né più peccati di quel che loro spetta, senza inventarci favolosi lasciti o comodi alibi.

L’ESPRESSO - 10 OTTOBRE 1982  

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